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February 15, 2024
“Sulla superficie”:
il libro di Gabriele Salvaterra sul tema più profondo della contemporaneità
Francesca Fattinger
La pelle è quello che separa una cosa dal suo ambiente, ma è anche la superficie sulla quale o attraverso la quale leggiamo un oggetto e il confine dove il bidimensionale incontra il tridimensionale. (…) Nella pelle c’è una sorta di irrealtà implicita che ritengo meravigliosa.
Anish Kapoor
Da quando ho letto “Sulla superficie. Il pensiero superficiale nell’arte e nella cultura contemporanea” di Gabriele Salvaterra, storico dell’arte e curatore indipendente trentino, non posso più fare a meno di pensarci in continuazione, di pensare alla superficie, regina di tutto, senza cui niente potrebbe esistere. Penso alla pelle delle cose, alla mia pelle, a questa membrana come zona estremamente sensibile, fragile e potente, a cui tutto si potrebbe ridurre, in cui tutto si nasconde e in cui tutto si raddoppia, in un incessante e tautologico nascondimento e raddoppiamento. Mi ricordo la prima volta che l’ho aperto e sfogliato, era estate ed ero in spiaggia circondata da superfici di ogni tipo, più o meno esposte, in un gioco superficiale che questo luogo per sua natura porta con sé. È stato bello immergermi in un percorso che dalla letteratura mi ha condotto alla storia dell’arte e a molto altro avendo di fronte a me superfici moltiplicate di ogni tipo, dalla superficie della carne esposta su ogni corpo alla sabbia piena di impronte e passaggi, dalla superficie del mare e dalle sue increspature al cemento rovente, dalle superfici plastiche onnipresenti ai legni e ai sassi levigati dalle onde e dal tempo.
Quanti modi ci sono per leggere un libro così? Quanti modi ci sono per leggere un tema così? Tanti, forse troppi e probabilmente questo è il senso della libertà e anche il suo più grande nemico. Mi butto in questo corpo a corpo e decido di raccontarvi un piccolissimo percorso personale tra le sue pagine attraverso tre opere d’arte per poi passare a tre domande all’autore, come se il tre diventasse ancora di salvataggio nel fluire incessante della superficie che tutto crea e tutto distrugge.
Parto dall’opera da cui anche Gabriele Salvaterra inizia il suo percorso: si tratta di “Tre mondi”, litografia dell’incisore e grafico olandese Maurits Cornelis Escher. È come se in quest’immagine si potesse risolvere tutto il nostro vagare, tutto lì concentrato in un’unica piatta superficie che scava, sprofonda, affonda e precipita. Tre mondi, o meglio quattro come propone l’autore, in cui il gioco di sguardo ci fa comprendere come le superfici che si riversano nei nostri occhi non possano far altro che moltiplicarsi di continuo, superfici alla potenza di sé stesse, appena le si coglie. C’è l’acqua in cui il pesce nuota, le foglie che galleggiano in superficie e il riflesso capovolto degli alberi e poi c’è il foglio su cui tutto questo sprofondare e affiorare avviene, in un gioco di rimandi in cui la realtà e i suoi riflessi, si smascherano a vicenda e ci accompagnano in un viaggio in cui verità e finzione sono intercambiabili o meglio totalmente e paradossalmente perfettamente sostituibili. Da questa superficie, che di piatto forse non ha altro che essere intrappolata su un foglio, passo a un’opera che mi emoziona ogni volta che la penso, ancora di più quando l’ho trovata citata in questo libro. Si tratta di “Essere fiume” di Giuseppe Penone: due pietre, una prelevata dal letto di un fiume, l’altra la sua riproduzione per mano dell’artista, poste l’una accanto all’altra, l’una il rifacimento della pelle dell’altra, di ciò che su quella pelle è avvenuto, degli incontri, degli scontri, del tempo che nei suoi incavi e nei suoi rilievi si è fermato e ha lasciato la sua traccia.
Proprio grazie a quella superficie, in quella mappa di vita, l’artista, come scrive Gabriele Salvaterra, ha la possibilità di “essere fiume” e abitare nella finitezza della sua vita l’infinità della forza della natura. Infine, per l’ultimo salto, vi invito a seguirmi in un “ambiente”, la veduta dell’allestimento di Rudolf Stingel al Withney Museum of American Art di New York del 2007, e ampliare ulteriormente lo sguardo facendolo affacciare su un’opera che dal bidimensionale e dal tridimensionale ci porta a indagare uno spazio in cui il bidimensionale e il tridimensionale si incontrano dando al corpo dei visitatori e delle visitatrici libero campo d’azione. Stingel qui, con le pareti ricoperte di pannelli argentati, quasi come se fossero ricoperti di carta stagnola, rende visibile ciò che sempre accade su e grazie a una superficie, rende manifesto l’incontro tra due mondi, dando spazio all’impronta di quell’incontro: chi vi passa può incidere sulla parete, può scrivere, disegnare, lasciare una traccia o un’orma del proprio passaggio. L’atmosfera si fa sospesa e a tratti drammatica, tra l’estremamente primitivo delle pitture rupestri e l’estremamente attuale e moderno dei graffiti contemporanei, ma la voglia sottintesa è sempre la stessa: sfondare la superficie per farsi presenza. Forse anche la domanda rimane sempre la stessa: senza superficie esisterebbe la profondità?
Un’occasione per rifletterne assieme all’autore è alle porte: Gabriele Salvaterra presenterà il suo libro domani, venerdì 16 febbraio alle ore 17.30 presso la Libreria Ancora di Via Santa Croce 35 a Trento. Qui sotto come anticipato, quasi come fosse la premessa all’incontro, alcune domande per cominciare ad approcciarci al suo “inventario complesso e divagante delle possibilità superficiali del nostro tempo”.
Perché scrivere un libro sulla superficie? Dove ci vuoi condurre? É davvero un viaggio (im)possibile in cui le superfici si accumulano come in una scatola cinese? O forse un’ossessione che sconfina nell’ignoto?
Forse questo bisognerebbe chiederlo al mio analista! Sicuramente è tutto quello che affermi: un’ossessione o una serie di strati che come in una matrioska non ci condurranno mai a un fondo, proprio perché questo nocciolo interiore non esiste, si può rimanere solo nell’apparenza e nella superficialità. Dove voglio condurre? In nessun luogo preciso, non si tratta di un discorso direzionale ma di un pensiero circolare e ampio, che rispecchia il tema stesso che cerco di trattare.
Tra pittura, letteratura, fotografia e molto altro, con un andamento ordinato in cui ogni capitolo può vivere a sé stante, pur nel divagare che il tema comporta. Ci racconti un po’ delle tappe esplorative che hai scelto?
Si è trattato di un’ambizione quasi enciclopedica a raccogliere quanto più materiale potesse avere a che fare con questo tema proteiforme, sfuggente e anche pervasivo. Si parte da un quadro di M.C. Escher che funge da pretesto, per passare poi al senso comune, alla letteratura novecentesca, ai paradigmi spirituali che utilizzano l’immagine per contatto per creare le uniche immagini autentiche della divinità: le Veroniche (vere-icone) e la Sacra Sindone. C’è anche un po’ di filosofia, anche se il nocciolo è composto dall’andamento storico artistico che parte a metà dell’Ottocento per arrivare a oggi. Se per la pittura si può riconoscere un percorso con una gradualità e una leggibilità molto più evidenti, in scultura, nell’installazione e nella fotografia è più corretto parlare di un arcipelago a-sistematico e complesso che vive di casi ed eccezioni.
Citandoti e mescolando le tue parole a quelle di altre citazioni, senza soluzioni di continuità, così come il tema invita a fare: quanto profonda e molteplice può essere la nostra limitata epidermide? O forse siamo di fronte a una coperta sempre troppo corta? Cosa rimane al giorno d’oggi della superficie?
Oggi la superficie è dappertutto, si vede nel discorso politico, negli slogan, nelle canzoni di tre minuti fatte solo di ritornelli, nel tempo sempre più esiguo che dedichiamo alle cose importanti. Siamo schiacciati su una superficie e in questo spazio l’uomo e la donna contemporanei devono riuscire a trovare la propria profondità. Ma come ci ricorda Michel Tournier (tramite Franco Rella) superficiale non deve significare necessariamente “con poca profondità” ma può anche voler dire “di maggiore estensione”. Oggi ci muoviamo in una grande estensione dal minimo spessore di cui anche il mio libro è un esempio. Solo qui può essere trovato uno spazio di armonia e autenticità.
Credits: (1) Maurits Cornelis Escher, Tre mondi, 1955, © 2022 The M.C. Escher Company-The Netherlands. All rights reserved; (2) 17 copertina Sulla superficie, immagine di Brigitte Niedermair, The Net – CR Fashionbook, 2014, Courtesy l’artista (3) Giuseppe Penone, Essere fiume, 1995-1996, pietra di fiume, pietra di cava, 2 elementi 40 × 80 × 50 cm ciascuno, foto © Archivio Penone; (4) Veduta dell’allestimento di Rudolf Stingel (Whitney Museum of American Art, New York, 28 giugno – 14 ottobre 2007), foto Sheldan C. Collins
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