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May 14, 2016
Brattaro Mon Amour, finale di stagione con il botto: tra Wurstel e slang Altoatesino
Claudia Gelati
“Brattaro Mon Amour” in questa sera tiepida di maggio. Devo dire che, essendo questa l’ultima produzione di una stagione teatrale ricca, intensa e meravigliosa, le aspettative sono molte. L’ultimo spettacolo è sempre un po’ come il primo: speri che non ti deluda. Si spera sempre che il primo spettacolo non sia deludente perché: “È di certo un peccato buttare via denaro dalla finestra!” ed anche perché: “Cavolo, non è possibile buttare via così un’intera, avvincente stagione!”, ripeto tra me e me. Questa sera, la posta in gioco è però ancora più alta: si parla di Bolzano. Si parla di Bozen, la città che molti chiamiamo, me compresa, casa. Nonostante i mille sentimenti contrastanti che proviamo per lei. Io poi, che sono un’outsider, chè non sono una bolzanina, ed ho una gran curiosità che mi procura il batticuore: vorrei conoscere tutto e tutti, le storie, gli aneddoti di questa perla tra le montagne che mi ospita e mi riempie di meraviglia, quasi tutti i giorni.
Carica di speranza e di curiosità entro a teatro. Teatro Studio, questa sera. Tricco, tracco, si scendono le scale; si entra in sala e si cerca il posto: Fila M posto 15. Eccomi seduta. La visuale è buona, meglio così … le diottrie scarseggiano da lontano. Che sia colpa della crisi?
Entrando non si può non notare la scenografia. La sala è piccola e già dall’ingresso si viene catapultati dentro la scena, sul non-palco di legno, che di storie ne deve aver viste tante. Come dicevo, la scenografia balza subito all’occhio. È un muro. Sembra proprio quello di una stazione, per dirla tutta. Un cartello a grandi lettere rivela: “BOLZANO – BOZEN”. Siamo a casa. Non mancano nemmeno i tipici graffiti della periferia. Per terra, una rotaia, ai lati, un lampione e un semaforo. Un semaforo funzionante. Per davvero: Verde. Giallo. Rosso. Grün. Gelb. Rot. L’alternanza dei colori cattura l’attenzione degli spettatori che ingannano il tempo prima dell’inizio dello spettacolo. Scendono le luci in sala e la magia del teatro colpisce ancora. Compare il primo dei nostri personaggi: l’ispettore. Pochi secondi e il muro della stazione cade, svelando il vero protagonista: il nostro amico Brattaro. Quello che fa i wurstel. L’atmosfera è tipicamente metropolitana e vagamente inquietante; luci fredde e tremolanti, chitarre distorte. Entrano nella scena scura altri protagonisti che ruotano attorno al brattaro, come una cupa danza, come un branco. Questa danza dai suoni distorti, ritrae la vita notturna che si sussegue, wurstel dopo wurstel. La scena, vista dal vivo, è geniale. Ti trascina letteralmente al centro della storia.
Caliamoci nella storia. Alberti Giovanni, detto Gio, brattaro di via Resia, ha appena scoperto un cadavere, proprio nel suo furgoncino. È quello di Beata, sua collaboratrice. La quotidianità urbana è rotta da questo tragico evento. Da qui, prendono il via le indagini dello strampalato poliziotto, appena approdato in una città che non conosce e non capisce. Bolzanesi o Bolzanini? Si domanda.
Indagini condotte a colpi di App e Smartphone, che lo porteranno e ci porteranno a dubitare di tutti i fedelissimi del chiosco bianco. I personaggi sono ben delineati e ci sono tutti: c’è il sudtirolese doc, dall’accento marcato e dallo slang facile. “Puttega! Logisch. Und.” C’è la badante ucraina con la nostalgia di casa e un figlio in guerra, il figlio di papà ribelle, che mette in mostra i soldoni per celare un grande disagio e la mancanza di sentimenti. C’è la fidanzata di quest’ultimo che si ribella alla sua cultura tradizionalista e l’impacciato e invadente “zitello”, appassionato di politica e storia, che tra una birretta e l’altra racconta i fatti cult della storia di questa regione, complimentandosi con il suo ego. Si fruga tra la vita di tutti per trovare il colpevole, si riesuma il passato, si parla di tutto. Brattaro come centro della vita di quartiere, non sempre limpida. Si entra nella storia di una città certamente multietnica e multiculturale, che però ha sempre dovuto fare i conti con due culture diverse, che coesistono quotidianamente, talvolta con qualche scontro o pregiudizio. Il Talvera, come confine culturale ed etnico. Il dialetto. Il centro storico borghese “puro”, e la periferia multietnica, dall’edilizia intesa e popolare, la Shangai Bolzanina. La Bolzano-bene. Tra una frecciatina ironica e una critica, lo spettacolo procede velocemente senza annoiare, lasciando spazio sia alle risate che alla riflessione.
La cosa che, personalmente, ho trovato spettacolare è il modo in cui vengono portati in scena i pensieri e le emozioni dei singoli protagonisti. Riflessioni che li rendono sempre più umani e vicini, aldilà dell’archetipo o dello stereotipo che vestono. In questi momenti di riflessione, la scena si ferma e il personaggio, portatosi al centro della scena, si rivolge a noi; anche se in realtà sta dialogando con sé stesso.
L’impatto è davvero forte e crea una forte empatia. Tutti si raccontano, persino l’amico commissario; facendoci scoprire che è stato spedito a Bolzano per punizione. A guardar bene, qua sembrano tutti colpevoli e gli alibi crollano insieme alle sicurezze. Tra una rissa mancata, ipotesi azzardate e qualche insulto, si arriva al finale a sorpresa che lascia tutti di stucco.
Perché sì: Si può morire anche per un Wurstel. Perché sì: si può indagare anche per ingannare il tempo. Un noir contemporaneo e vivace, che coinvolge dal primo instante fino all’ultimo. “Brattaro Mon Amour” è una sfida teatrale impegnativa, ma perfettamente riuscita grazie a un cast coinvolgente, scenografie semplici ma d’impatto, musiche e dialoghi frenetici, botta e risposta azzeccatissimi. Anche la commistione con la video-art nell’ultima parte è ottima e cattura l’attenzione. Quindi uscite dalle vostre case e approfittatene, perché questo è un super spettacolo. Un finale di stagione coinvolgente ed imperdibile. Un biglietto del teatro da aggiungere alla mia collezione di esperienze. Assolutamente consigliato. Correte, altrimenti finiscono i Wurstel.
Foto: Teatro Stabile di Bolzano / Federico Pedrotti
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