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October 1, 2024
Non un teatro “socialmente utile”, ma “culturalmente necessario”.
Dieci anni de La Ribalta
Silvia M. C. Senette
Nel 2014 fa nasceva a Bolzano un esperimento rivoluzionario: la prima cooperativa teatrale italiana interamente composta da attori professionisti con disabilità fisiche o psichiche. Un progetto che non si è mai accontentato di essere un’iniziativa sociale, ma ha rivendicato con forza la propria necessità culturale. Antonio Viganò, fondatore e direttore artistico del Teatro La Ribalta, ha traghettato la compagnia ben oltre i confini del teatro tradizionale, affrontando con coraggio pregiudizi e sfide creative.
Oggi, dopo un decennio di spettacoli acclamati e riconoscimenti prestigiosi – tra cui il prestigioso Premio Ubu “per la qualità della ricerca artistica creativa e politica in ambiti spesso marginali e con attenzione capillare alla diversità” – Viganò riflette sul percorso compiuto e sulle ambizioni della compagnia. Un bilancio che tiene sempre presente la natura del teatro stesso e la sua funzione primaria.
Antonio, ricordi la scintilla che ha dato il via a tutto dieci anni fa?
Eccome! Abbiamo iniziato con le idee molto chiare: non volevamo creare un teatro a parte, ma volevamo essere una parte del teatro, al pari di qualsiasi altra compagnia. Una missione a cui siamo rimasti fedeli a ogni stagione, a ogni spettacolo, a ogni replica. Gli attori del Teatro La Ribalta non cercano indulgenza o compassione dal pubblico, ma chiedono di essere giudicati per la loro capacità di comunicare emozioni e storie in modo intenso, credibile. Il nostro lavoro è profondamente artistico e poetico, ma non terapeutico. Il teatro è il luogo in cui le persone, con tutte le loro fragilità, possono essere libere di sperimentare, di mettersi a nudo di fronte allo sguardo dell’altro. Questa compagnia è uno spazio di riscatto e di verità.
Quali sono state le principali sfide che avete affrontato in questo viaggio emozionante?
La più grande è stata quella di combattere i pregiudizi culturali che circondano l’handicap. Molti vedono le persone con disabilità come soggetti da proteggere o intrattenere, ma noi abbiamo rivendicato il diritto di non essere solo le “persone svantaggiate” definite dai protocolli. Lavoriamo ogni giorno per creare nuovi codici, per dimostrare che si può essere altro rispetto alla propria malattia ma anche con la capacità di affrontare temi complessi come l’autismo o la diversità fisica con profondità e delicatezza.
Proponete una nuova estetica della diversità?
Credo che questo ci venga riconosciuto trasversalmente e unanimemente. In dieci anni di attività la compagnia ha realizzato 18 creazioni teatrali e 14 coproduzioni, con 704 recite in 13 Paesi che hanno portando i nostri spettacoli in tutta Europa e oltre. Ma i numeri raccontano solo una parte della storia: non dicono nulla della qualità di ciò che facciamo, che non è automatica. Dobbiamo costantemente ribadire la cornice etica e politica in cui operiamo: non vogliamo essere un soggetto “socialmente utile”, ma “culturalmente necessario”. Il teatro ha bisogno delle ferite e delle ombre che la nostra società tende a escludere. È proprio in questa complessità che risiede la nostra forza poetica.
La diversità non come un ostacolo, ma come fonte inesauribile di ispirazione artistica?
Il dolore, la disabilità e il disagio mentale sono condizioni che non lasciano spazio alla mistificazione. Se gestite con arte e consapevolezza, diventano un potente mezzo di comunicazione teatrale. Il nostro obiettivo è dimostrare che si può essere qualcosa di più della propria malattia.
Quale tra tanti spettacoli, lo esemplifica meglio?
Direi che un esempio emblematico della nostra visione lo offre “Otello Circus”, che ha raccolto consensi unanimi di pubblico e critica: uno spettacolo che ci ha portato in tutta Europa, da Napoli a Londra, passando per la Spagna e il Portogallo. Ma oltre al successo internazionale, ciò che ci rende davvero orgogliosi è il riconoscimento artistico. Abbiamo vinto il Premio Speciale Ubu, il massimo riconoscimento del teatro italiano, e questo dimostra che la nostra compagnia non è solo un’eccezione o una concessione al buonismo, ma può competere a pieno titolo nel panorama teatrale contemporaneo.
Il percorso non sarà stato privo di difficoltà…
La nostra è una compagnia che affronta quotidianamente sfide enormi, sul piano sia fisico sia mentale. Il teatro per noi è un luogo di incontro, di confronto, dove la diversità viene accolta senza imbarazzo. Gli attori devono gestire crisi personali, prendere medicine, mantenere la propria autonomia… ma proprio queste difficoltà ci rendono ancora più determinati a continuare. Continuiamo a lavorare per essere portatori di visioni alte, lontani dal pietismo. Finché siamo inquieti, possiamo essere tranquilli.
E l’interazione con il pubblico com’è?
Sempre nuova e stupefacente. Gli attori “di-versi” portano con sé una forza emotiva autentica, qualcosa che sfugge alle tecniche tradizionali. Abbiamo ricevuto tanto affetto, ma anche critiche costruttive che ci hanno aiutato a crescere. L’aspetto più sorprendente è vedere come il pubblico si specchi in questa fragilità, trovando un senso di verità e di umanità che va oltre la rappresentazione scenica. I nostri artisti portano sul palco un teatro che non cerca compassione, ma punta dritto al cuore dello spettatore lasciandolo senza fiato. In questo decennio abbiamo saputo raccontare storie profonde e complesse, abbracciando l’unicità di ogni attore e superando ogni limite immaginabile.
Credi che il teatro sia un luogo di inquietudine?
Certamente non di rassicurazione. Il pubblico di oggi si accontenta di spettacoli che confermano ciò che già sa, ma il vero teatro deve spiazzare, deve far uscire lo spettatore con più domande che risposte. La cultura non deve essere un supermercato dello spettacolo: dobbiamo riscoprire il rito del teatro in cui si perde l’equilibrio, dove ci si confronta con le proprie paure. Il teatro è una forma d’arte, ma anche un atto politico. Il nostro lavoro dimostra che la diversità può essere una risorsa non solo per il teatro, ma per tutta la società: se il teatro è capace di uscire dall’ovvietà televisiva e di combattere la dittatura dell’uguale, può dare un contributo fondamentale a una nuova cultura dell’inclusione.
Guardando al futuro, quali nuove sfide vedi all’orizzonte?
Il futuro è continuare a lavorare senza compromessi. Abbiamo in programma nuove produzioni, tra cui una coproduzione con un ente di Pisa su “La Tempesta” di Shakespeare e un progetto sull’accessibilità teatrale. Inoltre continueremo a collaborare con teatri italiani di prestigio come il Teatro Koreja di Lecce e il Teatro Tascabile di Bergamo. La nuova stagione sarà impegnativa: abbiamo appena inaugurato la 15° edizione della rassegna “Corpi Eretici” con la produzione dal forte impatto emotivo e artistico “Fratelli”, e ora partirà la tournée che attraverserà l’Italia; partirà da Palermo e arriverà fino a Belluno toccando Lecce, Bari, Ancona, Rimini, Reggio Emilia, Roma, Como e Parma, ma anche Bergamo, Modena, Trento, Milano, Prato e Ferrara. Ci aspettano ancora tante sfide, ma se c’è una cosa che questi dieci anni ci hanno insegnato, è che siamo pronti ad affrontarle con lo stesso coraggio e la stessa determinazione che ci ha portati fin qui. Il nostro obiettivo è continuare a svelare bellezza, inventare nuovi codici estetici e, soprattutto, combattere i pregiudizi culturali sull’handicap.
Qual è il messaggio più importante che La Ribalta vuole trasmettere?
Che la diversità non è una condizione da compatire o esibire, ma un valore artistico. Il potenziale della fragilità e della vulnerabilità è ampiamente sottostimato e il teatro può essere un ospedale per l’anima, uno spazio dove il dolore diventa arte, dove l’handicap si trasforma in una forza espressiva unica. La nostra missione è riassunta magistralmente dalle parole del regista polacco Jerzy Grotowski: noi facciamo teatro “per abbattere le nostre frontiere, trascendere i nostri limiti, riempire il nostro vuoto, realizzare noi stessi”.
Foto credits: Teatro La Ribalta, ph Vasco dell’Oro
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