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August 21, 2020
Daniele Girardi e il camminare come scelta politica di decrescita
Francesca Fattinger
È il 1967 quando Richard Long realizza A Line Made By Walking, una linea disegnata calpestando l’erba del prato: “l’azione lascia una traccia sul terreno, l’oggetto scultoreo è completamente assente, il camminare si trasforma in forma d’arte autonoma”[1]. Da questo momento in poi è avvenuto un passaggio fondamentale nell’arte contemporanea. È con Long che si è passati dall’oggetto alla sua assenza, per lui l’arte consiste nell’atto stesso del camminare, nel compiere l’esperienza dello spazio. Con e dopo di lui artisti come Hamish Fulton, Ron Griffin, Daniele Girardi hanno fatto dell’atto di camminare una pratica estetica per relazionarsi e conoscere l’ambiente naturale attorno a sé. Per questo motivo la scelta del titolo del progetto biennale realizzato in collaborazione con Panza Collection, APT Val di Non e Urbs Picta è ricaduto su A Line Made by Walking. I curatori Jessica Bianchera, Pietro Caccia Dominioni e Gabriele Lorenzoni hanno messo a punto un programma allargato di attività per il pubblico nel 2020 e la mostra A Line Made by Walking. Pratiche immersive e residui esperienziali in Long, Fulton, Griffin, Girardi, che si terrà tra giugno e ottobre 2021. La mostra sarà realizzata in collaborazione con Panza Collection presso quattro strutture castellari della Val di Non, con particolare attenzione per Castel Belasi, dove sarà allestito il nucleo centrale della mostra.
Per avvicinarsi alla mostra e allargare la riflessione sui temi del viaggio, dell’esplorazione, del cammino e della relazione uomo-natura, il progetto, come detto sopra, si espande proponendo un public program fatto di interventi ed esperienze pubbliche tra arte, letteratura, cinema e scoperta del territorio della Val di Non.
La linea di pensiero che percorre l’intero progetto è il suo nascere per indagare la relazione tra il viaggio come scoperta di un territorio e il camminare come esperienza estetica. Per questo è stata fondamentale per il progetto la residenza artistica di Daniele Girardi, uno dei protagonisti della mostra nel 2021: i suoi lavori si inseriscono in un dialogo tra linguaggi e generazioni, dandoci l’occasione di mettere a confronto le azioni degli anni Settanta con le pratiche contemporanee. Tutta la ricerca di Daniele Girardi si fonda su un viaggio senza fine, “una sovversione silenziosa fatta di semplici gesti quotidiani” che incidono sulla sua ricerca e la trasformano costantemente al di fuori di una volontà progettuale, facendosi guidare invece dal camminare come scelta politica di decrescita.
Ho avuto il piacere di fargli alcune domande nel dettaglio sull’esperienza conclusa da poco nella Val di Non e sulla sua pratica in generale.
Si parla del tuo come di un inedito percorso di ricerca, stimolato da residenze artistiche, o meglio nel tuo caso da wild residencies, sempre più diffuse e richieste nel mondo artistico contemporaneo, come opportunità e strumento di attivazione site specific. Cosa sono per te e che ruolo giocano nella realizzazione dei tuoi progetti?
Più di 10 anni fa, grazie a una residenza negli Stati Uniti, ho iniziato a viaggiare per poi addentrarmi sempre di più nelle zone selvagge; non avevo veramente idea di dove mi avrebbe portato questa scelta ma ho seguito quella strada perché mi sembrava, per quanto irrazionale, la più ragionevole per me in termini di necessità.
Le mie residenze sono immersioni nella wilderness, ultimi baluardi naturali e remoti dal punto di vista antropico. Se all’inizio erano il tramite per la ricerca di uno studio nomade poi sono diventate il lavoro stesso: un agire presente sul posto, un site-specific ambientale.
Si è appena conclusa la tua residenza nell’ambito del progetto “A Line Made by Walking”. A poche ore dalla fine dell’esperienza, ci racconti su che cosa hai lavorato e su cosa lavorerai? Ci puoi dare qualche anticipazione? Come hai raccolto il testimone di due grandi walking artists come Richard Long e Hamish Fulton?
A differenza di altre pratiche, non parto mai con l’idea e il concetto di realizzazione. In caso, essa si concretizza solo nella necessità del momento o a partire da quello che ho a disposizione. Stare ed esplorare un luogo è di per sé il lavoro stesso.
Il fine non è il risultato formale e visivo ma esperienziale e l’incognita è un valore aggiunto e suggestivo di un passaggio nella natura.
Al termine delle mie esperienze ho sempre dei tempi molto dilatati di sedimentazione del vissuto per poi riportarne, in caso, una memoria o una traccia; non anticipo i tempi per non snaturare il processo fisiologico di elaborazione di un’esperienza. La mia è una scelta politica di decrescita, come il camminare.
A distanza di anni, raccogliere il patrimonio culturale di questi grandi artisti e rapportarmi con loro è la fisiologica conseguenza di un percorso ma saranno il lavoro, la ricerca, il tempo e gli “addetti ai lavori” a tracciare questa corrispondenza.
Ad ora, per me, è come fare una camminata con grandi ed esperti compagni di viaggio.
I tuoi progetti comprendono disegni, diari di bordo, oggetti, installazioni, video e tanto altro. In essi mi sembra di percepire un sottile equilibrio tra progettazione dell’esperienza, esperienza vissuta nello spazio, nella natura e nel corpo ed estensione e archiviazione della stessa: questi tre momenti del tuo processo estetico come si relazionano tra loro?
Per comprendere il significato delle varie fasi guardo il punto in cui affondano le loro radici nell’esperienza.
Tutte hanno una loro importanza – dalla preparazione all’archiviazione ad esempio – e si collegano una all’altra con un moto circolare; come un mandala che partendo dal centro si genera per poi dissolversi. L’imprevedibilità che cerco nella natura destabilizza la volontà progettuale, il resto non dipende da me ma da quello che succede.
Ambienti, oggetti e i diversi materiali documentativi raccontano un’epica del loro vissuto, sono una testimonianza e una conseguenza di una serie di azioni e rapporti originati nel percorso.
Nel caso dell’esperienza in Val di Non si aggiungono al tuo occhio, al tuo corpo e alla tua esperienza quelli del filmaker Emanuele Gerosa, che ha seguito la residenza creando un lavoro filmico. Cosa è cambiato rispetto ai tuoi viaggi solitamente solitari?
Premetto che non è mai rientrato nel mio interesse spettacolarizzare le pratiche di ricerca, anzi, ho sempre cercato di tutelarle dalla tendenza mediatica e di liquida condivisione del momento Emanuele Gerosa è un caro amico e, conoscendomi da anni, è riuscito ad accompagnarmi senza interferire; come un albero o un “selvatico” mi ha studiato e seguito con le dovute distanze, mimetizzando il medium. Siamo entrambi stati degli ospiti silenziosi nell’ambiente.
Un’ultima domanda, che in realtà contiene tutte le precedenti. Nella tua biografia si legge che la tua ricerca attuale si basa “sulla relazione tra esperienza e visione in direzione di una progressiva e totalizzante compenetrazione tra arte e vita”. È davvero possibile unire arte e vita? Tu come ci riesci?
Quello su cui lavoro è imprescindibile dallo stile di vita. Se all’inizio le incursioni nella natura erano cadenzate da viaggi e residenze, negli ultimi anni si sono radicate nel quotidiano. Ora abito alla fine di una strada isolata, poi iniziano i boschi. Quello che cerco si può realizzare solo vivendo lontano dal caos; la ricerca e il pensiero, hanno bisogno di spazi e silenzio, per potersi muovere liberamente e ritrovare il legame con la natura. Cerco di preservarmi dalla sterilità di una vita indaffarata considerando solo il necessario. Una sovversione silenziosa fatta di semplici gesti quotidiani che incidono sulla mia ricerca.
Foto copertina di Francesca Padovan
Emanuele Gerosa – 2020 – still da video
Daniele Girardi – 2020 – assemblaggio materiali vari
Daniele Girardi – Silent subversion kit – 2018 – Courtesy Collezione Caccia Dominioni
[1] Francesco Carreri, Walkscapes, Camminare come pratica estetica, Piccola Biblioteca Einaudi
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