Culture + Arts > Architecture

May 15, 2023

Gianni Pettena e la natura forte delle Dolomiti

Maria Quinz

Il 15 aprile 2023 nell’ambito di miart è stata presentata a Triennale Milano una serie di incontri con artisti, architetti, fondazioni culturali ecc. intorno a un tema comune: la capacità dell’arte, come di altre discipline affini, di innestarsi in luoghi e ambiti differenti, al di fuori dei contesti ad essa dedicati. In quell’occasione ho avuto il piacere di assistere a una vivace chiacchierata, moderata da Andrea Cassi e Michele Versaci, che aveva come protagonisti Gianni Pettena e Italo Rota, due personalità di rilievo della storia dell’architettura contemporanea, ma non solo. Focus della conversazione era il rapporto tra architettura, arte e paesaggio. Nella discussione, cadenzata dalla presentazione di alcune immagini che fungevano da spunto e orientamento per la riflessione, sono emersi diversi racconti che andavano a toccare, in particolare, il tema dei molteplici tentativi da parte dell’uomo di rendere meno inospitale – attraverso il costruito e con dispositivi di sopravvivenza e rifugio – un ambiente tanto affascinante quanto complesso: l’alta montagna. 

Mi sembra interessante proporre su queste pagine qualche contenuto emerso durante il talk, che, come ha spiegato uno dei due moderatori, ha messo a confronto due personalità “mitologiche” del mondo dell’architettura e dell’arte, due pionieri, ma anche due istrioni. Anche se la figura di Italo Rota meriterebbe una lunga presentazione, vorrei qui parlare soprattutto di Gianni Pettena (all’anagrafe Giovanni, classe 1940), legato alle montagne altoatesine per nascita. Figura poliedrica e indisciplinata, è stato fondatore, esponente e promotore dell’architettura radicale degli anni Sessanta, ma anche artista, designer, curatore, critico e teorico. Ha realizzato progetti, arredi e oggetti, installazioni, mostre, libri, pubblicazioni su riviste internazionali, mischiando tra loro i generi e reinventando nuovi linguaggi in un’intensa attività sperimentale. Ha accostato all’attività creativa fin da molto giovane anche la docenza universitaria, insegnando Storia dell’Architettura contemporanea tra Stati Uniti e Europa, in particolare a Firenze fino al 2008, città dove oggi vive e lavora (la sua casa-studio si trova sulle colline di Fiesole, con vista sulla città è in particolare sulla cupola di Brunelleschi). Dagli anni Sessanta, Pettena ha girato il mondo per partecipare a innumerevoli seminari in università e scuole di architettura e design, ma rimane sempre legato alla sua città natale, Bolzano.Gianni Pettena (2) È stato bello ascoltare i ricordi di Gianni sul suo legame con la terra d’origine e di come, muovendo i suoi primi passi da Bolzano, sia poi arrivato a rivoluzionare la scena artistica e architettonica internazionale, partendo in qualche modo dalle scalate in alta quota della sua prima giovinezza sui monti dietro casa, assecondando il suo spirito avventuroso e approdando prima allo studio dell’architettura all’università di Firenze, dove si laurea nel tumultuoso 1968 e poi oltreoceano, alla ricerca “del foglio bianco”, di un luogo senza architettura o design, di un paesaggio non contaminato dall’uomo. Nei deserti americani e in particolare nella Monument Valley, chiamata dai nativi Navaho “la Valle dei Templi”, Pettena comprende che l’architettura è dovunque, è una visione della natura, e non una questione di costruzione. Su questa rivelazione, che apre una chiara prospettiva ecologica, soprattutto negli anni della società dei consumi, baserà poi il suo lavoro di ricerca a venire, tra sperimentazioni artistiche architettoniche e critica. Ricerca che sarà sempre legata agli spazi naturali, contesti da esplorare e conoscere prima di progettare, da riconoscere come casa più che da occupare. 

Finora non avevo avuto mai l’occasione di incontrare Gianni Pettena, anche se franzmagazine gli aveva dedicato in precedenza, in occasione di alcune mostre ed eventi, delle belle interviste (qui e qui). Nel dialogo a Milano, Pettena ha spiegato come è vivo il file rouge che lo lega alle Dolomiti, lo scenario naturale che identifica come l’elemento di raccordo principale tra il passato e il presente della sua ricerca artistica e progettuale, nonché della sua vita. Da bambino, Pettena è cresciuto in città, a Bolzano, ma trascorreva tutte le estati a Moena, in Trentino, a partire dalla fine della guerra. Le montagne imponenti e bellissime intorno a quel piccolo paese della “Ladinia” al confine tra Val di Fassa e Val di Fiemme, erano state il suo orizzonte più familiare nell’infanzia. Nel suo racconto in Triennale ne riaffiora vivo il ricordo.

Per esempio, quando, dopo aver partecipato in Svizzera a una serie di conferenze organizzate da Hans Ulrich Obrist, in cui si era parlato della natura forte delle Alpi e avevano partecipato molte altre personalità importanti del mondo dell’architettura e dell’arte, risalendo la Val d’Ega verso Moena, era stato colpito da una sorta di folgorazione, rivedendo dopo tanto tempo il Latemar che spuntava imponente come sfondo dietro gli alberi e la collina. Malgrado i tanti viaggi, la fascinazione per il nomadismo, la curiosità verso altre realtà e culture, anche lontanissime come i deserti degli Stati Uniti, si era reso conto di non aver fatto altro, inconsapevolmente, che “chiudere il cerchio”, capendo cosa, dopo tanto viaggiare, stava cercando: “Stavo cercando quelle emozioni, folgoranti, legate alla memoria, all’origine”. Negli angoli più lontani del mondo, non aveva smesso di cercare la sua montagna “amica”, la “quinta” familiare da dove era cominciato tutto il suo percorso di vita e di esplorazione della realtà e dei linguaggi comunicativi da lui privilegiati: l’“architettura inconscia”, per usare le sue parole.thumbnail_Gianni Pettena-from about non conscious architecture -Monument Valley -1972-73-02 “La mia scuola di architettura” del 2011 è l’opera che più di altre racconta questo suo sentire: un lavoro fotografico che rappresenta le catene dolomitiche più care a Gianni Pettena, quelle della Val di Fassa in Trentino. L’opera si propone da una parte di riconoscere l’inevitabile supremazia della natura come generatrice dell’architettura e dall’altra di ribadire la necessità di fare proprio questo insegnamento in termini concettuali. Allo stesso tempo, vuole indicare come è possibile cogliere le incalcolabili potenzialità spaziali e linguistiche che la natura offre. Alla domanda del moderatore “sul modo in cui montagne dell’infanzia siano state per lui “una scuola di architettura” e se lo siano state in termini formali o “filosofici”, Gianni Pettena, risponde che il suo legame con le Dolomiti è di ordine “intimo”. Queste sono le sue parole: “Ho un rapporto naturale, di familiarità con queste montagne, tra le più belle al mondo, con questi “monumenti viventi”, che si illuminano la mattina e poi hanno un lungo percorso di vitalità fino ai tramonti, quando cambiano colore e con il ben tempo il bianco della roccia sfuma nel rosa. Le Dolomiti sono state per me una presenza “normale” quando ero bambino e poi sono via via diventata luogo di scoperta una volta diventato teenager, quando è scattata in me, con molta naturalezza, come per i coetanei, la voglia di arrampicarle: le ho scoperte quasi sempre da solo, o raramente con qualche amico. Ho avuto modo quindi di imparare spontaneamente cosa vuole dire avere un rapporto con questa presenza gigantesca, dotata di leggi proprie: bisognava imparare ad arrampicarsi, conoscere le tecniche per avanzare nel modo giusto, posizionare il piede e usare la corda, sapere amministrare le forze e attrezzarsi adeguatamente. Bisognava sapere cosa fare, come procedere, perché ad ogni azione doveva succedere un “dopo” quasi immediato: un dopo “progettato”, se vogliamo”. 

Un altro ricordo che riaffiora alla memoria di Gianni Pettena e che si lega, in particolare, al tema del costruito in montagna, con artefatti spartani e essenziali come bivacchi e rifugi e quindi più specificatamente connesso alla riflessione sull’architettura, affonda ancora le radici nell’infanzia e riporta nuovamente il focus sul rapporto “naturale” da lui vissuto in relazione all’ambiente montano: quando, tredicenne, aveva partecipato ad un campeggio con il gruppo Boys Scout di Bolzano. “Eravamo sul passo di Costalunga – ci racconta – e io trovai nel luogo dove ci eravamo accampati tronchi e cortecce che fissai tra loro e legai a tre alberi con delle corde. Creai così un piano rialzato su cui misi, a circa cinque metri da terra, la mia tenda canadese; costruii poi in modo affrettato anche una semplice scala a pioli per salirvi. Quando mi trovavo là sopra ritiravo la scala e me ne stavo tranquillo: era straordinario che con poco avessi creato questo luogo speciale tutto mio, che mi apriva un mondo. Mi piaceva soprattutto perché questo mio rifugio era stato fatto semplicemente con delle corde, delle cose trovate attorno e che alla fine del mio soggiorno di qualche settimana avrei smontato interamente. La tenda è un existence minimum magnifico, che è lì per un preciso scopo, quello di offrirti quella grotta artificiale che la natura non ti sta fornendo.”

Mentre sullo schermo sospeso scorre un’altra fotografia che non coinvolge direttamente Gianni Pettena – ma riguarda particolarmente da vicino noi altoatesini – : un’immagine di Reinhold Messner e Alexander Langer sul luogo del ritrovamento del corpo di Őtzi sul Similaun, Pettena decide allora di parlare degli oggetti conservati con la mummia. Oggi come in epoche lontanissime, l’uomo, per affrontare la natura selvaggia, si è sempre dotato di manufatti per addomesticarla, facendola diventare “terreno di progettazione”. Il ricorso a una serie di dispositivi, anche spaziali, che permettono di adattare la relazione uomo e natura, ha condotto anche alla costruzione di bivacchi e rifugi. Il rifugio – ci viene ricordato – è un’invenzione settecentesca, coeva alle prime esplorazioni sulle Alpi ed è interessante notare che il primo ricovero alpino di cui si abbia conoscenza fu costruito con l’intenzione di supportare l’esplorazione scientifica sul Monte Bianco costruita a Montenvers nel 1795 chiamato “Il tempio della natura”, adiacente al grande ghiacciaio della Mer de Glace.Gianni Pettena-Ice House II-Casa Cubo - Minneapolis - USA 1972-01 Altra immagine, altro progetto di Gianni Pettena e questa volta, altre latitudini: vediamo gli edifici inglobati nel ghiaccio a Minneapolis (opera Ice House n.1 e Ice House n.2, 1971-1972). Questi lavori come altri di quel periodo “radicale” indagano in profondità il rapporto tra architettura e natura, concentrando l’osservazione su processi diversi di lettura dell’ambiente, in cui le due dimensioni del naturale e del costruito vengono messi a confronto e contaminati, così da “rinaturalizzare luoghi e materiali denaturati” sviluppando al tempo stesso una critica sulle contraddizioni della città contemporanea e della società del consumo. Ecco il ricordo di Gianni: “Ero a Minneapolis, ci arrivai alla fine di agosto ed era un momento di enorme caldo, a cui non ero abituato e che mi ha fatto trascorrere i primi due giorni in un appartamento in affitto, davanti alla bocca del condizionatore d’aria… Due mesi e mezzo dopo arrivò invece un freddo fortissimo (lì il clima è continentale classico con caldo torrido in estate e grande freddo in inverno). A gennaio/febbraio ho sperimentato che i 30 gradi sottozero erano una cosa normale anche la notte e ho scoperto come la natura si modificava di conseguenza nella sua versione invernale, che noi che urbanizziamo prendiamo come un dato di fatto, ma che in fin dei conti, ancora oggi, non studiamo abbastanza. I nostri, in confronto a quelli della natura, sono manufatti semplici, poveri di qualsiasi tipo di comunicazione, con la minore spesa possibile creiamo un ricovero contro il freddo, come i portici vetrati davanti alle case, le automobili… I materiali della natura d’inverno costruiscono invece cose incredibili che passano del tutto inosservate. Negli ultimi anni si è scoperto che le cascate gelate in montagna sono scalabili con una tecnica minima: sono delle pareti straordinarie, scultoree, che improvvisamente nascono e muoiono alla fine dell’inverno”.

In chiusura del dialogo, invitando i due ospiti a rivolgere uno sguardo al futuro e all’ipotesi se si possa o meno immaginare un rinnovato rapporto tra uomo e montagna, avendo noi a che fare con le Alpi che oggi si presentano come “eccessivamente antropizzate”, viene mostrata dai moderatori un’immagine tratta da Alpine Architektur di Bruno Taut, che con la sua visione utopica, durante la Prima guerra mondiale, immaginava di poter colonizzare le montagne con delle costruzioni di cristallo. Viene citato di nuovo anche il grande ecologista altoatesino Alexander Langer che già nel lontano 1994 auspicava una nuova alleanza tra uomo e natura, e scriveva: “parlando di un possibile futuro amico dei grandi impegni e delle grandi cause, credo che l’obiettivo della riconciliazione con la natura sicuramente abbia oggi un posto importantissimo”. Le parole di Gianni Pettena, sul finire del talk, sono permeate da quell’ironia polemica e vivace che lo contraddistingue. E se è emersa l’innegabile visione di una dicotomia chiara tra una natura che “va per la sua strada” e l’uomo che già dai primordi ha provato a controllarla e si può dire quindi che una natura in qualche modo edulcorata, una natura “buona” esista, soprattutto per chi ci è nato, ci vive e ci lavora a stretto contatto, è vero anche che il rapporto non si è mai risolto completamente e richiede adattamenti costanti, paradigmi relazionali, così come nuove strumenti, sia di intervento che di linguaggio. Come conclude Pettena, con un sorriso sarcastico ma anche velato di malinconia: “Questo ruolo di “infermieri della natura in crisi” che gli architetti si sono assunti, è sempre più diffuso. Come le scuole di architettura che si specializzano “nel pronto soccorso dell’umanità in crisi” non indicano la strada migliore per l’architettura… L’architettura è certamente un insieme di strumenti e attrezzature che dà assistenza all’uomo, che offre un ricovero in funzione della sopravvivenza, ma è anche e una disciplina della comunicazione. Con l’architettura si racconta il proprio tempo e il modo in cui certe situazioni possono essere comunicate ed elaborate, oltre che vissute, l’architettura ci spiega come il mondo può essere condiviso. Con l’architettura non si costruisce solamente, ma si impara ad abitare insieme. Anche negli spazi più estremi”.

Credits: Archivio Gianni Pettena. (1) La mia scuola di architettura, composizione, 2011; (2) Un ritratto di Gianni Pettena; (3) From about non conscious architecture  - Monument Valley -1972-73-02; (4) Ice House II – Casa Cubo – Minneapolis – USA 1972-01.

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