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July 13, 2023
L’ecofemminismo di Françoise d’Eaubonne
secondo Sara Marchesi a Centrale Fies
Stefania Santoni
Se la prima donna che Dio ha mai creato fu tanto forte da mettere il mondo sottosopra da sola, tutte le donne insieme saranno capaci di rigirarlo e rimetterlo in piedi.
Cristiana Collu
Cʼè stato un tempo in cui le donne si riunivano intorno a un cerchio. Un tempo in cui madri, figlie, nonne, zie, amiche, sorelle si appropriavano di uno spazio tutto loro (di “Una stanza tutta per sé”, direbbe Virginia Woolf) in cui conversare e condividere le proprie vicende quotidiane. Un tempo in cui era possibile aprirsi e raccogliersi per pensare al proprio ruolo nella società e nella famiglia, ma anche dentro di sé. Alle cose da cambiare, a quelle da mantenere. A sogni, desideri, ma anche a bisogni e a tutte quelle situazioni che ti fanno sentire in trappola. Questi cerchi di donne proponevano un modello non gerarchico: suggerivano una visione orizzontale tra donne, tra sorelle. Un po’ come accadde nella Parigi del Seicento quando un gruppo di donne, Le Preziose (chiamate così per la delicatezza dei modi e la raffinatezza della mente), trasformarono una stanza (La Camera Azzurra) in uno spazio in cui conversare: un luogo politico e spiritualmente laico dove attuare una rivoluzione gentile, dove al centro non ci sono potere e armi, ma esercizi di ragionamento e sovversione. Uno spazio dove non conversano solo le donne, ma anche gli uomini; uno spazio dove si sperimenta lʼaver cura delle parole, delle relazioni, dei comportamenti. Che cosa comporta una visione femminista della realtà? Come cambierebbe il nostro vivere quotidiano se tutt3 fossimo femminist3?
E proprio di ecofemminismo ho parlato con Sara Marchesi, ricercatrice che in occasione della “Feminist School” che si terrà a Centrale Fies nel corso di Feminist Futures condividerà un talk dedicato a Françoise d’Eaubonne (sabato 15 luglio alle ore 18.00).
Prima di parlare del tuo talk a Centrale FIES, vorrei sapere in che modo ti sei avvicinata agli studi femministi. Mi incuriosisce la tua formazione da architetta e da storica dell’arte…
Purtroppo sarà una risposta un po’ lunga, perché si tratta di un percorso non proprio lineare! Come hai intuito dal mio curriculum, ho un animo profondamente multidisciplinare e un interesse cronico per l’esplorazione di codici e linguaggi differenti. Devo molto alla mia formazione. In particolare, studiare architettura mi ha permesso di imparare a guardare il mondo da prospettive inusuali scegliendo quelle a me più consone, a soffermarmi sui simboli sottostanti le forme, ma anche a interrogarmi sulla struttura che le sorregge. Insomma, a spostarmi continuamente dalla teoria alla pratica. Eppure, quello che più di tutto mi mancava in quella dimensione era il rapporto con le persone che all’interno degli spazi progettati avrebbero dovuto spostarsi, incontrarsi, lavorare, abitare, vivere. Sicuramente, in questo senso conta molto l’esperienza personale, ma al termine del percorso di studi – era il 2012 – percepivo la pratica dell’architettura come sempre più lontana, o peggio ancora indifferente ai bisogni reali delle persone, quando non impositiva. Anche nell’urbanistica, la prima disciplina a cui mi sono interessata, pareva che l’ultimo parametro da prendere in considerazione nel progettare le nostre città dovesse essere l’identità del luogo, che a sua volta è costituita dall’insieme delle identità di chi lo abita in rapporto, certo, con il tessuto circostante. Troppo spesso questa identità risulta in conflitto con quella immaginata dagli urbanisti e soprattutto dai loro committenti. In questo contesto è iniziata anche la mia formazione “politica”: cercavo delle possibilità, dei metodi alternativi di vivere, progettare, pensare gli spazi di vita individuali e collettivi e ho trovato il situazionismo, prima, e il movimento libertario, poi, con figure come Colin Ward, Murray Bookchin, ma anche gli italiani Carlo Doglio e Giancarlo De Carlo, di cui avevo sentito poco o niente nei corsi universitari. Cito loro perché hanno a che fare con architettura e urbanistica in particolare, ma sono molti i nomi di pensatrici e pensatori che ho scoperto e letto in quegli anni fondamentali per la mia crescita personale, durante i quali è iniziata anche la mia militanza nella città.
Alla fine, la tesi di laurea l’ho scritta sul ruolo dell’arte urbana partecipata nella costruzione del genius loci (l’identità del luogo), arrivando alla conclusione che forse l’arte pubblica poteva arrivare là dove la disciplina architettonica non riusciva. Da quel momento mi sono decisa a esplorare il linguaggio delle arti visive. Poi, un ruolo centrale l’ha giocato la mia città, Milano, dove già da qualche anno aveva preso il via quel processo di trasformazione che chiamiamo gentrificazione e che avrebbe stravolto interi quartieri storici come Ticinese o Isola: proprio per la mia allergia alla verticalità (fisica e metaforica) ho trovato uno spazio praticabile nell’arte “fight-specific”, l’arte pubblica politicamente impegnata a far emergere le contraddizioni e le storture ormai croniche nelle nostre metropoli. In questo senso, devo moltissimo a quello che ancora oggi considero uno dei miei maestri, l’artista lussemburghese e milanese d’adozione Bert Theis. Ugualmente, sono debitrice alla filosofa Tiziana Villani, che mi ha aperto all’interesse per la filosofia che sa parlare e radicarsi nella vita vissuta. Se non che, durante il master in Arti visive e studi curatoriali che ho frequentato, interrogandomi di nuovo sulla capacità dei linguaggi di raggiungere anche le persone “non specialiste”, ho scoperto il mondo dell’editoria, in particolare della saggistica divulgativa. Anche in questo caso sono stata fortunata, perché ho lavorato quasi sempre per case editrici politicamente e socialmente impegnate, il che mi ha permesso di continuare a studiare rendendo contemporaneamente i contenuti fruibili alle persone. È lì che sono rimasta. Tuttavia, non ho mai abbandonato l’approccio multidisciplinare e l’esplorazione di linguaggi, dunque mi sento di aggiungere “per il momento”. Anche perché, dopo otto anni completamente dedicati all’editoria, ho deciso di riprendermi uno spazio di studio più sistematico di quelli che mi paiono due grandi e urgenti temi dell’oggi: il pensiero eco-logico e la lotta femminista. È così che sono approdata al dipartimento di filosofia dell’Università di Trento. Per quanto riguarda nello specifico il mio interesse per gli studi femministi, ti devo dire che è arrivato più tardi rispetto, per esempio, a quello per il pensiero ecologico. Soprattutto, si è sviluppato a partire dall’esperienza diretta, più che altro nel mondo del lavoro e militante, di quanto la “condizione femminile” – per usare una definizione un po’ vintage ma comunque valida – sia ancora determinante nel definire il nostro ruolo sociale e i limiti che noi donne non dovremmo superare. Quella che d’Eaubonne chiama “la disgrazia di essere donna” e che rappresenta per lei, allo stesso tempo, la prima forza di cambiamento possibile. Dall’altra parte mi considero un’osservatrice – da qui il mio interesse per l’antropologia – e mi sembra palese che le istanze femministe ed ecologiste si siano imposte con forza negli ultimi anni, a prescindere dal mio percorso personale. Dunque, per me è stato naturale scegliere di approfondire queste e non altre questioni.
Come nasce il tuo interesse per Françoise d’Eaubonne? In che occasione hai scoperto questa pensatrice?
Ho incontrato Françoise d’Eaubonne durante le mie ricerche accademiche: avevo già deciso, come ho detto, quali erano i temi su cui volevo lavorare e sapevo che nella storia e in varie parti del mondo le donne erano state pioniere e capofila di molte lotte ecologiste (dal movimento Chipko in India, al Sudamerica, fino a Seveso in Italia). Mi sono chiesta il perché. Ho cercato quale potesse essere un possibile nodo teorico, e se questo nodo teorico avesse un’origine. Quell’origine, per certi versi e di sicuro nel mondo occidentale, è proprio d’Eaubonne. Il mio occhio editoriale, poi, mi ha fatto notare che negli ultimi anni in Francia i suoi testi legati soprattutto all’ecofemminismo stavano venendo recuperati e pubblicati in nuove edizioni critiche, il che ha fatto accendere il mio campanello d’interesse. Così, attraverso la casa editrice per la quale dirigo la collana di saggistica divulgativa, Prospero Editore, ho comprato i diritti di traduzione del suo primo testo sull’ecofemminismo: “Il femminismo o la morte”, che è uscito in Italia a novembre del 2022.
Françoise d’Eaubonne è stata l’iniziatrice dell’eco-femminismo, termine da lei coniato. Anche lei, come molte altre pensatrici, fa parte di una cultura che potremmo definire “non egemone” ma che ora sta riemergendo, anche grazie alla tua attività di ricerca. In che modo ecologia e femminismo si fondono insieme e riescono a dare una chiave di lettura della realtà nel pensiero di questa filosofa?
Hai ragione, possiamo decisamente dire che la posizione di Françoise d’Eaubonne, nel suo periodo di attività politico-teorica, quindi indicativamente dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso ai primi Duemila, non è mai stata maggioritaria. Questo per varie ragioni, sia biopolitiche potremmo dire – aveva infatti un bel caratterino, molto passionale e insieme poco incline ai compromessi, il che ha determinato una sua marginalizzazione all’interno dei movimenti francesi – che teoriche: l’ecofemminismo non piaceva particolarmente al femminismo francese degli anni Settanta, di stampo decisamente materialista e che mirava principalmente a rompere il binomio donna/natura che per secoli era stato utilizzato come un’arma per sottomettere il genere femminile. In realtà, d’Eaubonne vede perfettamente quello che chiama “il gioco di un effetto naturale” che di naturale ha ben poco – per lei essere donna è ormai una condizione innanzitutto culturale – e fa pertanto del femminile un paradigma alternativo (“mutazionale”) proprio non solo delle donne, ma di tutte le soggettività che non si riconoscono nei valori della cultura maschile e capitalista, iperproduttivista, “fallocratica” ed “etoeropoliziesca”. Questa cultura maschile è, per lei, l’artefice della struttura egemonica che sottende le nostre società e dunque anche la responsabile della crisi ecologica in atto. In sostanza, riconosce l’origine del dominio dell’uomo sull’uomo (in primis dell’uomo sulla donna) e sulla natura nel momento in cui il maschio si è accorto, circa tra il 3.500 e il 2.500 a.C., di poter controllare la fecondità della terra, attraverso la tecnica agricola, e quella del corpo femminile, cioè di avere un ruolo attivo nel processo di procreazione (prima che subentrasse l’osservazione delle dinamiche procreative degli animali attraverso la pastorizia, si credeva che le donne fossero ingravidate dalla divinità). Questa doppia scoperta avrebbe determinato nell’uomo un approccio “illimitista”, una volontà di potenza infinita che si rispecchia anche nella sete di dominio assoluto e colonizzazione tipica del capitalismo. Trovo che questo quadro rappresenti molto bene il nostro “stare nel mondo”, salvo che la natura e, per fortuna, anche tutta una serie di movimenti e pensieri dissidenti smentiscono e contestano questa granitica certezza di superiorità. Come si presenta la rivoluzione femminista di Françoise d’Eaubonne? E a che cosa ambisce?
Innanzitutto, d’Eaubonne non utilizza il termine “rivoluzione”, al quale preferisce “mutazione”. Questo perché per lei non c’è differenza tra il capitalismo privato (quello delle società liberali) e il capitalismo di Stato (quello messo in atto dai Paesi socialisti) responsabile delle rivoluzioni del Novecento: anzi, è particolarmente dura con i secondi, che incolpa di aver fallito nella loro possibilità di dar vita, attraverso la rivoluzione appunto, a un “nuovo umanesimo”, di fatto non mettendo in discussione né la struttura iperproduttivista né quella sessista che sottendono le società. Il suo è inoltre uno sguardo storicista: quello che sostiene è che negli studi classici sulle società antiche l’avvento del patriarcato capitalista è per lo più presentato come una trasformazione graduale, che non ha incontrato resistenza. Un’interpretazione, quindi, che nega fondamento storico all’esistenza di una resistenza a questo processo, come se l’evoluzione umana tendesse per natura verso questo modello. In realtà, anche solo leggendo le grandi epopee fondative della nostra civiltà, come quella di Gilgamesh che credo ancora oggi venga imposta a studenti e studentesse delle scuole come lettura estiva, si narra di lotte intestine tra il modello matriarcale di caccia e raccolta e quello dei primi re, fondatori dell’agricoltura e dell’allevamento.
Responsabile tanto della catastrofe ambientale quanto del tasso demografico fuori controllo (ricordiamo che lei scrive nella seconda metà degli anni Settanta), che rappresentano per lei le due maggiori minacce che incombono sul futuro del nostro pianeta, è dunque secondo d’Eaubonne la società maschile. Ecco allora che si delinea il potenziale di mutazione detenuto dalle donne, non in virtù di una loro particolare essenza, ma del fatto di essere una maggioranza oppressa come fosse una minoranza, la metà del genere umano che nei secoli è stata estromessa dalla dimensione del sociale e che è detentrice, tra l’altro, di un corpo che può o dovrebbe poter scegliere di utilizzare o meno ai fini della procreazione. La mutazione ecofemminista di d’Eaubonne passa per prima cosa dalla liberazione sessuale della donna. I nostri musei, nota, sono pieni di statue e statuette raffiguranti falli e divinità protettrici della fecondità, e tuttavia esiste una tradizione di saperi parallela e tutta femminile fatta di riti e tecniche di contraccezione, o abortive: se le prime, afferma l’autrice, sono state istituzionalizzate dalla società maschile per inviare il messaggio storico-culturale secondo cui mettere al mondo nuovi esseri umani per forza e quanto più possibile deve rimanere per natura tra le priorità delle società umane (per avere sempre nuovi lavoratori, guerrieri, consumatori), le seconde, tipicamente femminili, sono state insabbiate insieme all’idea che il corpo della donna non sia solo uno strumento di riproduzione. Non si tratta, quindi, di imporre un divieto di riproduzione (la posizione di d’Eaubonne non è paragonabile a quella di un Malthus o di un Arne Naess, pedre dell’Ecologia profonda), ma di restituire alle donne la libertà di scelta. E perché si suppone che le donne sceglierebbero di rallentare i ritmi? Innanzitutto, perché il lavoro riproduttivo, essenzializzato in tutte quelle caratteristiche intrinseche che ci sono state proposte e imposte come “femminili” come la cura, l’altruismo, la spinta al sacrificio, è stato il primo strumento di soggiogamento del “secondo sesso”. Questo non significa un rifiuto tout court della maternità, ma una valorizzazione della differenziazione esistenziale delle donne, che oltre che madri possono essere tante altre cose, contemporaneamente (magari grazie a una presa di responsabilità familiare anche da parte dei padri, come in effetti piano piano sta avvenendo) o alternativamente. Tra l’altro, sulla scia di Carla Lonzi, d’Eabonne assegna un ruolo fondamentale all’alleanza tra donne e giovani, le due categorie marginalizzate nel nucleo famigliare patriarcale.
Inoltre, la lettura di d’Eaubonne, pur vedendo nelle donne la prima, o potenzialmente più incisiva, forza mutazionale, travalica la questione di genere. Nel richiamarsi alla struttura logica del dualismo maschile/femminile, che passa dalla negazione del femminile da parte di un maschile preteso neutro, evita di cadere nell’essenzialismo: maschio e maschile sono termini che usa senza uno stretto riferimento alla biologia, ma per designare coloro, a prescindere dal sesso, che aderiscono ai valori patriarcali distruttivi o che ne traggono vantaggio, il che vale anche per le donne che sono riuscite a ritagliarsi il loro spazio nella società assumendo il modello patriarcale. Si tratta, quindi, di andare alla radice del dominio, di restituire all’umanità, e quindi al pianeta, la parte femminile che gli è stata sottratta, ovvero di affermare un nuovo umanesimo ecofemminista in grado di superare le basi misogine ed ecocide della civiltà patriarcale e capace di rappresentare tutte le soggettività che nei suoi valori non si riconoscono.
In conclusione, proprio per la sua distanza da una visione secondo cui la donna debba essere per essenza “migliore” del maschio o “più adatta” a occupare una posizione di potere, d’Eaubonne specifica chiaramente che il suo obiettivo politico non è una società dominata dalle donne, ma una società non egemonica. In tal senso, in opposizione al maschile, il femminile diviene il paradigma altro, alternativo, mutazionale dello stare nel mondo, proprio di tutti gli individui oppressi. Cosa ti aspetti che si “portino a casa” le persone che fruiranno del tuo talk?
Ormai sono profondamente affezionata a Françoise, anche perché esiste un gruppo, la “bande à d’Eaubonnot”, di ricercatrici e ricercatori, attiviste e attivisti (soprattutto ma non solo francesi) “capitanato” da uno dei suoi due figli, Vincent, e dal figlio adottivo Alain che mi ha accolta a braccia aperta facendomi sentire parte di un progetto ampio di riscoperta e diffusione del suo lavoro. Quindi, anche solo raccontare la sua vita di pensatrice, scrittrice e militante instancabile facendo sì che il suo nome in futuro risuoni familiare a più persone anche nel nostro Paese, magari addirittura spingendole a leggere i suoi libri (al momento sto lavorando a una nuova traduzione…), è un obiettivo che dà senso al mio lavoro.
Poi, ovviamente, c’è la questione politico-filosofica più ampia. Dal punto di vista politico, come ho già accennato, mi sembra sia palese come le due istanze che sono riuscite negli ultimi anni a rompere il muro di indifferenza dietro il quale ci siamo arroccati siano state l’ondata transfemminista di Non Una Di Meno, e in misura minore ma comunque significativa il Mee Too, e le lotte ecologiste, Fridays For Future come altri movimenti a mio avviso anche più interessanti, come Extinction Rebellion o, in Italia, Ultima Generazione. Ebbene, Françoise d’Eaubonne è stata tra le prime a proporre di mettere insieme coscientemente queste due lotte, individuandovi una matrice e uno scopo comuni. Anzi, in effetti è stata una delle prime ad aprire a un’idea oggi piuttosto di moda nella teoria ma che ancora stiamo imparando come applicare nella pratica: l’intersezionalità. Mettere insieme la lotta per i diritti delle donne, per la libertà sessuale di tutte quelle che chiama le “minoranze erotiche”, l’impegno a ridurre la nostra impronta ecologica e a rifiutare un modello di sviluppo insostenibile, così come la proposta di un’inedita alleanza tra tutte le soggettività che sono state messe al margine dal divenire storico maschile mi pare un’intuizione da recuperare e mettere in atto, e con urgenza. Il movimento delle donne, le quali per secoli hanno incarnato l’Altro per antonomasia, ha già dimostrato di sapersi aprire alla diversità, come è avvenuto per l’inclusione del movimento LGBTQ+ che ha portato alla nascita del movimento omotransfemminista: è questa la sua più grande forza ed è su questi binari che secondo me, come secondo d’Eaubonne, deve proseguire il suo viaggio. Mi pare che esperimenti come la summer school Feminist Futures vadano esattamente in questa direzione.
Da un punto di vista filosofico, invece, il discorso cambia leggermente. Nonostante quanto ho detto sopra riguardo alla centralità che si sono conquistate – con fatica va aggiunto – le rivendicazioni femministe e ambientaliste nella dimensione “pubblica”, a livello di struttura di pensiero, specie tra gli specialisti dell’accademia, non si può dire lo stesso. Apparentemente, i gender e gli environnement studies si stanno ritagliando anche in Italia – che comunque resta per il momento un fanalino di coda – uno spazio nelle università e nelle facoltà di filosofia in particolare. Tuttavia, anche se vantiamo autorevoli pensatrici e pensatori, filosofe e filosofi che hanno collegato e tradotto in teoria filosofica i concetti che ruotano attorno a queste questioni, è ancora difficile che avvenga una contaminazione con la tradizione dominante. Io stessa mi sono sentita dire che le teoriche su cui lavoro non sono “vere filosofe”, proprio per questa loro caratteristica di incrociare la teoria e il senso filosofico che assegniamo alle nostre strutture concettuali alla vita, ai corpi, al nostro rapporto con il “mondo più che umano”, per usare un’efficace definizione dell’artista e scrittore James Bridle. E questo mi succede tanto parlando di Françoise d’Eaubonne quanto di nomi ben più noti e riconosciuti fuori dal nostro Paese. E non lo dico solo io, che sicuramente non sono una voce autorevole della filosofia italiana e parlo solo a partire dalla mia esperienza diretta: ho sentito, e letto, filosofe e docenti universitarie molto apprezzate nel loro ambito di studi e a livello internazionale lamentare legittimamente il fatto di essere riconosciute negli studi accademici nostrani come “femministe”, “ecologiste”, “antispeciste” e mai come “filosofe”. Come se parlare di femminile o di animali non umani rappresentasse ancora oggi un’onta per la discussione filosofica. Pertanto, un’altra consapevolezza che spero si porterà a casa chi parteciperà al talk, specie coloro che non si occupano di filosofia, è la consapevolezza che di filosofie ce ne sono molte, per fortuna, e che i canoni sono fatti per essere messi in discussione, perché le strutture culturali sotterranee che sorreggono le nostre società non sono nate per caso, ma sono il risultato, per quanto confuso, di scelte ed esclusioni ponderate con obiettivi ben precisi che si sono stratificate nei secoli. Come dice Mary Midgley, un’altra delle mie filosofe di riferimento, esiste tra le tante possibili una filosofia il cui scopo è agire “come l’idraulica”, sporcandosi le mani con i problemi che ci portano a vivere male, che inondando la nostra cucina e mandano cattivi odori, cercando di proporre delle possibili soluzioni per fermare la perdita.
Il talk con Sara Marchesi si terrà sabato 15, alle ore 18 a Centrale Fies.
Credits: (1) Chiara Bersani (2) Selma Selman, Superpositional, Intersectionalism, by Roberta Segata; (3) Hatis Noit – Aura, by Özge Cöne; (4) Marina_Herlop by Anxo Casals (5) Sara Marchesi e il testo di F. D’Eaubonne da lei curato per Prospero Editore.
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