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June 21, 2012
People I know. Rodolfo “Rudi” Zancan: il mondo visto da una vignetta
Anna Quinz
Rodolfo Zancan è un architetto. Rudi, invece, fa vignette. Rodolfo e Rudi, però sono la stessa persona. Bolzanino classe ’70, Rodolfo è dal ’71 appassionato di disegno. E così, dal disegno tecnico dell’architettura, fino alle vignette – che ogni settimana estiva inventa sulla torre dell’Eurac durante i caffè scientifici – la matita è stata sempre il suo strumento di lavoro e di espressione personale. Un talento naturale, quello della vignetta, ironica e piccante, che Rudi riesce a creare in pochi minuti, semplicemente ascoltando e osservando. La mano che disegna e il cervello, dunque, sono in un costante dialogo, si mandano messaggi, un po’ si ascoltano un po’ ognuno va per la sua strada. Quali siano poi i precisi processi, difficile capirlo, certo è che, pochi tratti, qualche parola ben calibrata, e il gioco è fatto, la vignetta è pronta e la risata, viene da sé. Per Rudi, questa, è una passione (“deve essere difficile, fare questo per mestiere”, dice), il lavoro “vero” è l’architettura, amata disciplina, che è arrivata dopo il diploma al Liceo Classico Carducci (“mi è dispiaciuto quando l’hanno abbattuto, soprattutto perché non era il mio lo studio incaricato di ricostruirlo!”) e dopo un anno di medicina all’università. Uomo pieno di interessi, “anche se dispersivo”, come si definisce lui stesso, Rudi fa tante cose (“ho fatto tanti sport, ma sempre in modo amatoriale, cosa che ha salvato le mie rotule!”), vede tante cose, fa una battuta su tutto, e poi, prende la matita in mano, e disegna una vignetta.
L’Alto Adige è considerato terra di eccellenze e all’avanguardia sul piano dell’architettura. Lei, da architetto, che ne pensa?
Confermo. E credo sia fondamentale il mix che caratterizza il pensiero e il lavoro architettonico qui: la scuola italiana incontra quella tedesca (che poi, sono due scuole, quella austriaca e quella germanica, diverse tra loro). Questo incontro virtuoso, tra la scuola italiana più storica, teorica, e quella tedesca è più pratica, ma anche capace di rompere con l’accademismo, porta a ottimi risultati.
Come, quando e perché, sono nate “le vignette di Rudi”?
Le prime vignette risalgono ai tempi della scuola. Ero uno da ultima fila, e da lì, osservavo professori e compagni che poi ritraevo. Molti anni dopo, per la rivista scientifica dell’Eurac, mi è stato chiesto di fare qualche disegno, da lì in poi non ho mai smesso. Ma ancora oggi, mi capita a volte quello che mi capitava a scuola: se sono a una conferenza, osservo chi parla, la situazione, e faccio qualche vignetta. Poi, se mi va, le regalo pure al relatore preso di mira!
I temi su cui si trova a ironizzare, non sono i più semplici. Si tratta spesso di temi scientifici, dalle centrali idroelettriche all’inquinamento, dalle mummie allo sviluppo tecnologico. Come fa a trovare sempre l’ispirazione e la battuta giusta?
Mi viene naturale, sono così anche nella vita, fare battute, dette o disegnate, è il mio modo di essere. Il risultato però dipende molto da chi hai davanti, da come sviluppa il discorso. Se il dibattito è ben fatto, se il relatore riesce a creare delle immagini, per me il lavoro è più semplice. Insomma, trasporre i concetti in immagine, è il mio modus operandi, è una cosa che proprio mi esce spontanea, e così, non mi sono mai nemmeno troppo preoccupato di creare “un metodo”. L’importante è fare e rifare continuamente, e osservare le cose, anche nel retro della medaglia.
Lei crea vignette indistintamente in italiano e in tedesco. E i due mondi, si sa, hanno anche un senso dell’umorismo molto diverso. Come fa?
In famiglia, c’è stato sempre un forte interesse per il mondo tedesco. Mia nonna triestina, è nata sotto l’impero austroungarico (ha pure incontrato “Cecco Beppe”, una volta). Mio padre, magistrato, arrivato qui da Padova, mi ha sempre spinto a studiare il tedesco e a conoscerne la cultura, e così per me imparare una lingua, è diventato un vero divertimento. E creare, inventare, pensare, giochi di parole e sketch per le mie vignette è una parte importante del divertimento. A volte, ed è buffo, sono riuscito ad avere più successo con le vignette in tedesco.
Dal suo punto di osservazione, il bello e il brutto dell’Alto Adige?
Il bello dell’Alto Adige, è che stando qui, si possono aprire delle finestre sull’altra cultura, così si può capire meglio il diverso da sé. Io l’ho imparato da mio padre, il rispetto, la comprensione, l’apertura verso l’altro. Ed è un insegnamento fondamentale. Però, troppo spesso, l’Alto Adige si chiude nella sua autoreferenzialità, e questo è un male. Non è solo una terra di montagne e tradizioni, seppur importanti. Abbiamo un livello culturale alto, ma non abbiamo le eccellenze che ci potrebbero essere, questo, appunto, perché non ci pone in concorrenza virtuosa con l’altro. E dunque il rischio, è di addormentarsi e sclerotizzarsi. E lo dico perché questa terra, mi sta davvero molto a cuore. È una terra di contraddizioni profonde, se non si accettano queste contraddizioni, non la si può capire, ne starci bene.
Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 17 giugno 2012
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