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August 8, 2022

Le Nemesiache arrivano a Fies: intervista a Giulia Damiani

Stefania Santoni

Nel corso di Live Works, il progetto che Centrale Fies dedicata all’approfondimento pratico e teorico delle arti performative, ho avuto l’occasione di incontrare Giulia Damiani, ricercatrice, scrittrice e curatrice che dal 2013 ricerca la pratica artistica e politica del gruppo femminista di Napoli Le Nemesiache. Si tratta di un collettivo nato negli anni ’70 che ha dedicato la sua ricerca alle pratiche di autocoscienza (come la psicofavola), sperimentando corpo e mito in dialogo con gli elementi del paesaggio.

 Raccontami del tuo percorso di formazione, Giulia. Come ti sei avvicinata a Le Nemesiache e a Lina Mangiacapre?

Mi occupo di ricerca da diversi anni: ho da poco concluso un dottorato basato sulla pratica (quindi non solo sulla teoria) e dedicato alla performance con una tesi dal titolo Porous Places, Eruptive Bodies: The Feminist Group Le Nemesiache in 1970s and 1980s Naples. Ma il mio interesse per Le Nemesiache ha inizio molto prima, nel 2013. Allora frequentavo un Master alla Royal College of Art di Londra. Durante uno dei corsi di arte e critica mi viene richiesto di realizzare un progetto il cui fine era scrivere del rapporto esistente tra politica e arte negli anni ’80. In quel periodo mi stavo dedicando alla lettura di molti scritti del femminismo italiano e al tempo stesso, nelle università dell’Inghilterra, lentamente si stava aprendo uno sguardo accademico al femminismo italiano. 

Ed è proprio così che, tra una riga e l’altra, scovo un nome ricorrente, quello de Le Nemesiache. La mia curiosità verso questo collettivo femminista artistico è stata immediata grazie a uno dei loro lavori che ha profondamente catturato il mio interesse: si tratta di Poesia come follia, una singolare produzione che risale alla fine degli anni ’70. Girato in un manicomio femminile (il Frullone di Napoli), occupato dalle stesse Nemesiache (siamo prima della legge Basaglia, un momento storico e sociale in cui quelli che oggi chiamiamo “ospedali psichiatrici” privavano di dignità i e le loro utenti), questo film è stato prodotto grazie a un coinvolgimento diretto delle pazienti. Era un gesto di rivoluzione, un tentativo di sovvertire un sistema e mettere in discussione uno stigma sociale come quello delle donne isteriche. 

Quest’azione politica, femminista e performativa mi ha colpito così tanto da avviare una ricerca più strutturata che mi ha poi spinta a mettermi in contatto diretto con Le Nemesiache, più precisamente con Teresa Mangiacapre, la sorella di Lina. Dopo un iniziale scambio di email mi sono recata a Napoli per conoscerla personalmente; da questo incontro ha preso forma un percorso scandito da dialogo, studio e confronto che mi ha condotta verso la compilazione della tesi del mio master (Napoli in the Unmapped Practice of Le Nemesiache) dedicata proprio ai luoghi di Napoli attraverso il mito e lo sguardo de Le Nemesiache. In seguito, nel 2015, insieme a Teresa e ad altre compagne de Le Nemesiache, abbiamo organizzato un vero e proprio intervento nel loro archivio realizzato con la collaborazione di artiste internazionali e napoletane: un vero e proprio progetto d’archivio, articolato in letture, ricerche e studi accademici, ma anche promosso da fruttuosi incontri con chi il femminismo lo ha davvero fatto. Queste persone hanno donato al progetto la storia orale, il sapere esperienziale e la trasmissione intergenerazionale con lʼobiettivo di aprire le porte dell’archivio de Le Nemesiachea più persone possibili. Da questi processi di ricerca e di scambio è nato il progetto pluridisciplinare Nemesis Oltre/ Nemesis Beyond.05_Centrale Fies_Giulia Damiani e Le Nemesiache_Cerca, tramuta, traduci. Pronuncia corpo e roccia. Le Nemesiache a Napoli_Roberta SegataHai mai riportato in scena qualche loro spettacolo?

Sì, dopo il progetto dedicato all’archivio abbiamo messo in scena La Biancaneve, uno spettacolo del 1981. In quest’occasione ho lavorato con un gruppo di artiste che stava a Londra e al tempo stesso con alcuni membri del gruppo de Le Nemesiache; insieme ci siamo occupate della traduzione del testo, oltre che della vera e propria produzione. È stata un’esperienza a 360° di cooperazione, quotidianità, convivenza: ho cercato di creare una sorta di ponte tra Londra e la Napoli delle femministe degli anni 70. Durante questo percorso di sinergie intergenerazionali non è mancata l’esperienza della psicofavola, una pratica di autocoscienza. Si tratta di una metodologia basata sul corpo che rimette in discussione la soggettività della persona grazie alla narrazione di sé attraverso fiabe e storie. E grazie a personaggi del mito come ad esempio Cenerella, Biancaneve, Elio Gabalo che con le loro matrici biografiche permettono alle donne di interpretare personaggi diversi e di riscoprirsi a seconda del loro momento di vita. Questa pratica mi ha permesso di comprendere il valore dell’esperienza vissuta attraverso il corpo, così da avvicinarmi a determinati contenuti ed espressività in maniera sostanziale, non superficiale. In questo senso la psicofavola ti aiuta a considerare le contraddizioni, a facilitare la tua ricerca personale, a comprendere l’espandersi del tuo io, anche in sincronia con altre donne o con persone interessate alla pratica femminista. La psicofavola, per concludere, è una sorta di chiave dell’anima e del corpo, pronta a farti fare presenza, ascolto, ricerca di affermazione individuale e collettiva per approdare a un sé complesso: è una perenne riscoperta, che sa generare sempre qualcosa di nuovo attraverso lʼespressione del desiderio. 

Ci sono dei personaggi femminili del mito che per te sono stati come guide, fondamentali per comprendere la produzione performativa di Lina Mangiacapre e delle sue compagne?

Sicuramente la Sibilla Cumana, la profetessa che media visioni e che è capace di creare punti intermedi, ponti tra diversi piani della realtà. Ma anche Didone, la sua maledizione e le diverse riletture della fondatrice de Le Nemesiache. Ovviamente altro personaggio femminile fondamentale è Nemesi, la dea della vendetta nei confronti dellʼhybris, vale a dire la tracotanza, concepita dal collettivo femminista di Napoli come peculiarità ed elemento patriarcale. 

 E per Fies, cosa hai prodotto?

Per Fies ho scritto un testo nuovo, frutto di un lungo percorso e di una visione rinnovata della mia ricerca dedicata a Le Nemesiache. Nel corso della mia ricerca, sono stata in Brasile (a San Paolo), dove con un gruppo di artiste ci siamo cimentate nella produzione di diversi spettacoli e performance. Si è trattato di una collaborazione molto generativa. 

Questo testo, che deriva dal post pandemia, è frutto di un’ulteriore riflessione personale e politica, di una volontà di connettersi nuovamente con la pratica de Le Nemesiache. Da questa connessione e dal rapporto con il paesaggio e con l’ambiente (che da sempre distingue l’approccio della mia ricerca) ho cercato di far luce su due quesiti cardine: come si ricorda? Come si affronta il paesaggio e cosa può dirci se lo osserviamo e ascoltiamo attraverso l’archivio e il lavoro de Le Nemesiache? Da qui prendono avvio le riflessioni sulle diverse linee di rottura di cui parla Lina Mangiacapre, sulla logica intesa come separazione tra il corpo e il pensiero, secondo la visione dicotomica aristotelica. È così che seguono ulteriori interrogativi e considerazioni sul mio lavoro: quali sono le linee che si spezzano? Quali quelle che si accumulano? Quali rimangono imprevedibili? Cosa succede se interpretiamo i documenti d’archivio come artefatti sterili, incapaci di generare nuovamente? 

Ecco che la rottura, l’esplosività, il paesaggio nemesiaco che si aspetta di esplodere come una minaccia che sembra essere sotterranea, ma che in realtà torna (come la creatività delle donne) diventano gli elementi determinanti che ho cercato di portare qui a Fies.

Foto: Stefania Santoni

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