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March 7, 2014

L.I. Lingua Imperii: una caccia all’uomo, un viaggio nell’uomo, un dono all’uomo

Anna Quinz
Mercoledì 12 marzo per il terzo appuntamento con gli "Altri Percorsi" dello Stabile, avremo finalmente a Bolzano lo spettacolo "L.I. Lingua Imperii" di Anagoor. Uno spettacolo denso nei contenuti e ricco nella forma. Uno spettacolo che ha girato tantissimo, ha conquistato pubblico e critica e che anche solo per questo, deve essere visto assolutamente.

Ciò che ci sta a cuore in L. I. Lingua imperii è operare l’attivazione dei processi del ricordo attorno ad antiche odiose abitudini secondo le quali, nelle forme della caccia, alcuni uomini si sono fatti predatori di altri uomini e, ancora nel XX secolo, hanno intriso il suolo d’Europa del sangue di milioni di persone“. Già da queste prime battute, si può capire che lo spettacolo L.I. Lingua Imperii di Anagoor – compagnia di teatro di ricerca prodotta dalla Fies Factory, tra le più interessanti in Italia – che vedremo mercoledì 12 marzo non sarà cosa facile. Parlare di stermini, in particolare di quello degli ebrei da parte dei nazisti non è mai semplice. Un po’ perché il tema è denso e doloroso, un po’ perché il mondo dell’arte e della cultura – in tutte le sue forme – se n’è occupato così tanto e in così tanti modi che pare impossibile trovare ancora una via per farlo, senza scendere a compromessi con il pietismo, con le narrazioni stucchevoli o i facili colpi alle corde emozionali di ognuno. Eppure Anagoor ha deciso di sfidarsi su questo terreno difficile, affrontando la forza della materia con gli strumenti formali di cui da sempre dispongono e che da sempre caratterizzano il loro lavoro, complesso, brillante, efficace. E la sfida è vinta, visto quanto lo spettacolo ha girato nei teatri italiani, quanto pubblico l’ha visto, quanta critica l’ha osannato.
Inutile dire che è proprio il caso di presentarsi in teatro il prossimo mercoledì. Ne varrà la pena. Intanto però, per entrare un po’ più nell’universo creativo di Anagoor, vi riporto la mia chiaccherata con Simone Derai, regista dello spettacolo.

lingua imperi_anagoorSimone, lo spettacolo L.I. Lingua Imperii ha girato un sacco, la rassegna stampa è immensa e io che ancora non l’ho visto, ho già letto e sentito tantissimo. Quindi sono un po’ in difficoltà nel farti domande. Allora parto così: c’è ancora qualcosa da dire, che non sia stato detto su L.I.?

Credo e mi auguro di sì, nel senso che è un lavoro che procede per intrecci, senza offrire soluzioni. È come se in realtà le questioni si annodassero e avvinghiassero tra loro. Io ho la sensazione che non offrendo risposte ma domande, di volte in volte venga rinnovata la materia della quale è fatto. C’è poi da dire che ogni volta portiamo il lavoro davanti a un pubblico diverso e sono curioso di vedere cosa succederà a Bolzano, dove c’è un pubblico che ha conoscenza della lingua tedesca, visto che nell’opera sono preponderanti alcuni dialoghi in tedesco – interpretati peraltro da attori bolzanini. Dunque per noi è un’occasione ulteriore di confronto con la materia.

lingua imperi_anagoorEcco, appunto, la materia. È innegabilmente complessa e dura. Tanti l’hanno affrontata – chi meglio chi peggio – e tutti si sono scontrati con le difficoltà che si porta con sé. voi come vi siete mossi e perché siete arrivati a questa sfida?

La materia iniziale è stata il desiderio di riflessione sulla capacità dell’uomo di sopprimere l’altro. Inevitabilmente la traiettoria di lavoro ci ha condotto verso un tentativo di comprendere le grandi cacce all’uomo di ogni tipo, come genocidi e massacri che hanno costellato la storia della civiltà umana. In qualche modo bisognava restringere il campo e abbiamo dovuto fare i conti con la memoria di episodi storici a noi vicini. Però mettersi in moto e cercare di comprendere una materia di questo calibro il più delle volte paralizzava le gambe portando a un’inevitabile forma di imbarazzo, perché ci si rende conto di non avere gli strumenti per la comprensione profonda e ampia del fenomeno. Perché osservandolo – a livello psicologico, storico, sociologico – ci siamo accorti che sfuggono i confini della materia stessa. Più di una volta ci siamo chiesti: “cosa stiamo facendo, siamo autorizzati a farlo?”. Poi ci riprendevano la spinta e la necessità di tenere viva la memoria e riflettere, anche non avendo risposte o soluzioni. Dunque, con una buona dose di onestà, presentiamo il nostro lavoro e la nostra ricerca, offrendo per giustapposizione argomentazioni che accostate tra loro possono stridere, cozzare, invitando lo spettatore a riflettere sulla questione.

lingua imperi_anagoorCome avete costruito il lavoro di ricerca, essendo “testimoni lontani” dei fatti narrati?

Una delle scelte fondamentali è stata quella di ricorrere – nel momento in cui si sceglievano le parole da portare in scena – solo a parole di autori nati dopo gli anni ’40, che quindi non hanno vissuto direttamente, non sono stati testimoni della Shoa o di altri stermini, ma ne parlano e sentono la necessità di tornare a rifletterci. Questo per scegliere parole di persone, pensatori, artisti, uomini, che sono in una condizione analoga alla nostra, che non hanno vissuto sulla propria pelle ma che sentono continuamente l’urgenza di tornare su questi temi e parlarne. Questa è stata una scelta di campo fondamentale. Ma non significa che non ci siano altre figure di riferimento, come Primo Levi. Questo di cui si parla è uno strumento labile e ha la necessità di essere continuamente alimentato e di trovare nuove energie e nuovo impegno per far sì che non si perda né si sfilacci.

Parlavi delle parole che avete scelto. E già dal titolo dello spettacolo, si capisce che lingua e parole hanno un ruolo centrale in questo lavoro. Mi spieghi?

Tornado ai dialoghi che offrono la spina dorsale dello spettacolo, si è scelto di mettere in scena una sorta di agone tragico tra due personaggi che sono i protagonisti di un romanzo molto noto e discusso: Le Benevole di Jonathan Littell. In realtà i tre dialoghi sono tratti da un episodio di un romanzo fiume e sono sostanzialmente il racconto degli incontri tra il protagonista – un ufficiale delle SS – e un linguista contattato da una commissione dell’esercito, nel momento in cui, in procinto di invadere l’area caucasica, i tedeschi si sono imbattuti in una regione con un groviglio di etnie e lingue e sovrapposizioni culturali tali da non riuscire a districarsi in questo labirinto. L’area caucasica era chiamata dagli arabi la “montagna delle lingue”, perché raggruppava più di 50 idiomi in una zona geopolitica molto ristretta. La commissione aveva il compito di decidere se la gente che abitava lì, chiamata “ebrei della montagna” erano ebrei da eliminare oppure no: praticavano infatti la religione ebraica ma apparentemente non avevano una lingua semitica. L’ufficiale delle SS dunque ha contattato questo linguista, per avere un elemento scientifico di discernimento, ma il linguista – da scienziato – non aveva alcuna intenzione di offrire risposte razionali a una richiesta irrazionale.

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Il vostro lavoro è normalmente caratterizzato dalla partenza da una materia “classica” trattata teatralmente con le più contemporanee forme sceniche. Ma con un tema così delicato e complesso, il lavoro sull’immagine potente, la ricerca estetica che sempre fate, non rischia di sminuire il cuore del discorso, o meglio, di essere accolto con difficoltà? Mi spiego, quando si parla di questioni come queste, spesso si pensa che non sia necessaria una ricerca formale profonda, perché la “storia” basta di per sé. 

Devo dire che, anche in questo caso, questo nostro approccio alla forma ci ha spinto in una direzione anziché in un’altra. Ti racconto un aneddoto. All’inizio della ricerca eravamo in residenza a Berlino e un giorno siamo andati a visitare la tenuta di caccia di Göring (che a dire il vero ora non esiste più, è stata distrutta). Con la telecamera volevamo raccogliere immagini, appunti per questo lavoro, perché si erano già profilati i due temi che scorrono nello spettacolo: la questione della lingua di cui parlavo e la caccia, la caccia all’uomo. Quindi in quel luogo leggendario appartenuto a Göring – che si faceva chiamare il grande cacciatore – e che era sede di raccolta dei bottini di guerra, volevamo provare a raccogliere spunti interessanti. Come dicevo in realtà lì è rimasto davvero poco, tutto è stato bombardato, ci sono rovine di un portale e il resto è foresta. Insieme a noi – ahimè – c’erano una serie di persone che nella foresta andavano a portare omaggio al luogo. Insomma, da quel luogo ci è rimasta soprattutto la sensazione che il lavoro sull’immagine che è un nostro “marchio di fabbrica”, avrebbe in ogni caso portato con sé una serie di problematiche. Mi spiego. Questo lavoro inizialmente doveva essere una caccia al cacciatore, avremmo voluto stargli di più alle calcagna, svelarne il volto. Ma non volevamo che offrisse una sorta di ambiguità, non volevamo che il linguaggio si offrisse a fascinazioni. Sapevamo che l’immagine e la figura sono pregne di significati, ma si offrono proprio per questa loro ricchezza a essere ambigue. Pertanto abbiamo scartato alcune idee iniziali, deviato la traiettoria e fatto delle scelte. E il momento cruciale è stato quello nel quale abbiamo deciso che il cuore sarebbe stato il volto molteplice della vittima, che ci saremmo perentoriamente dichiarati con i morti. Il lavoro ha trovato così il suo asse centrale.

lingua imperi_anagoorDunque, il linguaggio scenico da cosa è composto?

Si fa molto uso del video, ma è intrecciato all’immagine e al lavoro estetico, che però è stato incanalato in quest’urgenza e laddove la parola non funziona interviene l’immagine e dove ancora l’immagine non ce la fa ecco che allora si sublima con un ulteriore livello che è quello del canto. In un processo di verticalità: prima una base di discussione razionale, logica, poi la visione totemica e dove non si riesce più a dire, può solo partire il suono, il canto verticale.

lingua imperi_anagoorLa complessità dello spettacolo, che si svelerà al pubblico solo a teatro, ha di certo conquistato la critica. Però la materia è difficile il lavoro formale anche. Lo spettatore, nella vostra esperienza, come reagisce? Viene tenuto a distanza dalla forma, o riesce comunque a “entrare”?

La sensazione che abbiamo avuto – in larga parte – è di raccolta di una sfida. Lo spettacolo è stato visto molto anche da adolescenti nelle scuole, e secondo me quel pubblico molto giovane è una grande cartina al tornasole. La sensazione è che la difficoltà sia raccolta, come se si scalasse questa montagna insieme. Non c’è un ricatto solo perché la materia merita la nostra assoluta attenzione, il religioso silenzio. C’è invece un mettersi a fare i conti insieme. Ovviamente è una scelta personale e non solo collettiva del pubblico che sta insieme alla compagnia. Alla fine è sempre una scelta del singolo. Lo spettacolo lavora per step, di volta in volta ci si riaggancia spostandosi tutti insieme, shiftando di argomento, offrendo un’angolatura diversa della questione, e questo garantisce un meccanismo capace di tenere tutti quanti insieme fino alla scalata finale che è da un lato ascesa alla vetta e dall’altro discesa infernale dantesca verso la fossa comune. Io non penso ai nostri spettacoli come qualcosa che debba offrire per forza difficoltà e non credo che le persone siano cosi disabituate a mettersi in gioco. Ho sempre estrema fiducia nell’intelligenza, indipendentemente dalla provenienza geografica e dall’estrazione sociale. Alla fine il teatro è questo: una comunità di uomini (quella dei teatranti) che parla a un’altra comunità di uomini (gli spettatori). Ed è giusto che le composizioni siano le più disparate e che quel che si mette sul tavolo sia una questione per tutti. È giusto che le posizioni possano essere diverse, alla fine si tratta solo ed esclusivamente, di discuterne insieme.

http://www.anagoor.com/

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