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July 15, 2023

“Dal Futurismo all’Informale” e viceversa capolavori nascosti del Mart al MAG di Riva

Francesca Fattinger

Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono tutti alle ferite. Perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci fa cantati, cantati dalla vita cruda.
Chandra Livia Candiani, Questo immenso non sapere

Questo è uno dei passaggi più intensi che mi sia capitato di incrociare nelle mie letture, me lo sono scritto su un foglio e appeso per giorni davanti a me, come a volerne cogliere sempre più profondamente un’epifania nascosta tra le righe. Da mesi avrei voluto usarlo per iniziare un articolo e adesso sento che è il momento giusto. È il momento perché mi permette di introdurvi a una mostra che racconta di questo: racconta di ferite, di gesti, ma anche di possibilità, di come artisti e materia si siano messi faccia a faccia e si siano plasmati a vicenda alla ricerca di una via per rimarginarsi, per ricostruirsi, per rinarrarsi. 

Dal Futurismo all’Informale. Capolavori nascosti nelle collezioni del Mart”è il titolo della mostra che ha inaugurato sabato 15  luglio e sarà visitabile fino al 29 ottobre al MAG – Museo Alto Garda, nata da un’idea di Vittorio Sgarbi, presidente del MAG e del Mart, e curata da Alessandra Tiddia, storica dell’arte e curatrice del Mart. I 36 capolavori invisibili fino ad ora, nascosti nei depositi infiniti del Mart, sono ora tornati alla luce grazie a questa collaborazione, per dialogare tra loro e con le visitatrici e i visitatori. Ogni sala è come il capitolo di un suggestivo racconto dell’arte italiana del Novecento, alla scoperta di come i linguaggi e l’espressività negli anni si siano trasformati rispondendo alle esigenze della storia e a quella degli artisti che in quella storia hanno vissuto e operato.

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Mi piace scombinare un po’ le carte in tavola e cominciare a raccontarvela, attraverso solo alcuni dei suoi protagonisti, immergendomi e invitandovi a immergervi con me dalla sua fine, in un percorso a ritroso che dal fondale materico e pieno di mistero dell’arte del secondo Novecento risale pian piano dal mare ribollente del segno e dell’astrazione per trovarne in superficie l’inizio della storia, le sue radici che nuotano, che restano un po’ a galla e che un po’affondano lassù in controluce. 

Parlando di ferite, come feritoie affacciate sull’infinito, nostro e del nostro intorno, e quindi su uno spazio di possibilità, mi sporgo sull’orlo dei tagli di Lucio Fontana. È sempre emozionante per me immaginarmi minuscola a camminare su quei bordi, in equilibrio sulla lacerazione della stoffa, su quella ferita così precisamente ritagliata sulla pelle della tela. L’invito a guardare oltre dell’artista è un appello ai nostri occhi per ribellarsi al qui e ora e saltare nel mondo dell’immaginazione calandoci in un altrove siderale, in grandi e immensi spazi lunari, che in quell’oltre sono racchiusi e che solo la ferita e l’interruzione della trama ci rendono accessibili. E poi ecco Alberto Burri che, interessato alle possibilità della materia, la mette alla prova portandola a oltrepassarsi e distruggendosi a testare i suoi limiti superandoli. Questo per testare anche se stesso come artista che intorno e sulla materia si muove grazie a una gestualità istintiva che metta in silenzio tutto dando voce solo alla relazione autentica gesto-opera. L’artista si cala così non solo nella precarietà della materia, ma anche nella propria e quindi in quella del tempo. Un tempo che è quello trascorso, quello presente e quello futuro, fragilmente e indissolubilmente legati nella distruzione e trasformazione della materia e quindi nei suoi resti o meglio nei suoi avanzi, che letteralmente avanzano, vanno avanti e in questo moto incontrano gli spettatori e le spettatrici. 

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Facciamo un salto dalla materia al segno, in questo viaggio a ritroso nel tempo e nel percorso espositivo, ma anche nelle ferite che hanno portato ad atti di trasformazione. In questa sezione vi nomino una delle artiste che più amo, l’unica artista donna presente in mostra, che negli ultimi anni sta prendendo il suo meritato spazio in vari contesti espositivi e museali. Lei è Carla Accardi, non solo artista ma anche esponente del neo-femminismo italiano: il suo segno è riconoscibile per la sua scomposizione, per il suo non voler dire altro se non se stesso. Un’artista che si distacca dalla realtà per sposare il segno, ma non un segno qualsiasi, un segno che dice se stesso senza bisogno di altri rimandi metaforici o contestuali: il suo segno è. Ogni volta che sono di fronte alle sue opere, siano tele o installazioni di materiali plastici, colorate o giocate sulla bi-cromia bianco e nero, mi sento di assistere alla rappresentazione di una sorgente, di un paesaggio primitivo, proprio perché originario; mi sembra di scorgervi l’apparato scheletrico di un mondo che sta per ricoprirsi di carne e significati, ma che in quella fotografia originale ci mostra solo la sua struttura, le note di una musica che ancora non sappiamo come suonare ma che è lì davanti a noi pronta a deflagrare.   

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Arriviamo a ritroso alla Seconda guerra mondiale che porta gli artisti italiani a percorrere due possibili strade: quella della figurazione e quella del gesto. Ne sono casi esemplari per la prima scelta Renato Guttuso e per la seconda Emilio Vedova. Potrei stare davanti a “Donna alla finestra” del primo o a “Ciclo 62-B.B.9” del secondoper interminabili minuti e scorgere in entrambi la stessa forza, la stessa energia e la stessa voglia di cambiamento, di sperimentazione, di rivolta. Entrambi antifascisti e iscritti al Partito Comunista Italiano cercavano nel proprio gesto pittorico una strada per liberarsi. In “Donna alla finestra” c’è tutto: c’è lo sporgersi, c’è il movimento, c’è la morte, c’è la vita, c’è il passato, c’è la storia, c’è la città, c’è il vuoto e ognuno di questi elementi è legato grazie al richiamo interno dei colori che danzano nei nostri occhi. Lo stesso accade nelle tele di Vedova in cui però è solo il gesto a farla da padrone assoluto per dar vita a una composizione allo stesso modo urlante e concitata, piena di energia e di resistenza.

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Ma da che cosa derivava questa necessità di trasformazione? Navigando i cicli e ricicli storici ci si rende conto di come nel primo dopoguerra ci sia stata invece la necessità per gli artisti di ritornare sui propri passi per immaginare una nuova figurazione, allontanandosi dalle velleità rivoluzionarie di cui fra poco parlerò che avevano lanciato semi a profusione, germogliati poi negli interstizi della storia e dell’arte. Un’arte quella del primo dopoguerra che fa del ritorno al figurativo anche un ritorno ai temi classici: il passato e i suoi linguaggi individuati come la propria ancora di salvezza. Giorgio de Chirico ne è l’esponente probabilmente più famoso che con la sua Metafisica ci conduce dentro le piazze italiane e poi ci spinge un po’ più in là. Nelle sue piazze incontriamo il classico ma anche il sogno, le radici ma anche lo scompiglio: colonne, edifici, statue, strade, biscotti, salvagenti, giocattoli in un gioco di scatole cinesi mai ferme, che si aprono e si chiudono, si riaprono e si richiudono, a ogni nostro battito di ciglia. 

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Prima di tutto questo, per finire e invitarvi così a ricominciare da capo a sostare tra i capolavori in mostra, ecco che tramite diversi artisti esponenti del movimento che tanto ha scombinato e tanto ha seminato, assistiamo alla distruzione e alla “ricostruzione futurista dell’universo”, una rivoluzione del pensiero e del gusto. I “Pappagalli” di Giacomo Balla, scelti come manifesto della mostra, racchiudono quella velocità, quel dinamismo, quella ricerca sulla luce e sui colori, e quindi sulla materia pittorica e sui suoi effetti ed essendo un olio su tela di arazzo ha in sé il senso di questo cambio di visione. Non esistono prima la pittura o la scultura e sotto l’arte applicata secondo una classifica, tutte le arti sono elevate allo stesso piano.  Questo sempre, anche nelle fasi successive all’inizio del Futurismo di cui questa opera è rappresentativa, per rispondere all’urgenza di questi artisti di concepire un’estetica quotidiana “altra”, che capovolgesse le linee, le forme e i contenuti e desse così vita alla sua rivoluzione.

Credits: (1, 2, 3, 4, 5, 6) Archivio fotografico Mart, Jacopo Salvi.

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