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June 30, 2023
Se il paesaggio è simbolico:
Il progetto espositivo di Linda Carrara a Trento
Francesca Fattinger
Questa felce è santa per la sua mortalità, per la sua fragilità, per il fatto che incontrerà il deperimento. Cosa fare di meglio se non salutare coloro che sono con noi in questo transitare? Sarebbe bello imbastire tutta una conversazione attorno a questa felce… il mondo è pieno di visioni che attendono gli occhi. Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo
Non potevo scrivere questo articolo in un luogo qualsiasi. Non potevo non scriverlo in un luogo in cui la natura non mi abbracciasse e mi circondasse con il suo profumo, i suoi suoni, le sue vibrazioni, i suoi canti e i suoi sussurri. Ho aspettato di potere essere immersa nelle sfumature di verde, di luce e ombre. Dovevo scriverlo in mezzo a quell’abbraccio, a quel calore attorno ai miei contorni, a quel suo farsi e disfarsi a ogni soffio di vento, in mezzo alle fronde luminose danzanti e tremanti sopra e attorno a me, al mio pensiero e al mio ricordo, in mezzo al sottofondo costante di paesaggi naturali in espansione e contrazione, a ritmo. E così sono nel bosco e sono anche tra e nelle opere esposte, adesso e fino al 28 luglio, alla Galleria Boccanera di Trento, in occasione della mostra “Se il paesaggio è simbolico” a cura dell’artista Linda Carrara.
Il potere dell’arte è saper entrare nel vuoto tra un pensiero e l’altro, tra una giornata e l’altra, tra un evento e l’altro della vita, negli interstizi che la quotidianità scava tra un dovere e l’altro, tra una corsa e l’altra. L’arte, quella che ti fa sostare, meditare, rallentare, lei attecchisce in quegli spazi e poi quando meno te l’aspetti fiorisce e ti smuove dall’interno. Così mentre sfoglio il catalogo della mostra, sfoglio anche il ricordo di me all’interno della Galleria e sfoglio anche le posture del mio corpo e del mio pensiero davanti alle tele, alle sculture e alle installazioni dei sei artisti e artiste esposte: Giuseppe Adamo, Linda Carrara, in veste di artista e contemporaneamente di curatrice, Silvia Giordani, Lorenzo Di Lucido, Vera Portatadino e Fabio Roncato. Le sfoglio e, mentre le mie mani e i miei occhi vagano, si intrecciano le immagini dentro e fuori di me, mescolate al cinguettio degli uccelli e allo scintillio del verde.
Mi chiedo se il paesaggio possa essere altro se non simbolico, possa essere altro se non capovolgimento continuo di sguardo, specchiato e riflesso, riflesso e specchiato, se possa essere altro se non uncino che pesca dentro ai nostri abissi, paesaggi umani fatti di carne, sangue e sentimenti. Manca solo l’acqua al paesaggio in cui sono immersa, acqua così importante per Linda Carrara, acqua che sento però scorrere dalle radici fino ai tronchi nelle foglie tremanti lassù nel cielo, che sento scorrere dentro di me nel pulsare del sangue, acqua che scorre nascosta all’occhio, ma che racchiude l’incantamento, il segreto e il messaggio palindromo che l’artista suggerisce nella scelta delle opere esposte:
“Di fronte a quel sottilissimo velo riflettente che separa due dimensioni ben distinte, il reale e la sconosciuta profondità, noi siamo di fronte ad un limbo ineguagliabile. Restiamo così affascinati dal vedere sottosopra, da quella visione sdoppiata che risulta sacra e diabolica allo stesso tempo, essendo la perfetta simmetria immagine di perfezione ma anche simbolo demoniaco per eccellenza. La superficie dell’acqua ci parla dunque della superficialità delle immagini e, così facendo, ci apre le porte alla profondità, a quell’immensa distesa che sta sotto allo strato del visibile e che cela qualcosa che i nostri occhi sono impossibilitati a vedere ma che la nostra mente ama e teme immaginare”.
Ed ecco che il sentimento duale sacro e diabolico ancorato alla superficie dell’immagine, di cui parla la curatrice, permea ogni mio incontro faccia a faccia, corpo a corpo, con le opere in mostra: estasi e spaesamento, tremore e ancoramento, immanenza e altrove.
Giuseppe Adamo con le sue pennellate sembra operare continui atti chirurgici in cui corpo umano e naturale si confondono, segni che ricordano costati, ritmi che rimandano ai crop circles dei campi di grano, a pareti di roccia erosa ma anche a cerchi concentrici attorno a un sasso lanciato sulla superficie immobile dell’acqua, e ancora a ritmo di respiri o a strade di pelle che si increspano con il tempo. Linda Carrara realizza un’arte per sottrazione, si sottrae per far avanzare la natura, si fa ponte, veicolo per lo slancio, ali invisibili tra la natura e noi, che ci fanno alzare in volo per incontrarla e accoglierla senza schiacciarla, tele come respiri naturali e umani che si incontrano e si srotolano davanti al nostro sguardo, per far sì che la natura si faccia arte e l’arte si faccia natura senza soluzione di continuità.
Silvia Giordani allo stesso modo lascia la materia pittorica esprimersi liberamente, imitando ciò che il tempo e la geologia fanno con la roccia e con la terra, il suo gesto istintivo crea campiture, delinea contorni e racchiude spazi che fanno apparire nella materia pittorica paesaggi senza tempo e che il tempo tutto racchiudono.
Lorenzo di Lucido scolpisce sulle sue tele distese di verdi vibranti che di luce vivono, soffrono e urlano, danzano, gioiscono e muoiono; le sue pennellate invitano l’occhio a immergersi e perdersi, a rivelarsi e nascondersi, invitano il corpo a spostarsi, a far ombra e far a luce, a trasformarsi. Vera Portatadino con tocchi sottili, semplici e piccolissimi racconta paesaggi minimi e delicati, ricami di punteggiature finissime, pittura che si fa tessuto, trame in cui terra, petali e fili d’erba mi sembrano sussurrare melodie e ninna nanne fatate e ancestrali accompagnate da un vento dolce e lieve.
Fabio Roncato infine lascia spazio all’energia trasformativa del fiume: sono le correnti del fiume Trebbia che imprimono corpo alla materia, la fissano in posa, l’artista ne è testimone e regista, e la materia morbida e duttile si trasforma finché bloccata non racchiude in sé quell’energia in trasformazione e mutamento, bloccata in pareti danzanti e accartocciate di materia che si riversa nei nostri occhi, correnti che danzano la materia tra corpo e vuoto, calma silenziosa e rumore incastrato tra i suoi confini, mappe in continua geologica trasformazione.
E così guardare una felce che si muove nell’aria, mortale e fragile e per questo scrigno vibrante di vita, che si riflette nel suo danzare in uno specchio d’acqua, e conversare con lei, come suggerisce Christian Bobin nella citazione a inizio articolo, per abitare poeticamente il mondo, è come lasciarsi andare alle superfici pittoriche e scultoree che nel verde e del verde si alimentano. Immergersi e lasciarsi sprofondare, per perdersi o ritrovarsi, chissà.
Credits (1,2,3,4,5,6): Luca Meneghel.
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