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February 15, 2014

Berlinale Days #04

Cristina Vezzaro

 … In cui adoro Boyhood di Linklater, rivaluto il mio odio per le fiabe e maledico la solerzia teutonica.

Ecco, con un po’ di ritardo rispetto al resto del mondo riesco a vedere anch’io Boyhood, il film di Richard Linklater con Patricia Arquette, Ethan Hawke e altri due attori che da 12 anni giravano il film ma di cui il mondo viene a conoscenza solo oggi. Sì, perché in questa sua personale corsa contro il tempo, nel bisogno di vedere l’evoluzione della vita, di coglierla nella sua semplice ma rappresentativa quotidianità, Linklater – autore, ricordiamo, della trilogia Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight (dove, a distanza di nove anni, riprendeva la storia tra Ethan Hawke e Julie Delpy) – tira fuori dal cappello un altro progetto magico: per 12 anni, dal 2002, per un totale di 400 giorni di ripresa e poco più, gli attori e il regista si sono incontrati pochi giorni all’anno per filmare la vita di una famiglia.

È così che seguiamo Eliar Coltrane e Lorelei Linklater (figlia del regista) nei loro 12 anni di scuola (negli USA sono 12 e non 13), anni in cui “sei condizionato dalle scelte dei tuoi genitori e ti affacci alla vita attraverso loro” precisa Linklater. Da bimbetti che vivono con la madre, i due ragazzi crescono da una città all’altra, seguendo gli amori e le ambizioni materne, vedendo qua e là un padre che ci metterà del tempo a mettere la testa sulle spalle, pur amandoli profondamente, in una vita meno convenzionale di altre ma attorniati da amore e quelle difficoltà che faranno di loro le persone che diventeranno. “È stato un grande atto di fede lanciarsi in questo progetto” racconta Linklater. “Per legge, negli Stati Uniti non si possono fare contratti più lunghi di sette anni, e non potevo essere certo che non succedesse nulla a nessuno dei protagonisti, o che avrebbero voluto o potuto continuare tutti anno dopo anno”. Ne è valsa la pena, però, e l’attento guardiano degli anni della nostra vita riesce ancora una volta a far centro.

Su tutt’altro fronte, la trasposizione cinematografica della fiaba La Belle et la Bête, di Christophe Gans, con Vincent Cassel nel ruolo della bestia e Léa Seydoux nel ruolo di bellissima (senza dimenticare André Dussolier, presente in due film alla Berlinale e in ben 5 pellicole in uscita quest’anno), è una ricostruzione preziosa, su grande schermo, della fiaba tanto amata dai bambini. Ora, a me il genere fiaba proprio non piace. E devo dire che non fosse stato in proiezione qui, questo film probabilmente non lo avrei mai visto. Ma mi devo ricredere: la fotografia e la regia sono sapienti, la pelle d’oca che mi è venuta in testa più di una volta è stata vera, e le due ore di film passano anche per chi, come me, si voleva fingere disinteressato e sprezzante. Il mio vicino iraniano ha persino fatto più di un salto nelle scene più spaventose. Quindi forse da vedere.

Macondo, di Sudabeh Mortezai, è invece, su tutt’altre note, un film molto riuscito, la ricostruzione di uno spaccato di vita di immigrati ceceni in Austria, con un ottimo ragazzino attore (Ramasan Minkailov) ancora una volta interprete a piacimento di una madre che il tedesco non lo parla, una situazione al confine della legalità (bambini non accompagnati, piccoli tentativi di furto con ripensamento) più per contaminazione che per convinzione, il confine tra valori e quotidianità e la fatica di una vita da adulti già sulle spalle ancora gracili di un ragazzino.

Infine, in una corsa folle attraverso questa grande città che è Berlino, da una sala all’altra, per una manciata di secondi non mi fanno entrare in sala a vedere un film francese che sembra molto bello. Guardandoli in faccia so con certezza che le maschere italiane mi avrebbero fatta entrare e ancora una volta mi ritrovo a chiedermi cosa sia meglio, mentre mi allontano delusa. Vediamo se ce la faccio oggi, eventualmente, ve lo racconto domani.

 

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