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April 5, 2023

IPES in mostra al Trevilab
Intervista a Ivo Corrà e Michele Fuchich

Maria Quinz

C’è una cosa che la fotografia deve avere, l’umanità del momento. Robert Frank

Il vissuto di certi luoghi può essere raccontato in molti modi. Ma se un fotografo è chiamato a imbracciare il suo strumento per bloccare attimi di tale vita, strappandoli al mutevole fluire del tempo, allora quelle storie possono diventare squarci di vissuto condiviso, soprattutto laddove siano noti, anche se solo in parte. Visioni che sono sprofondamenti nella realtà tra architetture, strade, paesaggi, cose, animali e soprattutto persone, mostrati sì, attraverso la particolare lente del fotografo, ma comunque capaci di risvegliare in chi le osserva un’esperienza anche personale, che scava nel ricordo, in bilico tra riconoscimento e stupore, passato e presente, memoria e lontananza.

Ed è con tale attitudine, un misto di familiarità e un leggero senso di straniamento (da bolzanina trapiantata da tempo a Milano) che osservo le belle fotografie scattate nel territorio altoatesino dal fotografo Ivo Corrà, esposte in un’ampia mostra fotografica al Trevilab, dal titolo ”Abitare è vita”, con la curatela di Michele Fuchich. L’esposizione racconta una storia densa e stratificata ricca di trame e traiettorie da scoprire (e riscoprire): quella dell’universo IPES, Istituto per l’edilizia sociale in Alto Adige, che ha voluto festeggiare i suoi cinquant’anni di vita con un libro fotografico, curato nel 2022 da doc a Communication Group e poi con una mostra attualmente in corso al Centro Trevi, fino al 12 aprile.

Sono felice di aver avuto l’occasione di un confronto sia con il fotografo bolzanino Ivo Corrà che con il curatore toscano Michele Fuchich, che insieme hanno portato in mostra uno sfaccettato excursus visivo, rivelando una realtà sorprendentemente diversificata e che tocca non solo alcuni quartieri di Bolzano e le sue periferie, ma anche tante altre zone della provincia, da Vipiteno e Colle Isarco, nei pressi del Brennero, a Brunico e Campo Tures in Val Pusteria; dai centri venostani di Silandro e Lasa al borgo di Solda in Alta Val Venosta; da Bressanone a Merano passando per l’insediamento industriale di Sinigo.“Tra realtà e rappresentazione” è il titolo del talk che si è tenuto il 4 aprile al Trevilab, avvenuto alla presenza del curatore, del fotografo e dell’ingegnere Gianfranco Minotti, per lungo tempo collaboratore di IPES, ognuno di loro portatore di una visione approfondita, ma comunque diversa, per esperienza e approccio comunicativo. E intorno a questo tema, alla duplice dimensione della fotografia “tra realtà e rappresentazione”, mi sembrava interessante indirizzare anche questa intervista.

039ivo corrà © 2022_ICF3358press Ivo, come hai accolto la commissione di questo progetto e come è avvenuto il tuo l’incontro, umano e professionale, con l’universo di IPES?

Questo progetto è stata un’esperienza importante e arricchente da più punti di vista. Sicuramente è stato rilevante il fatto che la commissione ci abbia concesso tempi generosi per sviluppare il progetto, cosa che ci ha permesso di raccogliere tanto materiale e sviluppare in profondità il tema, con un maggiore coinvolgimento emotivo. Sono entrato gradualmente nella realtà di IPES (che ricordiamo, dà casa a più di 30.000 abitanti) con il mio immaginario limitato, aspetto probabilmente condiviso da molti bolzanini, abituati a frequentare sempre le stesse parti di città e che quando pensano all’edilizia sociale in Alto Adige hanno in mente le “Semirurali”, i quartieri di Don Bosco, qualche palazzone in periferia a Bolzano e poco altro… In realtà l’edilizia di IPES è dislocata ovunque in Alto Adige con situazioni molto diverse. Per esempio a Campo Tures trovi case molto datate, mentre al Renon ne trovi di nuovissime, perfettamente integrate nel tessuto urbano. A volte non le riconosci, a volte invece saltano all’occhio, come in certi grandi progetti architettonici degli anni ‘80. Ci sono poi situazioni abitative molto differenti: quelle che facilitano il rapporto stretto tra le persone e dove quindi l’architettura ha progettato degli spazi per la socialità (come nel quartiere delle cosiddette “Inglesine”) e quelle, che, per come sono state concepite, non li contemplano affatto. Una realtà complessa ed eterogenea si trova, per esempio, anche a Sinigo vicino a Merano dove nelle case IPES abitano 3.000 persone, costituendo una fetta consistente degli abitanti del luogo. Mi sono confrontato quindi con tale universo, scoprendolo grazie ai collaboratori di IPES che si sono resi disponibili a farci da guida, tra questi anche i cosiddetti assistenti all’inquilinato – persone che fanno da mediatori tra l’istituto e gli inquilini e che svolgono un lavoro quasi da “psicologi”, che va ben oltre la gestione dei contatti. Siamo entrati quindi in luoghi difficili da visitare, come il quartiere Casanova con i suoi impianti fotovoltaici o le aree tecniche riqualificate con il progetto europeo Sinfonia in via Cagliari, così come nelle case, dentro l’intimità degli appartamenti. Perché in ogni caso, ciò che ho maggiormente a cuore dell’universo IPES sono le persone. Ho voluto quindi cogliere con la mia fotografia una narrazione che avesse un certo ritmo, che alternasse volti ad architetture, vedute dall’alto a situazioni di vita nei quartieri: ho cercato di mescolare molti generi della fotografia che mi sono congeniali, ma l’idea era comunque quella di dare un taglio umano alla narrazione. Questo è stato il lavoro che mi ha impegnato di più e che mi ha dato maggiore soddisfazione. Ho capito in questo caso, come in altri, che se hai un progetto valido e credi in ciò che fai, riesci a comunicarlo senza troppe parole, ricevendo la fiducia delle persone.137ivo corrà © 2022_ICF9096press Dal libro fotografico alla mostra… Quale è l’esperienza che, assieme al curatore Michele Fuchich, hai voluto creare al Trevilab in funzione dello spettatore? 

Allo spettatore proponiamo un percorso visivo che si snoda negli spazi del centro con 120 fotografie, selezionate a 4 mani con un lavoro intenso svolto assieme a Michele. Abbiamo voluto creare la possibilità di più letture: il foyer rappresenta il “momento esplorativo”, la fase in cui ti avvicini a una tematica, affrontandola di pancia, quando la osservi nell’interazione tra architettura e persone, cercando di capire cosa succede. Un incipit, se vogliamo, da “street photography “(che una volta si sarebbe detta fotografia di osservazione o istantanea), dove non hai nessuna relazione con quello che vedi intorno ma in cui, se da fotografo noti qualcosa di interessante dal punto di vista narrativo o compositivo, scatti la foto. Poi ci sono spazi dove si giustappongono ritratti, volti, primissimi piani, dettagli di luoghi e architetture, creando una visione sfaccettata. La mostra è un’esperienza diversa dal libro, va vissuta nello spazio a seconda di come ti muovi. Volevamo che al Trevilab – che non è solo un contesto espositivo, ma anzi è frequentato quasi quotidianamente per altre finalità – la mostra potesse essere un presenza forte, anche per chi si trovasse lì con differenti scopi. Abbiamo quindi lavorato mettendo a confronto immagini di diversa dimensione, anche molto grandi, come al piano superiore, mentre al primo piano, nelle nicchie, ci piaceva l’idea di creare dei micro racconti, in cui vedere le persone accanto al luogo dove vivono e poi stimolare dei rimandi visivi in libera associazione, a più livelli, eliminando i classici pannelli usati abitualmente nelle mostre e tappezzando invece le pareti in una dimensione il più possibile avvolgente._ICF6339press

Ivo che cosa ti porti a casa da questa esperienza?

Mi porto a casa tante storie. Storie di vita intensa, a volte molto tristi, a volte dolorose, a volte belle o buffe. Storie molto diverse tra loro, di chi, per esempio, nelle case popolari ci è nato, ha abitato nelle baracche del vecchio campo di concentramento di via Resia, utilizzate per abitazioni e ancora oggi ci vive, ma in un edificio costruito negli anni ‘80; oppure di chi, con intraprendenza, è riuscito a organizzare gli spazi comuni di un condominio per fare degli orti in 11 lotti per altrettante famiglie, che qui si incontrano, si scambiano le semenze, in un mix linguistico e culturale molto bello. C’è anche un video in mostra realizzato dal filmmaker Luca Zontini, che si può visionare in due postazioni dedicate, una delle quali all’ingresso in uno spazio dove è possibile consultare il catalogo della mostra e anche dei libri selezionati da Michele Fuchich, in collaborazione con la Biblioteca Claudia Augusta, che possono aiutare ad approfondire l’argomento. L’idea del video era quella di ritrovare alcune persone con cui avevo creato un bel rapporto, uno scambio di fiducia. Nel video ritornano quindi le fotografie e spezzoni filmati di queste incontri, accompagnati dal sound design di Stefano Bernardi che tiene tutto insieme dal punto di vista sonoro. Con il video volevo aggiungere un tassello in più al progetto del libro e della mostra, dare risalto ad alcune storie di vita e soprattutto ai loro protagonisti.

Michele, in questa mostra la fotografia è protagonista (assieme ai luoghi e ai soggetti immortalati) come strumento privilegiato di indagine e di racconto per immagini. In quanto curatore, come hai interagito con il fotografo, individuando un percorso visivo e quindi anche conoscitivo della realtà IPES, in funzione dello spettatore?

Come curatore e conoscitore di lungo corso dell’opera di Ivo Corrà ho ascoltato attentamente i suoi racconti: geografia del lavoro, tempi e modalità di incontro con le persone, gli strati di un suo sapere personale accumulato intorno all’”universo Ipes” nel corso della ricerca e nelle interazioni da lui intrattenute. Ho assorbito il complesso dei suoi “punti di vista” anche verbalmente trasmessi, la sua “narrativa”. Dalla densità dell’esperienza sul campo del fotografo-esploratore sono poi risalito, con lui, alla densità del lavoro visivo. Ne ho individuato al suo fianco i livelli principali: street photography, fotografia di architettura e paesaggio – urbano, extra-urbano, ibrido -, ritratto ambientato, ritratto tout court, per attenersi a definizioni comunque labili e porose. L’editing lo abbiamo costruito insieme, con una prevalenza naturale delle sue proposte, e così la strutturazione dei “capitoli” interni all’allestimento. Abbiamo letteralmente costruito la mostra nel suo studio bolzanino: abbiamo selezionato – e ripetutamente scambiato di posto, sostituito – gli scatti a partire da centinaia di provini, ossia l’interezza delle foto realizzate durante i mesi di ricerca. Organizzandoli spazialmente sul pavimento – mente rivolta agli spazi del Centro Trevi – siamo pervenuti al ragionamento sui formati di stampa e all’allestimento fin nel dettaglio. Corrà è un fotografo con un alto livello di “pre-visualizzazione” del proprio lavoro, anche mentre è in corso: come spesso avviene nella fotografia, sa per “istinto”, e ad un certo grado in partenza, in quali filoni o generi visuali (chiamale, se vuoi, “modalità di conoscenza”) andrà a inserire le parti di mondo colto attraverso l’obbiettivo. Ciò non gli impedisce di “lasciarsi sorprendere”, di lavorare da hunter: è qui, fra le maglie di una di una “superiore” volontà di racconto, che lo vede assai consapevole dei “parametri linguistici” da mettere in campo in funzione di un dato progetto, che spuntano i suoi scatti o le serie più spiazzanti, imprevisti, ferini: nel cogliere in un close up l’unione fra un pittbull ringhiante ed il suo padrone dentro un ascensore, l’evoluzione di uno sposalizio per le strade del rione Casanova, una ragazzina che sfreccia di corsa sotto un grande murales, ma anche il dettaglio in apparenza irrilevante di un interno domestico che ci dice qualcosa di forte sulla vita di un soggetto fanno scattare in avanti (riscattano?) il fotografo formatosi nella Milano degli anni ’90, fra fotografia street, il mondo aggressivo della moda e la “scuola” di reportage del suo maestro, il fotogiornalista Amedeo Vergani (che pure lo ha messo all’opera a Bolzano). Far emergere anche questi livelli – l’intreccio fra “paesaggi” architettonici o urbani e vita colta “in flagrante” – attraverso la struttura di un racconto “per sezioni” è lo scarto che la curatela (e la cura reciproca, del curatore verso il fotografo e viceversa) ha inteso infondere alla mostra; scarto, intendo, rispetto al pur fondamentale libro fotografico a firma di doc a communication group, che alla mostra dà il titolo e che la mostra ha ispirato: se “abitare è vita”, l’impianto di questa esposizione ha visto retrocedere la preminenza visiva di pur eccellenti analogie o contrasti formali inerenti agli spazi e ai tessuti architettonici, che del libro sono una cifra; e, allo stesso tempo, non ha separato in modo netto le tematiche o i veri e propri “soggetti” costitutivi del lavoro (architettura, panoramiche, ritratti in interni, ritratti in primissimo piano…). Serviva un nuovo, approfondito, se vuoi complementare viaggio attraverso il corpus fotografico, che ne mettesse in rilievo le aree linguisticamente più “ibride”. Da qui la precedenza data gli scatti o agli accostamenti fra immagini attraverso cui l’interazione e la “co-appartenenza” fra uomo e ambiente, fra persone ed habitat, emerge con maggior forza; e altrettanto a quelli in cui la foto, piuttosto che di “pura” architettura, emerge come lettura di un tessuto di relazioni più ampie fra complessi edilizi, parti di città, paesaggi urbani ed anche extra-urbani. Che è poi la stratificazione dell’universo Ipes.185ivo corrà © 2022_ICF0616press

 “Abitare è vita” è il titolo della mostra – a mio avviso molto incisivo nella sua freschezza. Cosa ci comunicano queste parole della tua visione sul progetto e sull’universo che hai avuto modo di incontrare e svelare attraverso l’esperienza di curatela?

 In parte spero di averti risposto sopra. Come ho avuto modo di dire in pubblico durante l’inaugurazione, una curatela – e anche questa – è per me una sfida se mi permetto di sognare in anticipo i pubblici a cui potrebbe rivolgersi il lavoro e il tasso di “novità” o “spiazzamento” che la mostra può rappresentare per loro. Qui, curiosamente, ho pensato prima ad un pubblico che non conosce la realtà dell’Alto Adige/Südtirol e tantomeno del suo capoluogo. Questo lavoro può far sorgere delle domande – magari lasciandole aperte – in chi non è familiare a questo territorio proprio perché non ne veicola una realtà stereotipata, pre-digerita. Per capirci: incontrare visivamente la realtà di immigrati extra-europei di seconda o terza generazione radicati in una valle lontanissima dal “centro”, il volto schiettamente “popolare” di un’inquilinato IPES che abita in edifici e quartieri letteralmente high-tech o al contrario in architetture di una certa tradizione storica (parte anch’esse dell’edilizia sociale), più in generale la mescolanza di storie ed etnie che nell’universo IPES si concentra (ed incontra!), può contribuire a scongelare qualche narrazione cristallizzata intorno a questa stessa provincia, prodotta da fuori e da dentro – può essere un motivo di particolare interesse, di “Fragestellung”. Poi si tratta di concentrarsi sul pubblico vero o prevalente di questa mostra: gli abitanti del territorio, a vario titolo, inquilini IPES e non, con i loro meccanismi di auto-riconoscimento e riflessione ingenerati. Qui si gioca la parte decisiva della partita, del fotografo anzitutto, e la circolarità dell’operazione di mediazione civico-culturale che la mostra vorrebbe incarnare, anche con l’annesso video di approfondimento (il “re-incontro” con molti dei soggetti fotografati). Mi piacerebbe che questo progetto contribuisse a profilare ulteriormente l’ormai trentennale lavoro di Corrà nel professionismo d’autore all’interno di una storia e tradizione più ampia: quella di una fotografia, italiana in particolare ma non soltanto, che dagli anni ’60 -’70 in avanti si è impegnata ad essere “descrizione densa” (concetto desunto dall’antropologia visuale) di territori altrettanto densi, urbani e non. Piuttosto che “stile documentario” descrittivo ed asettico – “topografico” – oppure concentrato sulla poetica del frammento e”dell’oggetto” singolo, è una fotografia che ha dovuto rendersi ibrida in partenza: unire o affiancare gli impulsi alla street e all’istant décisif ad  uno studio approfondito, raramente ammiccante o seducente, di luoghi e paesaggi non definibili solo per le loro “strutture”, ma per la selva di rapporti complessi che generano o inglobano. Luoghi dell’abitare, non per caso.ivo corrà © 2023_ICF6778web

L’esposizione “Abitare è vita” è visitabile fino al 12 aprile negli orari di apertura del Centro Trevi (dal lunedì al venerdì: 9:00 – 20:00), con ingresso libero e gratuito.

Credits: Ivo Corrà

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