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May 16, 2013
Ma cos’è questa storia del distretto creativo? Regole d’uso (e consumo), partendo da San Martino a Trento
Anna Quinz
Noi che lavoriamo con il nostro quartiere di Dodiciville, con il progetto “Rosengarten”, siamo ovviamente molto vicini agli amici di San Martino, perché anche noi come loro, stiamo cercando di fare della creatività e dei creativi che lavorano e vivono nel quartiere, motori di crescita e sviluppo della città. La festa a Trento, si svolgerà sabato 18 maggio, dal pomeriggio alla sera, con tanta musica, negozi aperti, opere d’arte, performance, cibo e bevande.
Prima però, venerdì 17, al Dipartimento di Lettere e Filosofia (via Tommaso Gar 14) di Trento si discuterà del tema “cultura per lo sviluppo” in un talk dal titolo intrigante: “Walk on the wild side”. In questa occasione, si prenderà proprio il progetto di San Martino come caso di studio per allargare il campo, e parlare di distretti creativi, politiche culturali e città che cambiano. A parlarne insieme ad Andrea Bocco (ideatore e direttore dell’Agenzia per lo sviluppo del quartiere San Salvario di Torino) anche due amici, Fabrizio Panozzo e Paolo Dalla Sega, già passati più volte su franz (qui e qui). A moderare l’incontro, Francesco Gabbi (IUAV Venezia). A Fabrizio, Paolo e Francesco, abbiamo fatto qualche domanda, per capire di cosa si parla quando si parla di distretto creativo, di cultura e di sviluppo.
Fabrizio, di cosa non può assolutamente fare a meno un distretto/quartiere creativo per essere tale? Quali gli elementi fondamentali “dal basso” e quali quelli istituzionali? Infine, quali le potenzialità - economiche, turistiche, sociali – di uno sviluppo urbano come quello appunto del distretto creativo?
Parlando di caratteristiche “sine qua non”, la brutalità dei fatti ci mette di fronte ad un ineludibile dato empirico: non c’è distretto creativo di successo che non abbia un locale iconico, con il décor adeguato, la musica giusta e dei cocktail decenti. Ma questo succede dopo, in genere. Per arrivarci bisogna partire dal fatto che i distretti creativi sono prodotti creativi. Sono cioè il risultato della creatività di qualcuno (individuo o collettività) che più o meno esplicitamente li concepisce e li fa sviluppare. Come tutti i prodotti, anche i distretti creativi hanno un ciclo di vita. Breve, e che presumibilmente tenderà ad accorciarsi ancora di più in futuro.
Premessa a mio avviso necessaria per comprendere ciò che li fa funzionare. Per capirlo dobbiamo, infatti, concentrarci sulle fasi di creazione e sviluppo del “distretto creativo”. Che vivono di contrasti. Ad esempio sul versante economico. I distretti creativi possono nascere e prosperare “dal basso” quando circolano pochi soldi e chi ha l’urgenza di agire creativamente cerca spazi poco costosi, trova soluzioni innovative e nel farlo si ritrova ad operare in una comunità che condivide il senso della frustrazione e del limite. All’estremo opposto, “dall’alto” i distretti creativi possono essere pianificati, costruiti e popolati in seguito a scelte politiche e di business che canalizzano ingenti quantità di risorse finanziarie sulla creatività e sullo sviluppo economico che questa promette. In questi due contesti il distretto creativo dimostra di poter esistere e prosperare per il tempo necessario a completare il suo ciclo di vita (come è accaduto ad esempio al quartiere di Kreuzberg a Berlino e come accadrà a West Kowloon ad Hong Kong) ed essere metabolizzato nel tessuto economico e sociale della città che nel frattempo avrà generato altri luoghi della creatività
In questa capacità di trasformazione urbana e velocità di sostituzione di un distretto creativo all’altro sta anche la loro potenzialità economica, turistica e sociale. La potenzialità dei distretti culturali si manifesta nella loro capacità di trasformare la città ma anche di trasformare se stessi in qualcosa di sempre diverso. Il concetto di reversibilità è forse la chiave di lettura del successo economico e sociale del distretto creativo: tanto più sarà in grado di diventare, nel tempo, qualcos’altro, tanto di più si potrà dire che avrà avuto successo.
Paolo, il talk a Trento parte dal concetto di “cultura come motore di sviluppo”. Qualche esempio concreto – più allargato ma anche ristretto al campo trentino? Da dove è necessario partire per attivare questi processi virtuosi di sviluppo affinché non restino nella nicchia della “gente della cultura”? In che modo la città interagisce in questi processi?
La cultura è una cosa troppo seria, grande e importante perché se ne occupi soltanto la “gente della cultura” (anche sforzandomi di dare volti e voci reali a questa “gente”. Mi sono accorto che in questi tempi di crisi (la contrazione delle risorse, certo, ma anche di desideri e di slanci) si impongono dei ripensamenti profondi nelle politiche culturali, che da un lato, appunto, tendono ad eliminare l’aggettivo, la loro specifica, e a farsi semplicemente “politiche”, quindi con nuovi decisori e nuovi stakeholder per così dire più sintetici, tutto sommato qualificandosi e valorizzandosi; dall’altro, anche in questa ricerca urgente di nuovi interlocutori e di radicale intersettorialità, si privilegiano, si spingono o si attivano potenti e meditate operazioni di ascolto.
Non stiamo bene, c’è qualche problema (più di qualche): è un affare di tutti, vanno ascoltati tutti – tutti i cittadini, direi, oltre ogni recinto e ogni nicchia – e in queste modalità seriamente partecipative (seriamente, sottolineo) possono partire o ripartire vere politiche culturali, in due sensi: politiche della cultura come oggetto di piani, strategie, e progetti, e politiche urbane attraverso la cultura come metodo, precisamente l’ascolto e il dialogo (che non è, come ben si sa, l’assenza di conflitto).
A Trento, l’anno scorso anno, si è fatto qualcosa del genere con Password, dodici incontri e mille contributi per la scrittura del nuovo Piano Culturale del Comune, proiettato al 2020.
Ma vedo che in giro per l’Italia, in un esteso “virtuosismo” che mi auguro sia in buona fede, si procede in modalità analoghe anche nella progettazione dei cosiddetti “grandi eventi”: il Padiglione Italia all’Expo Milano 2015; la Capitale Europea della Cultura 2019, o meglio i dossier di candidatura che ora sono in competizione.
Anzi, è come se la fantomatica “scintilla” del grande evento, del grande progetto, della grande occasione storica da non mancare o fallire, riuscisse ad aggregare con nuove spinte – oltre alla crisi che dicevo – energie diffuse altrimenti disperse, riuscendo quasi a legittimarsi e ad uscire dalle secche oggi intollerabili della pura, anacronistica celebrazione effimera e autoindulgente (celebrazione di che cosa, poi).
Francesco, nell’abstract di presentazione del talk scrivete “La città di Trento sembra aderire a questa idea di sviluppo attraverso la cultura”. In che modo un progetto come quello di San Martino si inserisce in questo processo? Quali i “punti di forza” e i “punti deboli” di questo progetto di quartiere, secondo la tua osservazione?
Innanzitutto per sviluppo attraverso la cultura si intende uno sviluppo ampio, non soltanto da un punto di vista economico, ma in termini di accrescimento di competenze. Semplificando un po’ la questione, un progetto dunque porta sviluppo se le competenze, di vario tipo, distribuite su di un territorio aumentano grazie al processo che è stato messo in atto.
In questo senso il processo che ogni anno dà vita a “Il Fiume che non c’è”, oltre ad essere un’iniziativa comunitaria che coinvolge gli attori e i cittadini di San Martino, ragionando fin dalla prima edizione sulla storia del quartiere, contribuisce ad accrescere la conoscenza negli abitanti del quartiere e della città in generale verso questa interessante zona. Allo stesso tempo l’offerta culturale attraverso concerti, performances e installazioni artistiche di buon livello contribuisce a creare un’atmosfera più sensibile verso la fruizione culturale.
“Il Fiume che non c’è”, come ogni processo che interessi in maniera estensiva una comunità, necessita di essere costantemente curato e mantenuto, pena il deterioramento dei rapporti e delle condizioni che lo mantengono in vita. Questa fragilità e delicatezza sono il punto debole – inevitabile – di un progetto come quello di San Martino, in quanto necessita di molto lavoro dietro le quinte, di organizzazione e tessitura di rapporti sociali spesso complicati. E in un contesto politico-economico come quello in cui stiamo vivendo il lavoro dietro le quinte è spesso il primo ad essere messo in discussione in quanto poco visibile.
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