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January 16, 2014

L’importanza – politica – di lavorare su un nuovo pubblico per il teatro: intervista a Francesca Pennini di CollettivO CineticO

Anna Quinz
A Rovereto sabato 18 un'occasione da non perdere: *Plek- di CollettivO CineticO - generosamente portato a noi dal festival Altro Palco - è uno spettacolo che ci parla di pieghe e spiegazioni, chiedendoci di attivarci nell'interpretazione, lasciandoci senza parole, portandoci in spazi altri che ancora non conosciamo. Intervista alla regista Francesca Pennini, per saperne di più.

Altro Palco è un festival che mi piace. Mi piace perché è piccolo, compatto e fortissimo. Tanti gli stimoli performativi che ci porta, tante le visioni, le strade, gli interstizi che stanno dentro e fuori lo spazio scenico nei quali ci permette di fissare lo sguardo. Una di queste pieghe dello spazio è *Plek-, lo spettacolo di CollettivO CineticO che – neanche a farlo apposta – parla proprio di pieghe. Se non conoscete CollettivO CineticO, peggio per voi, perché di certo sono una delle realtà più interessanti del panorama performativo italiano. Ma non tutto è perduto, perché appunto Altro Palco + *Plek- sono a vostra disposizione sabato 18 gennaio, al teatro alla Cartiera di Rovereto. Un’occasione, un’opportunità, per guardare dentro lo spazio e dentro gli spazi del teatro. 

Poi, già lo sapete, io per i “teatranti” ho un debole, perché ogni volta che ne intervisto uno, imparo qualcosa, scopro un universo denso e ricco, una modalità di fare arte e vita che mi stupisce e mi atterrisce (in senso buono, ovviamente). I teatranti hanno qualcosa di puro che – nonostante spesso le conversazioni avvengano per via telefonica, mediate ulteriormente da orpelli tecnologici come microfoni e registratori – passa attraverso lo spazio e l’etere e mi arriva dritto al cuore. Una purezza fatta di lavoro profondo e duro, di mani sporcate e di maniche rimboccate, di umiltà e conoscenza, di voglia di scoprire e raccontare il mondo, le cose, la realtà, la finzione, la fantasia. E oggi, nella mia “hall of fame” di teatranti, posso aggiungere con orgoglio anche Francesca Pennini, mente e cuore, appunto, di CollettivO CineticO. Ancora una volta parole che seguono pensieri forti e profondi, che raccontano di notti di studio, di tanti libri letti e di tanti gesti provati e riprovati, che anche da lontano fanno sentire forte e chiaro sudore e passione per quel che si sta facendo. Io per i teatranti ho un debole, perché mi regalano interviste come questa.

plek_fotoMarcoDavolioFrancesca, leggo nel comunicato stampa che anticipa il vostro arrivo a Rovereto: “Il nuovo frammento del progetto decennale sulle eterotopie C/o di CollettivO CineticO si dedica allo spazio interno a una piega e sposta il tempo in una proiezione verso un futuro prossimo e probabile”. Non ho fatto ricerche specifiche (non per pigrizia, ma perché volevo la spiegazione dalla tua voce) ma su eterotopie mi sono già incagliata. Puoi spiegarmi?

 Eterotopia – da etero e topos –  è una parola coniata dal filosofo Michael Foucault in un testo al quale ho fatto riferimento “Utopie ed eterotopie” e letteralmente significa “luoghi altri”, che si differenziano dalle utopie – luoghi che non esistono – perché ci sono, ma per qualche motivo hanno caratteristiche diverse dagli altri luoghi e sono un po’ in un limbo di esistenza o non esistenza. La presenza di questi luoghi è un interrogativo: per esempio il virtuale, o il luogo all’interno di uno specchio. In particolare io ho iniziato a riflettere sul luogo della scena come eterotopia, o i luoghi del corpo come eterotopia, e lavorando parallelamente su luoghi e tempi altri, ho iniziato a lavorare nel 2007 immaginando un unico spettacolo decennale C/o in cui la frammentazione del tempo e degli spazi fosse il principio strutturale. Quindi ogni lavoro o performance è un frammento di un lavoro generale, e ogni frammento è collegato agli altri dall’indagine su un’eterotopia diversa. In particolare *Plek- prende in esame il luogo che sta all’interno di una piega, l’interstizio tra uno spazio e un altro. La riflessione sullo spazio del “tra”, si apre un po’ linguisticamente, con il gioco tra “piega” e “spiegazione”, e un po’ riflettendo sull’interpretazione dello spettatore rispetto allo spettacolo. Per dirla meglio, ci chiediamo: cosa significa interpretare e spiegarsi un’opera d’arte? E lo facciamo problematizzando questo fenomeno, non volendo risolvere la complessità dell’interpretazione.

plek_fotoMarcoDavolioI concetti su cui lavori/lavorate, sono molto complessi. Ma poi come si risolve, concretamente sulla scena questa complessità, come si trasforma in forma scenica – comprensibile allo spettatore – una materia così densa e apparentemente complicata?

*Plek- è uno spettacolo abbastanza complesso, che gioca sul chiudere e l’aprire l’interpretazione e non è così immediato. Ti chiede di sfidarlo come se fosse un enigma, non ti viene offerto alla contemplazione ma ti richiede un’attivazione. Ci sono varie scene che giocano sull’elemento della piega sia in senso letterale – c’è ad esempio un origami gigante – sia con riferimenti specifici come quello alla piega meccanica delle articolazioni. Ciascuna scena prevede un momento che per noi è la performance e uno che è la spiegazione. Ma a loro volta le spiegazioni sono degli ibridi, non si capisce fino a che punto stiamo spiegando qualcosa o se quel che stiamo facendo è un’altra performance che tratta della spiegazione. Quindi c’è una struttura abbastanza didattica, ma sempre ambigua, che progressivamente mescola i due aspetti, il momento in cui si spiega e il momento in cui si performa. Ci sono parti di danza pura, giocate sul ripiegamento inteso come qualità del movimento, che poi vengono spiegate, ma la spiegazione è fatta recitando al microfono un testo privo di consonanti labiali. Questo permette di recitare senza muovere alcun muscolo del viso quindi senza creare nessuna piega. Una sorta di testo antirughe.

plek_fotoMarcoDavolioUscendo da *Plek-, parliamo di voi. Come posizioneresti CollettivO CineticO, nel panorama della performance, della danza e del teatro?

Questa è una domanda cui faccio fatica a rispondere. Perché non so la risposta. Da un lato non c’è interesse di dichiararci o di fare riferimento esplicito a un ambito. Dall’altro c’è la voglia di continuare a lavorare su concetti e materiali diversi, anche a livello stilistico. Per esempio, l’ultimo nostro lavoro è un Amleto e senza una decisione preventiva, ci siamo accorti che è un lavoro di prosa. Oppure, in un altro progetto abbiamo fatto un gioco di società, in cui vengono offerte delle performance… io mi sento nel mezzo, non per una volontà di sentirsi diversi o ineticchetabili. Siamo in mutamento, non riesco a sentirmi a casa da nessuna parte.

Si dice di voi che nel vostro lavoro prestate particolare attenzione alla formazione di nuovo pubblico di età adolescenziale. Quanto, come e perché è importante per voi l’aspetto formativo?

Sono tanti anni che seguiamo progetti di accesso al teatro e ce n’è sempre più voglia e richiesta. Per me si tratta di un’esigenza e di una voglia di stimolo, da diversi lati. Da una parte, ripenso a me adolescente, alla mia sete estrema e all’impossibilità di capire dove cercare quello a cui non sapevo dare un nome. Dunque, ripensando a me, trovo la spinta a fare quel che avrei voluto trovare allora. Dall’altra, per me è stimolantissimo questo lavoro perché ti porta a un confronto con qualcosa che non è nella nicchia del teatro (nicchia spesso asfittica e autoreferenziale perché parla costantemente lo stesso linguaggio) e che ti costringe ad avere una diversa apertura sul mondo. Infine, il motivo principale per cui facciamo tutto questo, ed è un motivo politico. Penso che il teatro oggi abbia bisogno di spettatori nuovi che non siano solo colleghi e lavoratori del teatro. Fa bene agli autori, al pubblico, alla vita economica teatrale e alla possibilità di far crescere gli aspetti creativi, avere spettatori nuovi e il confrontarsi con un pubblico nuovo. Questa è una prospettiva per la quale bisogna di lavorare, altrimenti si va incontro a morte certa. Io stessa come autrice penso morirebbe in me la sfida e la necessità del creare, se avessi come riferimento costante sempre le stesse persone o una categoria di pubblico molto limitata.
Per questo noi ci siamo riferiti in particolare all’adolescenza. Un po’ per affinità e un po’ perché – e questa è una mia interpretazione personale – abbiamo trovato che l’adolescente è in una fascia di età in cui a livello di crescita è in grado di lavorare su stimoli molto complessi, ma al tempo stesso non è abbastanza grande per avere un senso di giudizio davanti all’ignoto. Anche rispetto al mondo del contemporaneo, pur essendo totalmente neofita, l’adolescente si sente tranquillo nell’essere in apprendimento ed è in grado di gestire interrogativi e modalità di estrema complessità, senza la necessità di appiattirle o semplificarle. Ecco, per me gli adolescenti sono il target perfetto, perché si riescono ad avvicinare e perché riescono a vivere il teatro non come qualcosa di snob o di legato a un mondo intellettuale, ma come qualcosa di divertente, nel pensiero e nella visione.

 Foto di Marco Davolio

 

 

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