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April 18, 2013

Dalla Terra dei Lestrigòni a Cutusio: la poetica universale di Nino De Vita

Reinhard Christanell

Timpuni assulazzatu Cutusìu;
e nnô ‘n ciancu, avvaddata
(Erici ‘n funnu, àvuta, cu’ ‘n bbicoccu
ri negghia), Paricchiati:
terra vacanti
o siminata
a strisci;
nèvuli vasci, cuvii,
vunciati ri vaputa.

È il paesaggio a fare poesia? Anche senza scomodare Leopardi o Pascoli, l’ipotesi pare suggestiva – almeno quanto l’idea di salvare il paesaggio, la (propria) terra, tramite la parola. Specie nella poesia dialettale, non di rado territori e ispirazione procedono di pari passo. Paesaggio naturale, o urbano. Ma anche culturale, onirico. Dai graffiti rupestri ai giorni nostri molte cose sono successe. E oggi le forme apparenti tendono a confondersi o, finanche, a scomparire: fiumi carsici nella inesplorata notte interiore. E agli antichi luoghi ameni si sovrappongono o sostituiscono sempre più spesso ideali  non luoghi.

Ma ascoltiamo il poeta. “Altura desolata Cutusio; / e ad un fianco, avvallata / (Erice lontana, alta, con un cocuzzolo / di nebbia), Parecchiate: / la terra incolta / o seminata / a strisce; /  nuvole basse, grigie / gonfiate dal vapore.”  Nei versi (tradotti) di questo poema-racconto e in altri testi spetta all’evocazione quasi ossessiva e salvifica di elementi significativi la creazione del quadro esemplare – poetico. Olivi, uccelli, stoppie, chiocciole, gechi, agavi, muretti di pietra, perfino il vento. Ma anche qualcosa di più – o di meno: perché il paesaggio incanta innanzitutto grazie alla sua impalpabilità (nuvole, vapore) e travagliata provvisorietà. Al suo cuore indecifrabile e sfuggente.

Nino De Vita, autore dei versi citati, è nato e abita nella vecchia casa di famiglia di Cutusio. ”‘A luci, cca, junciu / ch’avia riciassett’anni.” (La luce, qui, arrivò / che avevo diciassett’anni.)E qui nasce e vive questa sua insolita, avvincente poesia. In stretta – oserei dire imprescindibile – simbiosi con l’ambiente e la storia, pubblica e privata, prossima e remota. Siamo nell’arcaica Terra dei Lestrigòni (“Sei giornate di seguito navigammo di giorno e di notte, / la settima toccammo l’altissima rocca di Lamo, / Telépilo Lestrigònia” scrive Omero nell’Odissea), che accolsero l’errabondo Ulisse “con pietre che appena può / un uomo portare”. Qualche secolo dopo, il tiranno di Siracusa Dionisio vendicò la distruzione delle colonie greche – tra cui Selinunte e Agrigento, la città più bella del mondo – radendo al suolo la fenicia Mozia. Nelle stesse acque, tra Favignana e Levanzo, terminò nel sangue la prima guerra punica tra Romani e Cartaginesi.

Ma è, questa, anche la terra dei suoi avi e di molti personaggi caratteristici che rinascono nella parsimoniosa placidità e atemporalità dei suoi versi, ricchi di racconti, aneddoti, episodi divertenti e, soprattutto, ricordi. Versi rispettosissimi della metrica e, naturalmente, della parola. “Un vèspiru, passiannu p’i trazzeri / ri Cutusìu, nfilannu / p’i viola, ennu all’accurzu / – circavu cosi vecchi, / mura caruti, tòccura, / petri – juncì nne casi / nichi ri Catinazzi.” (Un pomeriggio andando per le trazzere / di Cutusio, andando / per i viottoli, prendendo scorciatoie / – cercavo cose antiche, / mura dirute, archi, / pietre – giunsi  nelle case / basse di Catenazzi.).

Poesia-racconto, si diceva, o memoria collettiva in versi che, per aderenza al suo soggetto, non può che utilizzare una lingua marginale come il dialetto della contrada marsalese di cui narra le vicende –  riuscendo (anche grazie alla puntuale traduzione a fronte) a ignorare con stupefacente irriverenza i propri confini naturali e a farsi dono universale.

Di poesie e libri di poesia Nino De Vita, al quale qui di seguito abbiamo posto alcune domande, ne ha pubblicati parecchi, e molti sono stati coloro che ne hanno scritto e lo ritengono a ragion veduta una delle voci importanti della lirica italiana. Dopo un volumetto in versi italiano, Fosse Chiti, De Vita si  è dedicato anima e corpo alla sua opera principale in dialetto. Finora ne sono usciti quattro corposi volumi: Cutusìu, Cùntura, Nnòmura e il recente Òmini, dedicato ai protagonisti della scena letteraria siciliana dell’ultimo Novecento, dall’amico Sciascia a Consolo, da Buttitta  a Bufalino.

Partiamo dal luogo, che del tuo lavoro mi sembra presupposto assai significativo. Ti chiedo: è azzardato dire “tutto comincia e tutto finisce a Cutusio”? Immagino anche che per te non esista una sola Cutusìo ma un insieme di luoghi personaggi e fatti succedutisi nel corso del tempo e che, per assurda semplificazione, portano tutti lo stesso nome. Ci racconti la tua Cutusìo?

Cutusio è il nome della contrada dove io sono nato (e dove ho sempre vissuto) ed è situata si può dire a metà strada tra le città di Marsala e Trapani: è una lunga striscia di terra con poche case, sparse, o ammucchiate in bagli, prospiciente lo Stagnone, dove c’è Mozia; lontane si vedono, a volte solo si intravedono, le gobbe delle Egadi. Da piccolo mi sono appassionato, forse anche per sconfiggere la solitudine che avvertivo, alla lettura, poi alla scrittura. Vorrei citare una frase di mio padre che sempre mi ripeteva quando ero ragazzo. Mi vedeva impegnato a leggere, mi vedeva chiuso nella stanza o seduto all’ombra di un albero con un libro in  mano per ore e ore. È una frase, questa di mio padre, che spesso mi ritorna in mente. Diceva, indicando con un dito il libro che leggevo, o i fogli che andavo scrivendo, indicando in pratica il mio impegno letterario: “Chissa è strata ch’un spunta. Â sèntiri a to’ patri: chissa è strata ch’un spunta” ( “Questa è una strada senza sbocco, devi ascoltare tuo padre: è strada senza sbocco”). Ed era la diffidenza del contadino davanti alle cose scritte; la paura, possiamo dire, del padre che vede il figlio appunto iniziare una strada diversa dalla sua e che lo allontanerà dalla coltura delle proprie terre. Ma anche realisticamente il dubbio (anzi, da parte sua, la certezza) che con la letteratura difficilmente si porterà a casa un pezzo di pane. Altri ci hanno provato e sono falliti. La letteratura uguale al giuoco delle carte per cui sempre si perde; all’andare a caccia, che è spreco di denaro e tempo sottratto al lavoro.

Vorrei ora aggiungere, per rispondere alla domanda, che sì, è vero, ci sono tante Cutusio nella mia opera. Tante Cutusio che si sono succedute nel tempo. In Nnomura, il mio terzo libro, ho creato una sezione che ha per titolo Ô stravento (A riparo del vento) e un sottotitolo: “Storie raccontate dai vecchi della contrada”. Sono storie di cui non sono stato testimone, storie che sono accadute prima ancora che io nascessi, che si avvicinano possibilmente, essendo state tramandate da voce in voce, all’origine stessa della contrada, databile  all’incirca nel XVII secolo. L’ho fatto e ancora lo faccio perché di Cutusio si sappia, venga detto, alla fine, “tutto”.

Altro elemento di primaria rilevanza: la lingua. Hai scelto il dialetto siciliano o, per essere più precisi, di recuperare e conservare la parlata particolare della tua contrada. Un’impresa ardua quasi di archeologia linguistica, che attribuisce un innegabile valore aggiunto alla tua opera. Inoltre, la bellezza dei tuoi versi scaturisce anche dal rigore quasi scientifico delle descrizioni, dalla sobria musicalità del tono, insomma dall’assoluta purezza espressiva scevra da ogni cedimento verso il superfluo o il banale.

A Cutusio, quando io sono nato, nel 1950, non c’era la luce – è arrivata che avevo diciassette anni – non c’era dunque la televisione, non arrivavano i giornali. Vivevo, oltre che con i miei genitori, con i nonni. Per questo motivo il dialetto è stata la lingua che ho, in assoluto, appreso.

Faccio un esempio. Quando ero bambino e poniamo stavamo pranzando, mio padre, o mia madre, o mia nonna, rivolti a me dicevano: “Passami ’a bbuccetta”. Non c’era altro modo, allora, per indicare la forchetta. Dopo, a scuola, ho appreso che ’a bbuccetta  è la forchetta. E così per tanti altri esempi ancora. Che so: la giacca che veniva nominata bbunaca, la cravatta scolla, le calzepirunetta.

Ho voluto precisare questo perché, quando a trent’anni ho cominciato a scrivere in dialetto io già possedevo una lingua con cui potermi esprimere.

Fino ai miei trent’anni ho scritto poesie in italiano e non pensavo assolutamente che un giorno sarei approdato al dialetto. Si può dire che la cosa non mi interessasse.

Ecco, per farla breve, questa sorta di “conversione” arrivò improvvisa una mattina dell’autunno del 1980. Mi accade spesso di raccontarla, ma la ripeto perché tutto inizia da lì. Insegnavo, allora, presso il Liceo Scientifico di Trapani.

Quella mattina, a un ragazzo che, rientrato in classe, dimenticava di chiudere la porta “ ‘Unn’a lassari a ciaccazzedda” (“Non lasciarla socchiusa”) dicevo, abbandonandomi a una espressione tipica del nostro dialetto.

Il ragazzo mi guardò, sorpreso. “Ma che parla arabo, professore” mi disse.

Altri alunni, dai banchi, mi chiedevano cosa avessi detto.

Non capivano. Non mi capivano. Come era possibile?

Provai, quella mattina, mettendo da parte le formule di chimica che stavo svolgendo alla lavagna, di intrattenermi con loro in un dialogo che riguardasse il dialetto, il “mio” dialetto. Cercai e trovai nella memoria parole inusuali, modi di dire, “ngiurie”(“nomignoli”). Ricevetti da loro – ragazzi, è bene precisare, in buona parte nati e vissuti in città – insieme ad una interessata attenzione, espressioni di meraviglia e di non troppa velata ironia. Alcuni riconoscevano le parole. Ma ce n’erano alcune, di parole, che assolutamente nessuno aveva mai sentito pronunciare.

Ritornando a casa, quella mattina,  meditavo, con amarezza, direi con dolore, su questo arco di tempo della mia vita che andava, nella sua “parlata”, irrimediabilmente scomparendo.

Fu così che progettai di salvare le parole che di più si erano logorate. Desideravo conservare le parole e invece si aprì tutto un mondo che voleva essere rappresentato.

Parliamo ora dei personaggi. Nei primi tre libri, i personaggi di cui racconti le gesta quotidiane appartengono soprattutto alla tua famiglia e al mondo della campagna marsalese. Invece nell’ultimo, Òmini, intervengono nomi noti del mondo letterario siciliano, da Sciascia a Bufalino, da Consolo al mitico Ignazio Buttitta. Li hai conosciuti e frequentati tutti? Come si inseriscono nel quadro complessivo del tuo lavoro?

Li ho conosciuti e a lungo frequentati. E ne parlo in questo mio quarto libro, Omini. In questo libro non c’è più, come nei tre precedenti, Cutusio e i suoi personaggi, la sua natura, ma altri luoghi della Sicilia e dunque altri personaggi, famosi o del tutto sconosciuti.

Infine, veniamo ai libri. Questa tua personale e singolare Recherche, un lavoro invero ciclopico, ci ha finora regalato quattro volumi. Ci puoi anticipare qualcosa riguardo al tuo lavoro attuale e futuro?

Come dicevo prima, dopo questa sorta di “conversione” io pensai a una struttura narrativa dove le parole potessero dare, una volta scritte, un senso, un significato preciso, a quanto da me rappresentato. Avrei potuto benissimo, per conservare le parole, creare una sorta di dizionario del nostro dialetto, ma sarebbe stato un semplice e arido elenco, appunto, di parole, dove sarebbe venuta meno la creatività, la storia, la mia storia. Mi accorsi inoltre, appena iniziato il lavoro, che le parole che adoperavo erano già nel racconto che stavo scrivendo, nei miei ricordi, nei fatti;  voglio dire che la parola che usavo viveva  già nel contesto di quel racconto, ne faceva parte, con un significato del tutto compiuto. Faccio un esempio. Prendiamo la parola “Bbazzannacchi”, che è proprio di uno buontempone, scansafatiche, un poco scemo se vogliamo. Ecco, farla vivere in un racconto dove compare un personaggio con simile fattezze è con tutta evidenza diverso dal ritrovare la parola, “bbazzannacchi” dentro un dizionario, con accanto la dicitura “mezzo scemo”. Non è la stessa cosa.

Ma, ripeto, tutto avvenne in un modo semplice, naturale, senza che io dovessi ricorrere ad artificio alcuno. Raccontavo e le parole erano lì, da sempre, all’origine di quel fatto, al loro posto. Un dizionario “vivo”, alla fine, dentro la mia opera.

Quello che subito decisi fu di iniziare dal giorno della mia nascita e di spingere la narrazione fino ai tredici anni. Mi proponevo di terminare con i tredici anni perché a quell’età, finite le scuole elementari e le medie a Cutusio, cominciavo a viaggiare, con la bicicletta, con la corriera, con il motorino, per frequentare l’Istituto Agrario, a Marsala. La mia vita, prima conservata come in vitro, subiva una prima rottura.

Portai avanti la narrazione, iniziando, come dicevo,  proprio dal giorno della mia nascita; e quando, dieci anni dopo, terminai di scrivere il libro, mi accorsi che non avevo finito di narrare, che altri episodi pressavano. Mi misi a raccontare allora dei miei quattordici, quindici, sedici anni…

Il progetto iniziale veniva così modificato, con la decisione di spostare la narrazione fino ai miei 18 anni, l’età in cui lasciavo Cutusio per andare a studiare a Palermo.

Chiusa così la trilogia su Cutusio – formata da Cutusìu, Cùntura, Nnòmura – ha inizio, con l’arrivo a Palermo, il mio quarto libro, Òmini.

Mi resta da specificare ancora che il progetto iniziale si è pian piano modificato ed ampliato. Ed è adesso quello di contenere tutta intera l’opera in sei libri. Ne ho pubblicato quattro, ne rimangono due. E, per finire, qualche cosa ancora su Cutusio. Si tratta di una considerazione che spesso mi ritrovo a fare, perché a me sembra che davvero quanto sto per dire ha una sua unicità.

Io abito la casa dove sono fisicamente nato. Non si nasceva, nel 1950, in un ospedale, come si fa adesso, ma a casa e con tutte le conseguenze che questo, delle volte, comportava.

Sono nato in questa casa e non c’è stata, in questi miei più che sessant’anni di vita, un’altra casa. I muri perimetrali sono sempre gli stessi, i tetti invece sono nuovi, il cemento ha purtroppo e per necessità sostituito la struttura a dammuso della camera da letto e le tegole del magazzino dove erano allineate le botti del vino. É probabile che, quando sarà (voglio sperare non sotto i novant’anni) fra queste mura io concluderò la mia vita e che a Cutusio riposerò. È una notizia di alcuni anni addietro: il nuovo cimitero di Marsala, dopo una scelta fatta su 109 contrade – ma non so quale criterio è stato adoperato – sorgerà a Cutusio. Hanno già iniziato, a tal proposito, i lavori e il muro di cinta è definito. E per accentuare ancora di più il mio legame con questa contrada: costruiscono il cimitero proprio su una fascia di terreno di mia proprietà. che era dei nonni e dei nonni ancora, un terreno che da sempre ci apparteneva e che ci è stato espropriato. Continuerò dunque ad abitare nella mia contrada e nella mia terra. Aggiungiamo che in questo mio percorso umano non ho fatto altro, nell’arte che mi è stato possibile esercitare, che parlare di Cutusio, delle gente e di ogni vita esistente nella contrada e adoperando la lingua che nella contrada si parla, e vi accorgerete dell’importanza che ha avuto, che ha, che avrà per me questo luogo.

Ritornando allora alla considerazione che mi era stata posta nella prima domanda: “Tutto comincia e tutto finisce a Cutusìu?”. Sì. Tutto comincia e tutto finisce a Cutusio.

E può un uomo essere così legato a un luogo?

 

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