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December 4, 2013

Some days @ Torino Film Festival

Cristina Vezzaro

 

Alla fine di questo festival ci ritroviamo un po’ a chiederci che fine abbia fatto il buon vecchio cinema indipendente di qualità. Dei film in concorso, nessuno ha eguagliato il vincitore dello scorso anno, lo splendido Shell di Scott Graham che aveva una storia, e che storia. Ecco, quest’anno sono mancate un po’ le storie. Tanti spezzoni di situazioni, tante immagini, ma storie chiuse, compiute, con un finale, ben poche.

Ma facciamo un’ultima panoramica:

Oltre ai già menzionati The Way Way Back (C’era una volta un’estate), Enough Said e Frances Ha (quest’ultimo no, ma gli altri due tranquillamente da cassetta), l’ultimo film dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis,  già presentato a Cannes e presto nelle sale anche in Italia e di cui vi abbiamo già parlato qui, al Torino Film Festival abbiamo visto l’ultimo film di Jim Jarmusch, Only Lovers Left Alive, con Tom Hiddleston e Tilda Swinton nei panni di due vampiri, Adamo ed Eva, che si amano da secoli e si muovono tra una Detroit che ricorda quella raffigurata da Jesper Just e una Tangeri in cui il tempo sembra essersi fermato, e bere sangue da bicchierini da rosolio (cit. Roberto Danese) sembra alquanto naturale.

Lo svedese Monica Z Waltz for Monica, di Per Fly, ripercorre la vita e la carriera della cantante jazz Monica Zetterlund, dagli inizi, ai successi, all’alcol, alla confusione e solitudine, fino all’affermazione (anche nei confronti del padre) con il concerto alla Lenox Lounge insieme a Bill Evans e al suo trio. Sebbene fonti svedesi mi dicano che i fatti sono stati storpiati per la necessaria glamourizzazione da schermo, la tristezza, disperazione, tenacia, voglia di farcela e bellezza della musica sembrano intatte nell’ottima interpretazione dell’esordiente Edda Magnason.

Ci è piaciuto, molto, Plastic City, di Yu Likwai (presente di persona a parlare del suo cinema), vero maestro del digitale e del montaggio che in questo thriller sullo sfondo delle mafie della pirateria non dimentica fondamentali tipo un plot, una fotografia (mozzafiato) e montaggi da professionisti con un risultato davvero ottimo.

L’indiano Ugly, di Anurag Kashyap, si situa a un altro livello ma a modo suo è anche un buon film, un thriller che ruota attorno al rapimento di una ragazzina nell’India moderna. Intrappolati nei loro rapporti complicati e soffocanti, madre, padre naturale, padrino e famiglia intera si perdono in questioni secondarie e la polizia trascura così la prima pista, che sarebbe stata quella in grado di salvare forse la ragazzina. Le esitazioni, le digressioni che allontanano dal fulcro degli eventi sono un elemento centrale anche della regia, con risultati davvero eccellenti (e a tratti molto comici). Molto meno comico è invece il racconto in sé, che purtroppo descrive il triste destino di migliaia di ragazzini in India.

 

Sceneries of New Beginning, di Atsushi Sinohara, è un film giapponese dalla locandina molto promettente e dalla storia non banale: in una vita apparentemente normale, un uomo e una donna condividono la ripetitività di gesti quotidiani con obiettivi che sembrano esclusivamente ruotare attorno alla vita professionale e in essa esaurirsi. Quando però, in un potente ossimoro, l’uomo si rende conto di non essere il contabile entusiasta che il suo capo vede in lui, il burnout diventa evidente; e non è un burnout solo professionale: invade la sfera privata in una solitudine e depressione senza argini a cui la pazienza, disperazione, l’amore della protagonista femminile non sembrano poter mettere fine. Il suicidio finale, con l’abbozzo di regia di una nuova scena che riprende la scena iniziale, sembrano suggerire l’inutilità di una vita (o di una morte) vissuta in questo modo. Purtroppo il film non sembra riuscire appieno nell’evidente intento di stigmatizzare la vita moderna in Giappone, mancando forse di qualche riferimento meno claustrofobico nella costruzione.

Drinking Buddies, di Joe Swanberg, è invece la storia di un’amicizia un po’ ambigua e di rapporti un po’ insoddisfatti che rischiano di complicarsi sempre più. Molto leggera, troppo leggera, regala ben poco e lascia davvero insoddisfatti.

Grand Piano, infine, il film di Eugenio Mira con Elijah Wood (Harry Potter) e John Cusack, è un thriller semplice, con qualche risata strappata ad hoc e una costruzione professionale di cui parlavamo all’inizio, in grado di intrattenere ma difficilmente destinata a passare alla storia o a rimanere impressa nella memoria e nel cuore. La vedrete nelle sale italiane nei primi mesi del 2014.

 

 

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