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February 5, 2019
Sincope: conversazione con “la poeta” Roberta Dapunt
Maria Quinz
La poesia può essere qualcosa di molto piccolo e poco voluminoso da portare con sé. Possiamo lasciarla svolazzare nella nostra testa, lieve come il battito di ali di una farfalla. Possiamo assaporarla sulla punta della lingua, come un granello di sale o stringerla in tasca, impressa su un foglio di carta qualsiasi, magari accartocciato, come una pallina da cerbottana di quando eravamo bambini. Eppure questa “cosa piccola” può spalancare abissi e galassie di senso. Può arrivare molto lontano.
Di questo e molto altro, parliamo con Roberta Dapunt, originaria della Val Badia, in occasione della recente uscita della sua terza raccolta di poesie Sincope edita da Einaudi (2018) e vincitrice del premio Viareggio.
La prima domanda è questa: come è avvenuto il suo incontro con la poesia? E quanto questo incontro ha segnato la sua giovinezza?
La mia giovinezza è stata segnata profondamente dalla poesia, nella confusione innanzitutto di capire la differenza tra la lettura di essa nei tanti libri stampati e la scrittura che conosce un foglio soltanto e la solitudine. Il percorso è stato quello dell’esplorazione, di capire come anch’io avrei potuto dire qualcosa nella ricerca profonda della parola e si tende a cercare troppo lontano. Da giovani ciò che è differente, che implica una velata accusa di stravaganza o di ostentata originalità, si rivela più interessante. Mentre la realtà aderente, se vogliamo quella più razionale, risulterà quella più difficile per consequenzialità e coerenza.
Forse, tra tutte le forme della creatività umana, poesia e letteratura possiedono la speciale “dote” di avvicinare il fruitore alla parte più intima e profonda di un altro essere umano, anche se vissuto in epoche e mondi lontanissimi. Lei cosa pensa al proposito, in quanto poeta, ma anche lettrice? Ci sono state e ci sono ancora per lei delle “voci”, che sente o ha sentito particolarmente vicine?
La poesia deve ascoltare prima ancora di essere ascoltata. Non desisterò mai dal dirlo. Nel senso che per essere scritta deve udire con attenzione, così come deve guardare con attenzione. La sua lingua parte da questo, dal considerare con cura ciò che ha di fronte. Osservare, rimanere in silenzio per sentire meglio, così da poter entrare in profondità nelle cose, nel tempo, e rivelarne i particolari per formularli in versi.
Per ciò che riguarda la mia esperienza, sento una poesia compiersi, quando nella mia lettura riesce a soddisfare il tentativo di scrittura avvenuto. Giungere al termine di uno spazio assegnato a un foglio, a un quaderno. Lì la poesia si compie in poche righe, a volte in troppe parole, mentre nello spirito rimarrà uno spazio che non ha limiti e non si sposterà da ciò che è destinato ad essere incompiuto.
La ricerca invece, della semplicità nell’espressione, rigorosamente distante da ogni semplicismo e superficialità. A me riesce difficile credere nella poesia che si eleva solamente agli alti concetti e si presta unicamente a una spinta verso l’alto. Credo invece nella sua discesa, nella sua calata, nello scorrere verso il basso a scopo di raggiungere la causa prima, di arrivare a riunirsi alla sostanza dell’essere umano, poiché si percepisce la poesia nella semplicità delle cose, solo attraverso la semplicità può succedere di essere ospitati dalla poesia, in un’immagine, nel succedersi delle cose quotidiane, nel venire al mondo, così come nell’esalare l’ultimo respiro. Nella potenza drammatica di una guerra e così anche nel suono umile degli animali che ruminano in una stalla. Qui sto ripetendo pensieri miei già scritti, ma sono per me una verità da seguire che mi accompagna ormai da tempo.
La poesia ha molti esempi concreti di ricerca nella sobrietà delle cose. Mi viene in mente Emily Dickinson, la semplicità in lei era una qualità di principio. La lettura dei suoi versi è stata per me una compagnia significativa negli anni delle mie prime esplorazioni di scritture, dove tutto era molto confuso e complesso.
Leggendo i suoi versi, si percepisce quasi una fusione tra componimento poetico e vita, tra devozione alla parola e radicamento ai luoghi, alla realtà montana e contadina della Val Badia. Quanto è vero questo per lei? E quanto conta nel suo lavoro di poeta, il legame con la sua terra di origine?
Non faccio più differenza tra vita e poesia, sono diventate per me un’unità. E mi succede questo anche tra il vicino e il lontano, anche loro ormai sono diventati un’unità. Non mi sento radicata ai luoghi, alla realtà montana e contadina della Val Badia. In uno dei miei versi ho scritto che sono la zolla staccata dei campi coltivati. Continuo ad esserlo. Ciononostante per ogni espressione, così per la poesia, ci vogliono una persona, un tempo e un luogo. Il mio è inesorabilmente il tempo presente, il primo luogo è quello che mi ospita, in questo la realtà rurale di un maso alpino. Considerato ciò, è innanzitutto la scelta di un isolamento, che è diventata la condizione oggettiva aderente alla mia realtà di vita, che sono innanzitutto i luoghi di abitazione e che non sono privi di persone intorno, ma che possono essere molto lontani da ciò che succede fuori e ogni giorno. Più che isolamento è la consapevolezza di una separazione. In essa ci sto bene.
Il componimento Sincope, posto in copertina al libro dà il titolo all’intera raccolta. Ci può spiegare questa scelta?
Sincope è uno spostamento di accento sul corpo debole. Nel mio uso è sinonimo di spezzare. Siamo una società capace, individualmente possiamo, ma anche dobbiamo promuoverci a esseri capaci, nella dimostrazione delle nostre qualità. Amiamo essere protagonisti e tendiamo all’agonismo anche nella semplice appartenenza a una comunità. Ma dentro a questo noi, c’è l’io che non è capace, che non riesce a stare al passo e si disunisce, si separa fino ad arrivare alla solitudine. Quella che il noi non vuole vedere, perché non ci riesce, poiché troppo concentrato sull’essere valido.
Dire morte, scrivere solitudine, infecondo agire, rammarico, non è estremo. Fa parte del vocabolario della nostra vita. Ma soprattutto della vita degli altri. E gli altri sono in molti, li possiamo incontrare per strada, avere come vicini di casa, dentro casa o nel quadro delle molte notizie che vediamo, leggiamo e ascoltiamo. Questo vocabolario accompagna spesso una vita intera, dalla nascita alla sua morte. Così come anche la gratitudine interiore e la pietà. Sono espressioni che rappresentano la verità fisica di essere qui e ora. Ci dicono che ci siamo. Apparteniamo al mondo e siamo pure di questo tempo.
Tra le notizie di oggi, ho letto quella di un giovane nigeriano morto suicida per impossibilità di continuazione, poiché si era sentito rispondere no alla sua richiesta di asilo politico, ma nemmeno poteva contare sul permesso umanitario, perché annullato dal recente decreto. Già la sola lettura di questa tragedia raccolta dall’abisso dei troppi esseri umani non voluti, è un fallimento. È la sincope dell’indifferenza, che per pochi minuti ci porta a un interesse disinteressato.
C’è molta sincerità nei suoi versi. Dolore, caducità corporea e presenza ineluttabile della morte sanno convivere con la bellezza. Bellezza del vivere e bellezza della parola. Secondo lei, la poesia può arrivare dappertutto? Esistono limiti o confini che sente di non voler o poter superare?
La poesia è una comunicazione, da la possibilità a chi la scrive di rendere partecipe chi l’accoglie, di un contenuto mentale e spirituale.
Per sua natura la poesia è dappertutto, non ha limiti e non ha confini da volere o poter superare. Questo per l’ovvietà e l’intuitività della sua esistenza, essa indica sempre un’esperienza sensibile che va oltre. E per questo motivo la poesia non avrà destinazione e traguardo, se non il merito di essere letta e ricordata.
Credo di poter dire anche, che la poesia non è una salvezza e il poeta non si salva attraverso la propria poesia, poiché la poesia esiste a prescindere, nella percezione, nell’intuito. Essa ha bisogno però di realizzarsi, cerca fino a trovare un corpo e una lingua in cui incarnarsi. Chi frequenta i versi per esprimersi, ha il dovere di cogliere attraverso questa necessità una lingua nuova, viva, sanguigna, per nulla facile e scontata. E soprattutto senza certezza.
Succede che noi poeti scriviamo poesia autocelebrativa, direi rumorosa, dimenticando spesso il silenzio. Probabilmente per essere di oggi a tutti i costi, come se non lo fossimo in verità del corpo e della nostra vita. Ma anche qui mi ripeto.
Il resto spetta ad ogni lettore, attento e meno attento, che crede o meno alla scrittura che ha davanti.
Per concludere, saremmo felici se ci regalasse tre suoi componimenti, tratti da Sincope.
delle solitudini I
Eppure lo vedo, resistente rimanermi accanto,
il delirio di personalità è una catena di montaggio
tra la condizione di chi è solo e il bisogno di comunicazione.
È voce persa la mia, che si trasforma in emozione
anche quando non è richiesta.
Curato ciò che appare e lì dietro le incisioni nel volto,
nell’universo dei discorsi e delle parole scritte
la solitudine non è isolamento, non è isolamento la solitudine,
che potrà anche essere espansione del verso
ma rimane capitolazione dello spirito.
De Anima
nel profilo della carne mi presento,
terra promessa avuta in dono dalla natura
che dal seno su verso il collo la mia partitura
ha note incise tra i capillari e le arterie profonde, ascolta
questa è musica del mio tempo, da quando il mio respiro
ha dato inizio al componimento della mia esistenza.
Qui nel profilo della mia carne ora il tuo guardare
è su di me lavoro d’incavo, vocabolario
dei tuoi pensieri, che mi graffia la fronte,
lingua efficace delle profondità non dette
che mi penetra la natura e oltre. E non ti accorgi
che stai raccogliendo il tuo sguardo sulla mia anima,
mentre io dal profilo di questa carne
vedo te, inesorabile nel tuo elemento materiale.
sincope I
Lì in fondo ad ogni ultimo verso
improvvisa è la perdita di coscienza.
Lettore, io emetto suoni su tempi deboli,
che siano essi di giorni riposti o demenza,
così l’alcol, così l’amore e la morte.
Sono queste le mie verità,
lasciano le visioni accese persino al gelo notturno.
Che nella notte, io le rumino.
ma nel giorno, io di loro mi alimento.
Il 23 febbraio alle 11, nel contesto di VIN-o-TON – evento dedicato alla musica classica contemporanea organizzato dalla cantina Alois Lageder negli spazi di Cason Hirschprunn a Magrè – Roberta Dapunt parteciperà insieme a Eduard Demetz e Daniel Heide a un dibattito moderato da Mateo Taibon. In questa occasione la poetessa reciterà le 7 poesie messe in musica da Eduard Demetz, musicista in residenza ospitato da Alois Lageder.
Nella prima foto, scattata da Anna Anvidalfarei, Roberta Dapunt e la figlia Maria.
Nella seconda, la copertina della raccolta di poesie “Sincope”.
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