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June 14, 2022
Tutta la realtà di un sogno:
unʼintervista a Francesca Pennini
Stefania Santoni
Due sono le vie
per le ombre dei sogni: una è di corno,
lʼaltra è dʼavorio. Quando i sogni escono
dalla porta d’avorio, sono falsi;
quelli che escono dallʼaltra porta di corno
sono veri, visti da un essere mortale.
Odissea, XIX 562-567
La vita è sogno e i sogni non sono altro che sogni.
Calderón della Barca
Ogni volta che sogniamo ci connettiamo con la parte più intima e nascosta del nostro sé. Ci abbandoniamo a unʼesperienza misteriosa e – talvolta – paurosa: lo stato di non vigilanza e controllo di ciò che siamo ci fa compiere un salto nel vuoto chiedendoci un atto di coraggio non indifferente. Perché sognare è affidarsi e lasciare andare. È far accadere e creare spazio. È trasformare la nostra matrice inconscia in una visione, in unʼimmagine tanto effimera quanto reale, così profondamente narrativa, così sensibilmente evocativa.
Di questo e molto altro ho parlato con Francesca Pennini, co-curatrice di Weekend Cannibale da Sogno per Centrale Fies.
Come e soprattutto cosa è stato il weekend cannibale da sogno curato a Centrale Fies?
Il weekend cannibale da sogno è stato. Ed è stato da sogno. E come tutti i sogni è finito rimanendo eco e latenza di una strana dimensione di realtà. Vera eppure altra, qualcosa di subito invisibile. La sensazione rimasta addosso a me, ma anche quella raccontata da chi ha condiviso la sua “allucinazione” su ciò che ha vissuto, è quella di essersi trovati in uno spazio-tempo differenti: un altro strato del quotidiano, qualcosa che rimane nella memoria e sulla pelle in modo diverso. Evanescente, eppure fondante. Tra apocalissi e benedizioni si è consumato e generato qualcosa che non sappiamo come chiamare, un fenomeno che non vogliamo imbrigliare né lapidare in un’identità.
Il dialogo curatoriale con Barbara Boninsegna è stato un dono di libertà e sagacia, di coraggio guerriero e amore materno e il mondo di Centrale Fies – il suo popolo sorridente e inarrestabile, i suoi spazi fascinosi, la sua natura maestosa – è quello ideale per fare piccole grandi rivoluzioni culturali. Mescolare una parte della tribù di CollettivO CineticO al mondo della centrale, ai boschi, ai funghi, ai tecnici, alle sale teatrali, ai cuochi, alle artiste… tutte e tutti con i nervi in questa missione impossibile è stato come disegnare nuove forme di famiglia.
Il weekend cannibale non è stato un festival, eppure è stato come una festa. Forse è il divertimento nella sua accezione più squisitamente etimologica di de-vertere, volgere altrove, farsi deviazione dalla via nota. La volontà era quella di costruire, a partire dall’apertura dei processi artistici, un ragionamento fatto di azione, un collettore di esperienze e un territorio di “pensiero da fare” con i corpi, un rifrattore di punti di vista. Questa condivisione fuori formato, questa richiesta di complicità, ha avuto per me la forza di una piccola rivoluzione che ha ramificato nella vita attorno ai momenti performativi, fuori dal perimetro delle istallazioni, sconfinando boccascena e cornici.
Le opere artistiche sono state l’innesco, la chiamata ad un contagio sul quotidiano e sull’umano. Credo che il senso della creazione artistica e in particolare della dimensione performativa sia proprio questo: la possibilità – per tutti i soggetti coinvolti – di una vita ad alta intensità, di una amplificazione dell’attenzione, della consapevolezza, di altre conduzioni del pensiero. Performance come generazione di fenomeni in cui azione e sguardo diventano sostanza lisergica per nuove consistenze della presenza.
Nel piccolo, nel silenzio, nel dettaglio, nel buio, nel sonno, nell’immobilità abbiamo trovato piccole epifanie, bruciato commoventi durate dedicate all’indicibile. È stato un irraccontabile piccolo pianeta temporaneo.
Cosa significa per te sognare?
Sognare per me significa proprio questo, dare voce alla possibilità di verità molteplici e contraddittorie. Stare in ascolto piuttosto che in comando. Accettare, ogni volta, che la geometria del pensiero della veglia è solo una delle tante possibilità, fuori da leggi euclidee o logiche, fuori dal solito dicibile. E allora per ospitare la dimensione del sogno in quella della veglia siamo costretti ad un contorsionismo del pensiero e del linguaggio che ne estende i confini.Infine, forse, il sogno è l’unico luogo, l’unico fenomeno creativo, in cui possiamo essere contemporaneamente autori, performer e spettatori.
In che modo un sogno si può trasformare in un atto performativo collettivo?
Un sogno si può trasformare in un atto performativo collettivo ogni volta che ci invita ad essere presenti in altro modo, che ci permette di trasformarci, di discordare con noi stessi, di non coincidere, di fare un passo fuori dall’illusione di identità e stabilità.
Fisicamente, sognare in uno spazio condiviso con altre persone credo sia un atto di profonda condivisione e fiducia, di potente vulnerabilità. Penso sia una pratica che necessità di ridiscutere il senso di proprietà dello spazio, e forse anche del corpo. Deterritorializzarsi.
Sognare in una dimensione collettiva, in uno spazio che non rientra nella nostra zona di comfort, significa compiere un atto di coraggio, ma anche di fiducia perché sogno equivale a perdita di coscienza di sé. Si tratta di una sorta di abbandono all’altro. Cosa ti aspetti dal pubblico?
Nel caso di Manifesto Cannibale l’esperienza di essere nudi, con cuffie insonorizzanti e di addormentarsi in scena sapendo che il pubblico sta per entrare in sala è tanto terrorizzante quanto liberatoria, è talmente disarmata da essere salvifica. Penso anche allo sleeping concert di 19’40”. Quando tutti dormivano i compositori erano gli unici custodi del sonno altrui e al tempo stesso lo orchestravano penetrando con i suoni nelle sue maglie… un ruolo di grande cura ed intimità. O ancora, quando osservavo i performer di “Dream” di Alessandro Sciarroni la mia sensazione era simile: essere investita del privilegio e della responsabilità di avvicinarmi ad uno stato delicatissimo, spellato, privato.
Tutta questa fragilità così generosamente esposta è stata trattata con uno sguardo gentile delle spettatrici e degli spettatori, con il passo attento e coraggioso del funambolo.
Ogni tanto c’è stato l’azzardo di un tocco, di un gesto che coglieva l’invito a riscrivere le regole di un galateo della relazione teatrale forse troppo polveroso. Oppure ancora il tastare il terreno del gioco, i confini del possibile guidando con una tastiera i corpi di “I x I No, non distruggeremo Centrale Fies” a collisioni, incastri, fughe.
Non mi piace avere aspettative sul pubblico, provo ad immaginarmi spettatrice e a creare con questa proiezione, considerando sempre l’importanza di quell’interlocuzione, la sua presenza come soggetto fondante della creazione. Poi, però, mi faccio solo osservatrice e per me la meraviglia è vedere cosa succede, come una scienziata che mescola per la prima volta due sostanze.
Chi guarda genera una reazione chimica che mi racconta la natura stessa della creazione. Ho immaginato la dimensione teatrale di Manifesto Cannibale – e in generale quella di tutto il weekend – come una Schubertiade, una festa privata dove condividere creazioni, in cui nessuno è straniero. Sono felice di sapere che molti se ne sono andati con qualche segno addosso da portare con fierezza, con parole da farsi girare dentro, con impressioni vivide sotto alle palpebre da riguardare ancora e ancora.
Come dicevo questo racconto per me ha la difficoltà della materia indicibile… e dunque, per risonanza con la dimensione plurale del weekend, vorrei farlo raccontare agli Altri, alle Altre, attraverso le parole di chi ha visto, partecipato e fatto. Ringrazio tutte e tutti per i loro contributi, fatti di corpi, pensieri e parole.
Alcuni feedback dei e delle partecipanti.
“Oggi, a due giorni di distanza dalla nottata passata in Centrale, ancora ho il sapore di questa esperienza così indefinibile. La stessa sensazione che mi lasciano certi sogni intensi, quasi un vago senso d’innamoramento.”
Sebastiano
“Un sogno atteso, preparato, già immaginato. Poi una strana compressione di spazio tempo, un incantesimo idroelettrico, nomi che diventano persone amiche, stasi che diventano danze sfrenate, sussurri che ipnotizzano e buio, luce, sonno, temporale e risa che irrompono all’improvviso sul ciglio della fine del mondo. Ho prestato cura. Ci siamo presi cura.”
Matilde
“Sono in grado di dormire in qualunque situazione. Mi sono addormentato, risvegliato e riaddormentato di nuovo. Tutto in uno stato di reverie. Stati alterati della realtà, cronotropismi che corrispondevano a differenti ritmi del vissuto. Risonanze di ninnananne, combinatorie di sonorità naturali e sintetiche. Percezioni spaziali difformi rispetto al luogo e ai compagni dormienti. [...] In tutti i vostri lavori mi son trovato a fronte la questione dell’istante e della durata. Che ne è del tempo quando vi immobilizzate? Forse la memoria non conserva che l’istante e niente della durata. L’istante semplice dell’arresto e la ‘decisione’ istantanea dello scioglimento. Forse tutto ciò che è durevole è il dono di un istante… nello sciogliersi dei legamenti sento lo svolgersi dell’assoluto”.
Marino
“Sono giorni che elaboro gli spettacoli che mi avete offerto. Meravigliosi, penetranti e profondi. [...] L’essere umano è intelligente ma fragile, cieco ma aquila. Grazie per avermi dato tanta linfa per questi pensieri.”
Elenia
“I primi giorni faccio parte del paesaggio. Potrei essere l’acqua, ma meno importante. Lei scorre e anche io sono di passaggio. A Fies se chiudi gli occhi senti l’acqua sotto la terra sotto i piedi sotto le radici degli alberi sotto i ricordi della volta prima o prima volta di ogni cosa che immagini là dove l’acqua ha deciso di partire. […]
Ora siamo solo qui e io andrei avanti ancora e ancora. È l’unico modo di incontrare davvero le persone. Grazie.
58 minuti. Mi sono fermata e subito la certezza che sarei stata lì per sempre. Ho sentito un rigolo di sangue scorrere dalle mie mutande verso il tallone sinistro. Ne ero sicura, orgogliosa di quel trionfo in scena del mio primo giorno di mestruazioni. Poi ho scoperto che era solo una sensazione, un’allucinazione, una realtà di quel momento. Il corpo pulsava e questa danza della vita mi sosteneva. Sentivo i limiti del mio corpo espandersi, come se fossi stata un palloncino che si gonfiava per raggiungere un peso più leggero di quello dell’aria. Muovendomi il mondo intorno si aggiuntava sulle mie angolazioni, ma nessuno se ne è accorto.”
Emma
“Incredibile come una situazione fisica forzata possa trasformarsi in pensiero artistico-poetico e come questo pensiero artistico-poetico possa far reinterpretare una realtà che fino a ieri appariva così tremendamente immobile o condizionata non da se stessa, ma dalla realtà alla quale appartiene. È proprio un vero manifesto di Vita cannibale (per me nel senso di nutrimento del pensiero umano).”
Vania
“Le radici cedono, inizi a muoverti. Apri lentissimamente le palpebre ed è solo allora che capisci lucidamente: non stai cadendo nel burrone, ci stai volando sopra. Sei lo spirito dell’albero e un’ondata di applausi ti solleva ancora più in alto. Quando ti siedi, quando ti siedi insieme agli altri spiriti, senti che siete una famiglia. Guardi gli alberi rimasti, ciascuno sul suo burrone, e l’energia ti esce dal petto e li nutre immediatamente. Lo senti quello che stanno provando in quel preciso momento perché era anche il tuo momento, poco fa. Man mano che anche loro iniziano a muoversi non riesci a nascondere un sorriso e la commozione. Perché è lì che si svela la verità più bella. Non c’è un singolo albero nella foresta che sia solo.”
Mattia
“E vedo tutto
Con corpo alato mi stendo sul prato
E fiorisco
Nelle vene e nei sogni”
Stefano
“C’è poco tempo, il mondo sta per finire. Ma quale tempo? Quale fine?
I polpastrelli ancorati al suolo, lo stimolo genera un flusso cinetico ecco che inizia il viaggio… […] Pensare che è quella la posizione che assumerai per un tempo infinito.
Pensare che non sia un’immobilità umiliante, ma come un atto di resistenza, tu resisti alla gravità, resisti al tempo, sei tu che governi lo spazio. Ogni trasformazione assume la sua forma. […] Mi sono immobilizzata con il capo chino durante il rito collettivo di URUTAU, la mia resistenza ha trovato spazio in tutte queste metamorfosi. Di finito c’è solo lo scompiglio di questa carne che non si concede tempi morti. Ogni appuntamento di CollettivO CineticO è stato un piacere visivo ma soprattutto un sollecito a stimolare quella risorsa rinnovabile che è la creatività che giace nelle nostre menti. Grazie di cuore.”
Norma
“Non siamo forse fatti per questo? Vivere e complicare il mondo. Trovare qualcuno che ci sappia posare le mani sulle scapole e indicarci la via più rapida che rapida non è per guarire – e subito dopo, tornare a fare caos col mondo. C’è solo questo di scritto: vivere. Non serve speranza, serve solo fame, oppure un gruppo di amati amici che restino lì dove sono anche quando pensi di essere sazia.”
Marco
“Ho visto un corpo svuotarsi e cadere, guardarsi da fuori attraverso mani colme di paura fino a perdere l’equilibrio
Ho visto poi quello stesso corpo rinascere dalla terra robusto come una pianta, affermarsi senza doveri di grazia, senza spiegazioni d’intelletto.
Ho visto la bellezza del sudore, il potere del limite intrinseco in tutto ciò che vive. La forza della stanchezza. Ho visto in tanti corpi un corpo solo, che vuole sentirsi a pieno senza svuotarsi mai più.”
Clara
“Arte a 360 gradi. Coinvolgente, viscerale.
E Lieve, con la Grazia e la misura del Talento .”
Oscar
“Ti ho sognata. Eravamo a Fies. Proprio ora. Mi raccontavi di com’era stato, di cos’era successo. E un po’ me lo raccontavi come se fosse già successo e un po’ come se dovesse ancora succedere. Mi raccontavi il piano luci, quello che era successo. Ti chiedevo cos’era stato Urutau. Mi rispondevi che avrei dovuto saperlo ma ti dicevo che quando ci eravamo visti l’ultima volta ancora non esisteva nulla. Poi ti dicevo che mi dispiaceva non aver visto Manifesto Cannibale e in generale Angelo in scena, perché quando l’avevo visto in Cavallerizza a Reggio Emilia ero rimasto molto colpito per la forza che ha in scena. Poi ci interrompevano alcuni tecnici che avevano bisogno di parlarmi e mi sono svegliato.”
Andrea (che non è potuto venire fisicamente al weekend cannibale)
“L’estasi della decelerazione
Ho un cuore di misure ridotte, le mie periferie sono molto vicine al centro. La forza con cui il sangue viene lanciato verso le mani è senza motivo, puro spreco, pura dissipazione. Il mio cuore è veloce, anche quando non ne ha motivo. Arterie come canne di fucile, il sangue è un proiettile. Ogni colpo è una decisione. Ogni colpo è decidere.
Di tutto lo spazio terrestre io occupo solo la superficie della pianta dei miei piedi. Si sprecano i pensieri sull’umiltà di questa proporzione.
“Rallentategli il battito cardiaco”, è un ordine.
Nella chiesa di san Francesco a Ripa c’è un marmo del Bernini, l’estasi di Santa Teresa. È distesa col collo riverso. Nel pomeriggio entra, dalla piccola cupola, una lama di luce. Il cuore di Teresa è trafitto. Il periodo della decelerazione del movimento è la mia estasi personale. Rallentare fino all’estremo ha il sapore di una pillola che scende sul fondo e si scioglie nel sangue e mescola tutto, il fuori col dentro, gli altri con me. Ogni dettaglio diventa nitido, le molecole sono un’evidenza. È aver dissipato il movimento che rende il gesto puro, quando il gesto sparisce. La mia mente è imbottita di frasi retoriche, ma il mio corpo è molto sincero, molto onesto.
Danzare è una droga.”
Teodora
Immagini: Centrale Fies, 19’40’’ Sleeping Concert, by Roberta Segata
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