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March 13, 2013
“Faccio poesie musicali”. Incontro con la poetessa trentina Maddalena Bertolini
Reinhard Christanell
Il Trentino ospita una grande poetessa e, forse, non lo sa.
“il cielo dorme a braccia alzate / quando respira solleva le montagne / e vedi le maree sotto le palpebre. / Tutto è fatto a forma di figlio / la cavità virtuosa che lei si porta dentro / il movimento delle braccia di lui / quando lavorano, lo spazio tra il desiderio / e l’insperato. Tra il primo e l’ultimo vagito”.
Maddalena Bertolini, autrice di questi versi, vive a Pergine Valsugana, la sua professione – a parte la scrittura, che ormai è la sua occupazione essenziale (“io sono una / che scrive per fortuna” dice infatti) – è quella di ostetrica, è madre di quattro figli ed ha alle spalle un discreto numero di opere sia poetiche che narrative. L’ultima, in ordine di tempo, è un libretto pubblicato da Giuliano Landolfi Editore, vincitrice del Premio InediTO 2012 e si intitola semplicemente una.
È una poesia, quella dell’autrice trentina, che, per così dire, impasta il creato (nascita e morte, figli e amori, natura e fede) con mani sapienti, raffinata e potente, ricca di immagini suggestive e metafore mai banali ma spesso inaspettate e sconvolgenti. Un lavoro che peraltro richiamano alla mente, sia nella forma che nei contenuti, le felici intuizioni liriche di un’altra poetessa appartata e periferica ma comunque “universale” come la ladina Roberta Dapunt.
“una” è un titolo che dice tutto e il contrario di tutto: ce lo puoi spiegare? È un segnale di solitudine? Di unità con il tutto?
Abbiamo molto discusso il titolo con il mio amico Matteo Fantuzzi, editor puntuale e geniale, perché io lo avevo lanciato sul piatto come una sfida, una provocazione, di fronte alla moda dei “titoli spiegazioni”. Nasce dunque come un qualcosa di osato, che un amico ha raccolto: è “una” rigorosamente minuscolo, nessuna pretesa di grandezza. Il rimando semantico è nelle prime due poesie che finiscono esattamente il primo capitolo; poi segue “due” (la coppia), “quattro” (i miei figli) “sei” (il verbo essere) come l’ultimo “sono” (uguale per la prima e la terza persona). Unendo il primo all’ultimo diventa “sono una”. Fra le tante. Irrimediabile e irripetibile. Una qualunque che tenta continuamente di “ritornare intera”, come nella poesia di pag. 39 in cui parlo di un desiderio-leone che mi brama e mi sbrana.
Solitudine mi chiedi? Ma certo, un poeta non sopravvive senza solitudine che si trasforma, grazie al suo lavoro, alla sua domanda, nella magnifica “soletudine regale” , la splendida definizione di A.M. Farabbi che dice così bene quel “ognuno sta solo sul cuor della terra” ma con una fermezza luminosa nell’attimo in cui il nostro viso si riconosce in tutto il suo splendore e nello splendore di ciò che ci sta attorno, sopra, sotto, eternamente.
La religiosità intesa come amore verso la creazione e accettazione di un “destino”gioca un ruolo fondamentale nel tuo essere e nel tuo scrivere. Ti riconosci nel “mondo” attuale sempre più distante da questa visione? Cosa ritieni possa ricondurci sulla “retta via” come singoli e come comunità?
Non parlerei di religiosità, quanto di “senso religioso”; potrebbe sembrare una sfumatura pretenziosa ma è fondamentale perché riconduce il tutto alla ragione. E’ ragionevole credere, perché il cuore dell’uomo lo chiede. Siamo fatti per credere, per sporgerci verso l’infinito del “creato” (è la parola che lo definisce così) e sta poi a noi decidere dove stare e a cosa affidarci. Il senso religioso può essere scambiato con l’istinto, quel moto del cuore che brama un significato per la vita, la nostra e quella di chi amiamo, sia anche il micio adorato. E’ un istinto anche pensare che ci sia un “destino” perché l’idea della morte e del nonsenso ci farebbe impazzire, rischierebbero di saltare tutti i confini morali e etici. Io obbedisco al mio senso religioso, vi aderisco con tutti i miei sensi certo, con i sentimenti, ma prima e sopratutto con la ragionevolezza di chi si ritiene amato, e chiamato a vivere per sempre. Non esiste una retta via; basta semplicemente aprire gli occhi sulla realtà: è il creato stesso, la vita in tutte le sue sfumature che pretende che noi siamo presenti con il cuore vivo e i sensi veri. Con la mente aperta. Con il de-siderio dell’infinito (sì, anche quello leopardiano).
L’atto della nascita, l’abbandono del ventre materno è sempre al centro della tua attenzione di autrice: la tua formazione professionale ha inciso in questo?
Nascere è semplice, ma sopratutto non lo chiediamo noi: siamo accolti e se non c’è qualcuno lì a farlo, a coprirci, asciugarci, nutrirci, allevarci, noi non ci saremmo. L’atto della nascita è il paradigma della nostra stessa esistenza e non ci dobbiamo esimere da questa consapevolezza. Noi siamo nostri, ma non ci apparteniamo, senza qualcuno accanto, non avrebbe senso niente di noi (il ricatto dei suicidi sui vivi), noi siamo sempre, anche inconsapevolmente, amati. E la verità è che non è il fatto di essere un’ostetrica che influenza la mia poesia, ma è la mia poesia (talento maledetto riconosciuto prestissimo) che mi ha fatto “rifugiare” in tale professione: la vita che arriva nonostante tutto.
Quali sono i tuoi punti cardinali poetici? Le tue letture preferite?
L’ultima affermazione può rispondere adeguatamente anche a questa domanda. Per essere più esaustiva aggiungerei che ho cercato nel tempo di affilare le armi dell’arte: la lingua, la rima, lo stile, i temi. La lingua: l’italiano, “dadaista” scriveva il Grande Russo autore di Kamen, “pietra”, lingua che è ormai usurata negli usi poetici e espressioni banali. Dunque, evitare gli “antichismi” i “poeticismi” le metafore già viste, ogni banalità. Punto sulla forza della modernità e la saldezza delle parole quotidiane. La rima: è potente, perché rinunciarci? Ma bisogna reinventarla, uscire dagli schemi rituali. Punto sulle assonanze, su rime spiazzanti, troppo vicine come grinze della stoffa, troppo lontane come scuciture. Faccio poesie musicali. Lo stile: già accennato, niente di pretenzioso, culturale, ragionato. Ma ragionevole. Lavoro sulla semplicità, devono essere capite da tutti, e questo spesso mi penalizza. I temi: la vita, tutta, troppa. Il resto è noia.
La tua poesia è decisamente “sostanziale”, diretta, a volte anche “cruda”: quanta parte è ispirazione, quanta lavoro artigianale?
Anche questa domanda si ricollega alla precedente; una cosa che si occupa del reale deve renderne la sostanza, si deve quasi poter toccare. Non voglio condurre ragionamenti, elaborare teorie o dare lezioni; lascio che sia la realtà a vincere. La metafora è un arma che uso spesso perché è come se fosse puntare il dito in una direzione ben precisa: sollevi lo sguardo, guardi dove ti indico e di conseguenza vedi anche quello che ci sta attorno, lo sfondo, il mondo che ti viene incontro. Vorrei che non fosse definita cruda, piuttosto vera; in fondo le verdure cotte diventano più morbide ma perdono la maggior parte delle vitamine. E c’è una differenza fondamentale tra inviare un bacio per mail o girarsi e schioccartelo sulla guancia.
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