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September 21, 2023
Enduring love
Sotterraneo torna in scena a Centrale Fies
Stefania Santoni
Ci sono storie d’amore mai cominciate perché non hanno avuto il coraggio di esistere.
Altre invece sono durate poco più di un soffio, di un battito di ali: perché talvolta le cose più belle svaniscono in un attimo, vivono un giorno soltanto, come i fiori dei roseti o dell’ibisco.
Ma alcuni amori sanno resistere al tempo: perdurano, non si affievoliscono, si nutrono giorno dopo giorno. Perché quando due anime sono destinate a stare insieme, a esserci l’una per l’altra, non possono fare altro che accogliersi in un abbraccio senza fine, fatto di incastri perfetti in una poetica dell’imperfezione.
E a Fies, il mio posto del cuore, di amori duraturi ne esistono parecchi. Sono amori nati più di vent’anni fa. Sono amori, questi, plasmati dalla cura per tutti quei progetti artistici che sono nati a Centrale Fies: sostegno e mentoring decennale a compagnie italiane (Fies Factory), fellowship internazionali e free school (Live Works, Feminist Futures), supporto ai progetti di collettivi, compagnie e piattaforme associate e locali, co-produzioni tramite nuovi network dedicati a performer emergenti e lunghe arcate di relazione e residenza.
È così che Centrale Fies dedica un fine settimana - dal 21 al 23 settembre - alle artiste e artisti che hanno trasportato Centrale Fies nel mondo, una condivisione della ricerca in corso per alcuni e un ricongiungimento per altri. A ventiquattro anni dalla nascita di Centrale Fies, questi tre giorni pongono l’accento su come si siano declinate, trasformate ed evolute le forme di mentoring, attenzione e sostegno alle pratiche artistiche, dal teatro alla performance afferente alle arti visive, dalle progettualità espanse ai primi progetti autoriali di artiste e artisti emergenti.
Tra gli “amori duraturi” di Fies c’è quello con Sotterraneo, Premio Ubu Spettacolo dell’anno 2022. Venerdì 22 settembre Sotterraneo porta in scena a Centrale Fies “L’Angelo della Storia”, con un lavoro che assembla aneddoti storici di secoli e geografie differenti, gesti che raccontano le contraddizioni di intere epoche e azioni che suscitano spaesamento o commozione: momenti che in una parola potremmo definire paradossali. Ispirandosi a quelle che il filosofo Walter Benjamin chiamava costellazioni svelate, Sotterraneo racconta questi episodi mettendoli in risonanza col presente, tracciando una personale mappa del paradosso: fatti e pensieri lontani fra loro ma uniti da quella tela di narrazioni, credenze, miti e ideologie che secondo lo storico Yuval Noah Harari compongono la materia stessa di cui è fatta la Storia. Daniele Villa, Sara Bonaventura e Claudio Cirri costituiscono il collettivo Sotterraneo che ho avuto il piacere di intervistare.
Come e quando nasce il vostro legame con Centrale Fies?
Tecnicamente, il nostro legame con Centrale Fies nasce nel 2005, quando poco più che ventenni abbiamo presentato per il festival “Drodesera” uno studio di 20 minuti del nostro primo “confusissimo” lavoro. Appena entrati in Centrale, per la prima volta vicini a realtà come Valdoca, Socìetas e Compagnia Sud Costa Occidentale, abbiamo capito che era un posto in cui avremmo voluto tornare a lavorare ancora. E forse lo staff della Centrale, vedendo i nostri primi caotici approcci alla scena, ha pensato di voler vedere cos’altro avremmo combinato ancora, e ancora e ancora… In realtà però, quel legame c’era già da prima di manifestarsi, è il tipo legame che c’è fra una struttura che vuole sostenere percorsi artistici atipici e un gruppo autoriale che vuole perlustrare possibilità di linguaggio inedite (o almeno provarci) – insomma, il legame fra Centrale Fies e Sotterraneo era già innervato negli alberi e nelle rocce intorno alla Centrale, sotto l’asfalto dell’autostrada del Brennero e fin nelle crepe dei muri rinascimentali di Firenze: si trattava di trovarsi, per fortuna ci siamo riusciti subito.
La vostra produzione, che portate in scena il 22 settembre, dal titolo “L’Angelo della storia” s’ispira al celebre lavoro di Benjamin in cui un angelo che vola con lo sguardo rivolto all’indietro vorrebbe fermarsi davanti ai cumuli di detriti ma una tempesta lo trascina e spinge in avanti, verso il progresso, il futuro. Come è stato riletto il pensiero di Benjamin nella vostra performance?
Walter Benjamin non è l’unico ma è indubbiamente il primo autore che abbiamo “rapito” per questo spettacolo, lavorando su più livelli a partire dalle sue Tesi sul concetto di Storia: siamo partiti dalla sua critica all’idea (ideologia) che la Storia sia sempre segnata dal progresso, come se le cose fossero destinate a migliorare – per lui, in fuga dai nazisti, era evidente che questa linearità era una mistificazione; le sue “costellazioni”, ovvero l’idea di momenti storici di epoche diverse che risuonano fra loro, sono state fonte d’ispirazione per la struttura stessa della nostra drammaturgia; i suoi collegamenti vertiginosi fra immagini, opere e filosofia, hanno accompagnato tutto il nostro processo creativo; infine il suo suicidio e la sua visione di un angelo che osserva il susseguirsi dei crolli della civiltà umana, trovano entrambi spazio tra le scene dello spettacolo. Da tutto questo però sono scaturite altre riflessioni e campi di studio sui sistemi di narrazioni collettive che hanno attraversato la Storia e che tutt’ora segnano il presente, inevitabile perciò compulsare fra gli altri anche i volumi di Harari, Kahneman, Calasso, Ngozi Adichie – insomma tutto ciò che rifletta sull’attitudine umana a tradurre la realtà in racconto e poi a continuare a credere al racconto anche quando la realtà arrivi a smentirlo. Tema, problema, comportamento specie-specifico primordiale e ultra-contemporaneo a un tempo… In che modo i corpi sulla scena si fanno portavoce degli aneddoti della storia, delle credenze, dei miti e delle ideologie?
In tutte le modalità che siamo riusciti a praticare. Si tratta di un lavoro dinamico, in cui tutto scenico viene investito compulsivamente, il testo è molto denso e sempre intrecciato con movimenti, posture e azioni corali e ci sono frequenti inserti danzati e cantati. Il tutto cercando di impastare l’orrore con l’ironia come piace a noi. Forse potremmo dire che i litri di sudore che i performer versano in 80 minuti danno un senso della misura dei litri di falsi miti, narrazioni manipolatorie e percezioni distorte di cui parla lo spettacolo.
Che cosa vi aspettate dal pubblico? Cosa vorreste istillare nelle loro riflessioni?
Quello che ci aspettiamo sempre: complicità critica. Non lavoriamo mai per alienarci dal pubblico come se non ci fosse, respingerlo o provocarlo, men che meno per educarlo sul piano morale. Quando proponiamo un tema lo scopo in realtà è sempre quello di porre e porci un “problema” per noi urgente e irrisolto (irrisolvibile?), chiedendo a chi abbiamo davanti di condividere per un’ora o più il gioco fisico e cognitivo che abbiamo progettato. In questo senso, secondo noi, possiamo parlare di uno spettacolo che funziona o non funziona: se siamo o non siamo rimasti tutti lì, dall’inizio alla fine, a maneggiare lo stesso problema, coi cervelli (e quindi i corpi) accesi e vigili. Ovviamente cerchiamo di costruire un’opera che sia il più possibile aperta, che restituisca la complessità dei temi e che nel farlo porti avanti una ricerca personale, coi suoi obiettivi estetici e linguistici. Tra questi però, per noi è irrinunciabile valorizzare il fatto che il problema ce lo poniamo dal vivo, e non avrebbe senso farlo se non ci fosse un certo livello di accesso, partecipazione e comunicazione garantito per chi guarda. Credits: (1,2,3,4) Giulia di Vitantonio
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