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December 15, 2022
Cosa ci insegnano le Alpi 11. Design, arte, cultura: Bernhard Rüdiger
Emanuele Quinz
Per il terzo episodio della seconda stagione della nostra serie, incontriamo l’artista Bernhard Rüdiger. Nato a Roma, vive a Parigi dal 1994, dove dirige l’unità di ricerca Art contemporain et temps de l’histoire all’École nationale supérieure des beaux-arts di Lione. È uno dei fondatori dello Spazio di Via Lazzaro Palazzi e della rivista tiracorrendo. Il suo lavoro sullo spazio, sul suono, sull’esperienza fisica e percettiva del corpo utilizza diversi media e si nutre di una riflessione teorica sulla realtà dell’opera e sulla sua responsabilità storica. Numerose mostre sono state dedicate al suo lavoro in istituzioni internazionali. Una ampia monografia, Fourty-nine Exhibitions, è uscita nel 2022 presso Mousse Publishing.
Che relazione hai con le Alpi?
I miei nonni paterni si sono fermati a Merano quando nel 1943, dopo l’arresto di Mussolini da parte del suo consiglio, tutti i cittadini tedeschi che vivevano in Italia vi furono concentrati per essere rimpatriati in Germania. Mia nonna si nascose con i bambini, prima al Ritten in una casa di amici, poi ad Avelengo e il nonno, malgrado fosse conosciuto come anti-nazionalsocialista, fu costretto a partire in guerra da cui rivenne a piedi fino a Merano dopo aver disertato nel 1944. Mio padre, che è cresciuto a Merano, è morto giovane proprio quando i nonni costruirono la loro casa sui bordi del Töllgraben, un’incisione alluvionale all’inizio della Alta Val Venosta. Questo posto è diventato per me un terreno d’esperienza e quello che potrei definire un “luogo”.
Quando penso ad un luogo, penso prima di tutto alle diverse stratificazioni che lo hanno formato; stratificazione di memorie personali ed altre trasmesse naturalmente, ma soprattutto strati geologici o storici che informano il terreno e che influenzano profondamente quello che ai nostri occhi appare come un paesaggio.
La casa si trova in cima ad una murena sull’ultimo lembo di terra che cade a picco sulla profonda gola alluvionale del Töllgraben, circondato da diversi bunker costruiti dall’Impero Austro-Ungarico, che, come altre di queste architetture alpine, non furono mai usati. Quando mi metto al tavolo per lavorare, guardo nella conca della valle dove le acque de Töllgraben confluiscono nell’Adige. Conca creata dallo scontro tra due antichi continenti, quello paleo-africano e quello paleo-europeo, che ha delineato la zona di frattura geologica della linea Insubrica che crea l’alveo profondamente inciso del Töllgraben e della valle dell’Adige. Questo taglio nella montagna è stato anche il confine dell’antico Impero Romano e sempre di nuovo un confine di lingue e culture che mi pare ancore intravvedere nei modi e nella parlata degli abitanti del luogo. Ma ancora prima che mi potessi rendere conto dell’importanza degli strati storici e geologici, la gola del Töllgraben è stata soprattutto un luogo d’esplorazione e di pericolo che mi ha attirato ed occupato tutta la mia infanzia. Dopo averlo scalato in tutti i modi ho molto disegnato questo luogo di verticalità radicale dove le rocce si accatastano fino all’arco di cime di Tessa, o più giustamente in lingua locale, delle Rötelspitzen. Quando penso all’esperienza di questo luogo mi vengono in mente alcuni versi di uno degli ultimi poemi scritti da Friedrich Nietzsche Tra uccelli rapaci: — Ma tu, Zarathustra, l’abisso lo ami ancora, come lo fa l’abete? — Si radica dove la roccia stessa guarda con brivido verso lo sprofondo — esita sul burrone dove tutto intorno vuol precipitare: tra l’impeto della frana selvaggia, sopportando paziente tra torrenti che precipitano, duro, muto, solo…
Puoi raccontare una storia, un ricordo personale, una parabola, un aneddoto legato alle Alpi?
Negli anni Novanta, un po’ scombussolato da un viaggio notturno da Roma per ricoverare mia nonna ormai rimasta sola e molto anziana a Merano, ero rientrato a casa dicendomi che avrei potuto ancora fare un giro a funghi. Accompagnato dal cane di mia nonna, un Terrier da salotto assolutamente incapace di vivere fuori, sono risalito dal Töllgraben in una valle della sponda opposta. Risalendo i boschi alla verticale devo aver passato ore a cercare e salire sempre più in alto senza rendermi conto del tempo passato. Mi sono accorto all’improvviso che il sole era già sceso dietro alla cima di Tel e che vista l’altezza a cui ero arrivato non avrei avuto il tempo di riscendere per i boschi prima del buio. Messo il cane sulle mie spalle ho traversato una parete per rendermi sui pendii che danno verso Velloi e raggiungere i sentieri che vi passano. La luce scendeva ed il cane era sempre più inquieto. Ho deciso di sedermi in uno di quei valloni che scendono a picco e con il cane in braccio mi sono fatto scivolare a valle e sono arrivato ad un maso dal quale parte un cammino conosciuto. Mi sono incamminato che era praticamente buio dicendomi che certamente ci sarebbe stata un po’ di luna e che le luci nella valle sarebbero state sufficienti per seguirlo e che poi il cane avrebbe certamente saputo sentire le tracce dei viandanti. Niente di tutto questo, né luna, né luci e soprattutto il cane, talmente impaurito, non era capace di fare un passo. Me lo sono caricato sulle spalle per proseguire nel buio più profondo. Ero sicuro che avrei perso il sentiero e che avrei dovuto aspettare il mattino per proseguire. Ma mi sono accorto camminando che sapevo perfettamente dove ero. Camminavo con i piedi praticamente a terra, trascinandoli per sentire il terreno, ma gli odori, le rocce che sentivo sotto ai piedi, i suoni dei miei passi e del luogo, mi permettevano di sapere da quale piccolo bosco ero uscito, su quale frana di pietre passavo, dove cominciava una parte scoscesa del terreno ecc. Sapevo vedere non con gli occhi ma con tutto quello che la mia percezione aveva memorizzato durante le innumerevoli passeggiate sugli stessi sentieri. Ho traversato il Töllgraben un po’ più a valle in una parte meno pericolosa e sono risalito a casa lungo i campi di meleti. Ero esausto di fatica e il cane stava peggio, non riusciva più a respirare dall’angoscia, ma io mi sono detto che qualcosa di straordinario era avvenuto e che la percezione ha delle risorse incredibili.
Cosa ti hanno insegnato le Alpi?
Una scuola di architettura – come afferma Gianni Pettena. Anche se, per quanto mi riguarda, dovrei piuttosto dire una scuola di forme. E forse ancora più una scuola del silenzio perché è sicuramente vero che le montagne sono maestri muti che fanno discepoli silenziosi, come nella citazione di Goethe dal Wilhelm Meister. Ma questo silenzio non è solo una sensazione, né unicamente una forma di umiltà che certamente la montagna insegna in tutte le sue manifestazioni.
Negli anni il silenzio dello spettatore è diventato un vero soggetto del mio lavoro. La disproporzione dell’opera, il fatto che la scultura non possa adattarsi al corpo che la guarda è diventato un problema essenziale. Anche questa è un’esperienza della montagna e delle forme, o se si vuole delle architetture che vi si incontrano. In montagna, le forze telluriche che hanno creato l’assestamento geologico e quindi l’adattazione del vivente a queste condizioni, creano forme che non sono a misura d’uomo. Contrariamente ad un’idea romantica della percezione sublime, ci si trova raramente in montagna a contemplare qualcosa. Il corpo non si assenta mai e l’attenzione vigile non permette di lasciarsi andare a rimembranze che farebbero sorgere spazi sublimi in uno stato di abbandono di sé. Il corpo è vigile ed i piedi attenti a come si muovono. Tutto il nostro scheletro, i muscoli e i tendini sono attivamente presenti per percepire il proprio corpo nel luogo, in quel luogo unico e sempre nuovo che si traversa. Le forme che si incontrano non sono sublimi, ma sono disproporzionate non adatte a quello che sono e mi impongono di essere ancora più vigile.
Dopo un lungo percorso di lavoro mi sembra di poter dire oggi che la domanda dell’arte non è più: cosa vedo? ma: cosa devo vedere? A cosa devo fare attenzione, cosa devo immaginare che l’opera non indica? Come devo attivare la mia percezione e come sono presente, attento a ciò che dovrei vedere? Molti altri soggetti sono naturalmente all’opera in questo sviluppo che mi par essenziale nell’arte contemporanea, ma una prima possibilità di pensare queste cose, anche senza averle sapute dire, viene dall’esperienza della montagna.
Cosa ci insegnano le Alpi?
La prima cosa che insegnano le Alpi è sicuramente la fragilità. Fragilità geologica che ci fa sentire il manto roccioso su cui s’organizza la nostra vita, ma anche fragilità della nostra vita in un ambiente ostile che ci obbliga a renderlo abitabile. In questo senso le Alpi altoatesine sono certamente una scuola. Fino in alta montagna i luoghi sono resi abitabili. Vi è una cultura dell’abitabilità.
Ho trovato la biennale di Lione di quest’anno un po`deludente. Portava la sua attenzione proprio sulla fragilità ma non sembra riuscire a passare oltre il paradigma delle scienze sociali e i pochi tentativi di parlare d’ambiente in senso più largo erano decisamente poco interessanti. Sarebbe stata una biennale da fare nelle Alpi dove la fragilità è un’esperienza dell’individuo, ma anche una sedimentazione sociale e soprattutto una condizione geologica e decisamente estrema per la fauna che non potrà salire oltre e non potrà guadagnare altri spazi.
Ma le Alpi possono anche permettere di ripensare, passando per la topografia, la stratificazione sociale e politica che la mondializzazione ha cancellato dal nostro pensiero. Le Alpi sono un impedimento, dalla notte dei tempi uomini e fauna hanno dovuto aprire delle vie per traversarle e hanno dovuto creare forme di vita per abitarle e per restare in contatto con altri luoghi. Quando dal mio tavolo di lavoro guardo verso la Töll, guardo verso un punto in cui la valle si restringe e che è stato il punto di passaggio di popoli diversi. Dai latini ai punici africani, dai celti ai popoli germanici, tutte le genti che hanno traversato le Alpi hanno disegnato nuove vie di scambio.
Guardando con più precisione qualche anno fa come gli scambi sull’arte contemporanea si organizzano in Alto Adige sono rimasto colpito dall’importanza che hanno ancora città come Berlino, Roma o anche Vienna. Come se questi luoghi lontani fossero profondamente iscritti nella carta mentale che incide sui comportamenti di musei, di gallerie e di collezioni. Andare a studiare a Vienna sembra un’evidenza per un giovane artista altoatesino, come se la carta mentale dell’antico impero Austro-Ungarico fosse ancora attiva. Ma anche andare a Berlino per scegliere una mostra al Museion poteva sembrare evidente qualche anno fa, riferendosi sempre alla differenza con Roma o con la vita artistica italiana in generale. Come se nelle nostre menti dopo così tanti anni l’asse Roma Berlino esistesse ancora in una carta mentale che non si è adattata ai cambiamenti così radicali di questi ultimi decenni. Negli anni Ottanta, quando per la prima volta sono andato in Slovenia per incontrare gli Irwin che lavoravano nell’ambito del movimento Neue Slovenische Kunst, si trattava di passare oltre al muro che la Seconda Guerra Mondiale ci aveva lasciato in eredità. Questo muro però non esiste più dal 89, eppure continuiamo a pensare attraverso carte mentali di epoche lontane e certamente poco adatte alla realtà del momento. Le Alpi ci potrebbero insegnare le vie che sono state tracciate in altri tempi da altre genti e che esistono ancora per riconnettere quello che la storia ha deliberatamente disgiunto. Se seguissi le vecchie strade e i corsi d’acqua, potrei raggiungere facilmente la Slovenia salendo lungo il torrente Isarco fino all’antica diocesi di Bressanone. Poi lungo il torrente Rienz fino alla sua sorgente a Dobbiaco, dove nasce anche la Drava e seguendola potrei raggiungere Moribor. Queste vie sono iscritte nel tessuto geografico e culturale delle Alpi. Si dovrebbe forse lavorare sulla cultura e quindi anche sull’arte contemporanea riaprendo spazi mentali ed ambienti di vita, come quello sloveno, che la mondializzazione non ci permette di pensare.
Nelle tue risposte ha parlato di come le montagne ti hanno permesso di affinare un principio percettivo. Puoi dare un esempio di una tua opera in cui questo principio è attivo?
Nei primi anni dopo l’accademia a Milano, lavoravo essenzialmente sulla percezione e mi interessavo alla differenza tra l’esperienza del corpo nello spazio e la proiezione del nostro proprio corpo in uno spazio che si apre davanti a noi. Questi lavori devono molto alla mia al confronto con le opere dello spazialismo milanese e forse ancora di più alla scoperta dei Corridor di Bruce Nauman o dei parafulmini di Lighting Field che Walter de Maria ha installato su un altopiano del Nuovo Messico. Ma se porto veramente attenzione a come il mio interesse sulla percezione si è formato, è chiaro che la montagna è stata un maestro silenzioso. Basti pensare all’importanza dell’atmosfera che cambia radicalmente secondo l’altezza in cui ci si trova e che ci fa fare degli errori imperdonabili di valutazione della distanza e della dimensione degli spazi ancora da percorrere. E più in generale, il fatto di trovarsi in montagna costantemente in un ambiente che cambia e che ci tocca valutare e percepire anche se non abbiamo nessun punto di riferimento è una scuola essenziale.
Nel 1991 ho fatto un’installazione nel Ridotto del teatro Verdi a Firenze che si chiama Räumen. Si sale su due promontori per guardare un immenso spazio vuoto. Il titolo si riferisce al verbo sostantivato che Heidegger crea in un testo sull’Arte e lo spazio e che combina due significati: fare spazio e spaziare, nel senso di mettersi in procinto di aprire uno spazio inedito alla percezione e trovare quindi cosa spazia, cosa possa dar ordine a ciò che non ne a alcuno. Posso parlare di queste esperienze percettive usando i termini di un filosofo, ma in realtà prima di dare forma e poi concettualizzare quest’esperienza del vuoto, è stato importante viverla. Apprendere attraverso un maestro muto che il mio corpo è concentrato sulla gravità, il pericolo di cadere e che ad un certo punto si deve staccare dalla concentrazione sul corpo se vuole vedere oltre, guardare nel vuoto e decidere come dare ordine a un nuovo luogo senza forma; come distinguere, valutare, misurare quello che non può essere percepito se non vi si proietta un ordine, un senso, una necessità. Il luogo indeterminato che si apre davanti a noi deve essere reso abitabile per essere percepito.
Immagini:
1 Bernhard Rüdiger
2 Bernhard Rüdiger, vista della mostra personale Les Tanneries – Centre d’art contemporain d’Amilly, 2021, da sinistra a destra: Unbekannte Vögel N.3 (d’après Erich Nossack), 2015, ciliegio selvatico e faggio, due elementi di 160 x 240 x 65 cm. John negli abiti di Pinocchio, 2017, bronzo, porcellana dipinta e n-pneumatico, 110 x 155 x 90 cm. Sonne, Mond und Sterne dal 13 al 15 febraio 1945, trepiede, motore elettrico e acquarello su alluminio, collezione privata Colonia. © Bernhard Rüdiger ADAGP, Parigi 2022, foto Aurelien Mole
3 Bernhard Rüdiger, vista della mostra personale Les Tanneries – Centre d’art contemporain d’Amilly, 2021.A sinistra: Hammerbrockstrasse 43, 2013, terracotta e ferro, 2 elementi di 203 x 55 x 55 cm. In centro: Che nessuno giunga dal mare, 1991, compensato di pioppo e filo d’acciaio, 340 x 1583 x 548 cm. © Bernhard Rüdiger ADAGP, Parigi 2022, foto Aurelien Mole
4 Bernhard Rüdiger, Umanista dissociato, 2021, alluminio, due elementi di 204 x 83,5 x 38 cm. Installazione nella mostra personale Les Tanneries – Centre d’art contemporain d’Amilly, 2021. © Bernhard Rüdiger ADAGP, Parigi 2022, foto Aurelien Mole Bernhard Rüdiger, Räumen, 1991, compensato tino, 2 elementi di 300 x 110 x 400 cm. Bernhard Rüdiger ADAGP, Parigi 2022, foto diritti riservati.
5 Bernhard Rüdiger, vista della mostra personale Les Tanneries – Centre d’art contemporain d’Amilly, 2021. In primo piano: Fullerena patogena, 2006, 57 elementi in legno di 3m ognuno e acciaio, 7 x 15 x 12 m, collezione privata Colonia. Sul fondo a destra: SECOLO XXI!, 2007, acciaio e ghisa, 500 x 130 x 130 cm. © Bernhard Rüdiger ADAGP, Parigi 2022, foto Aurelien Mole
Visual design: Studio Babai
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