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September 15, 2024

Mancuso e la “Rivoluzione Verde”: a lezione di intelligenza dalle piante per il futuro del pianeta

Silvia M. C. Senette

L’edizione 2024 della Rassegna Generazioni si chiude mercoledì alle 18:30, al Teatro Cristallo di Bolzano, con “Plant Revolution. Musica e Scienza in dialogo”. Il quinto e ultimo evento, a ingresso libero, vedrà accanto a Eugenio Cesaro degli “Eugenio in Via Di Gioia” Stefano Mancuso: docente universitario, scienziato e divulgatore scientifico, è tra i massimi esperti mondiali di neurobiologia vegetale e il New Yorker lo ha incluso tra “coloro che sono destinati a cambiarci la vita”. Tra i suoi libri, tradotti in 27 lingue, “L’incredibile viaggio delle piante”, “La Nazione delle piante”, “La pianta del mondo” e “La tribù degli alberi”. 

Professore, “Plant Revolution” è un titolo evocativo. Come declina il concetto di “rivoluzione” nel mondo vegetale?

La rivoluzione consiste nel comprendere come funziona la vita sulla Terra: noi l’abbiamo sempre vista dal nostro punto di vista, umano, centrato su capacità intellettuali che crediamo esclusive. Ma gli animali, compresi noi, rappresentano solo lo 0,3% della vita; una frazione irrilevante. Le piante sono l’87% della biomassa terrestre e lo sono diventate perché hanno sviluppato capacità di risolvere problemi cruciali per la sopravvivenza. La loro intelligenza è diversa dalla nostra: statica, non mobile, ma incredibilmente efficiente. La rivoluzione è riconoscere il loro ruolo fondamentale e imparare da loro per affrontare le sfide ambientali.

C’è una pianta che l’ha stupita per intelligenza?

La mimosa pudica, o sensitiva, mi ha colpito per la sua abilità di apprendimento. Quando la si tocca, chiude le foglie come meccanismo di difesa. In un esperimento, le abbiamo insegnato a distinguere tra stimoli pericolosi e innocui: dopo alcune cadute indotte da pochi centimetri di altezza, ha imparato a ignorare gli stimoli non pericolosi, risparmiando l’energia che spreca per chiudere le foglie. Questo mostra una capacità di memoria e apprendimento in esseri che riteniamo più simili alle pietre che a noi.

Quali lezioni fondamentali dovremmo apprendere dal mondo vegetale per ripensare i nostri stili di vita e le politiche globali?

Le piante ci insegnano la cooperazione. In una foresta originaria, non piantata dall’uomo, tutti gli alberi sono interconnessi sotto terra attraverso le radici, condividendo risorse e informazioni. Si arriva a punti straordinari: un ceppo, un albero il cui tronco è stato spezzato e ne resta solo la parte radicale, rimane vivo per decenni a carico delle piante vicine. Questo, ovviamente, non ha niente a che fare con il fatto che queste piante siano buone o cattive: le categorie umane, etiche, in natura non hanno senso. Ma questo dimostra che il sistema comunitario è la chiave per sopravvivere in un ambiente instabile: quando le risorse sono scarse, la cooperazione diventa la strategia più efficace. Per affrontare un futuro segnato da cambiamenti climatici e instabilità, dovremmo ispirarci a queste comunità vegetali. 

Lei ha spesso fatto riferimento alle piante come modelli per risolvere problemi complessi della nostra società.

 vero. Le piante non danneggiano mai l’ambiente da cui dipendono e, anzi, lasciano sempre il territorio in condizioni migliori di quelle in cui lo hanno trovato. Hanno organizzazioni diffuse e decentralizzate – contrarie alle strutture animali che sono gerarchiche, centralizzate e piramidali – più efficienti e moderne. Le piante ci offrono, inoltre, soluzioni per problemi come il riscaldamento globale: piantare alberi è un modo semplice ed efficace per assorbire CO2. Ogni euro che investiamo in alberi assorbe mille volte più anidride carbonica di qualunque tecnologia mai inventata dall’uomo. Dovremmo riempire le nostre città di piante per raffreddarle e migliorare la qualità della nostra vita e di quella del pianeta.

L’evento di mercoledì ha come tema “musica e scienza in dialogo”. Pensa che l’arte, e in particolare la musica, possa avere un impatto maggiore della scienza nel sensibilizzare il pubblico sui temi ambientali?

Senza dubbio. L’arte ha la capacità di parlare all’anima, emozionando e arrivando con i suoi messaggi in profondità. La scienza può spiegare i problemi, ma spesso lo fa in modo noioso; è l’arte che può ispirare un vero cambiamento culturale. Collaboro da sempre con gli artisti perché credo che i sentimenti, più della logica, siano ciò che spinge le persone ad agire. La musica, le arti in generale, sono strumenti potenti per veicolare messaggi che altrimenti rimarrebbero sterili.

In un mondo sempre più tecnologico e urbanizzato, come possiamo concretamente rimettere l’ambiente al centro senza cadere nella trappola del “greenwashing”?

Il greenwashing è un pericolo reale, è in agguato e sta dappertutto: ormai, a sentire qualunque azienda, sono tutti impegnati nell’azione di risanare il pianeta… purtroppo non è vero. L’educazione e la cultura sono le uniche armi. Le aziende e i loro manager devono capire che il loro comportamento ha conseguenze a lungo termine. Bisogna diffondere un nuovo modo di vedere il mondo e l’arte è fondamentale in questo; raccontare l’ambiente in modo emozionante e coinvolgente è l’unica strada per cambiare la percezione comune e far comprendere che uno stile di vita sostenibile non è un sacrificio, ma un investimento. 

La sua ricerca ha ispirato molte innovazioni tecnologiche basate sulla bio-mimetica. Qual è l’invenzione o la scoperta ispirata dalle piante di cui è più orgoglioso?

Nulla di materiale, come i robot e i sistemi per esplorare lo spazio ispirati al mondo vegetale o i materiali che si muovono senza energia. Sono più orgoglioso delle organizzazioni diffuse che grazie al mio apporto stanno nascendo, nelle aziende e nelle comunità, ispirate alle piante: ci sono già multinazionali quotate in Borsa che funzionano perfettamente e generano profitto con una struttura decentralizzata, senza livelli gerarchici. Questo modello, derivato dal mondo vegetale, sta dimostrando di essere più efficace delle organizzazioni tradizionali.

Lei è direttore scientifico della Fondazione per il futuro delle città. Come pensa che dovrebbero cambiare le città del futuro?

Dovrebbero essere anch’esse ispirate alle piante: decentralizzate e con attività diffuse sul territorio, non solo nel centro storico. Il traffico veicolare privato sarà vietato e il trasporto pubblico iper-avanzato. Una parte significativa delle strade dovrebbe essere depavimentata e piantumata, trasformandole da vie delle macchine a vie degli alberi: questo renderà le città più vivibili. Quello che oggi sembra utopico, come lo era trent’anni fa liberare le piazze storiche dalle auto, diventerà realtà.

Il concetto di “intelligenza vegetale” è affascinante e sorprendente. Come far sì che l’educazione ambientale integri questa visione?

Attraverso la formazione e la cultura. I giovani devono comprendere, e in parte lo stanno già facendo, che gli uomini non sono il centro della vita nell’universo, ma solo una specie tra tante e nemmeno la migliore. Le piante, con le loro straordinarie caratteristiche, sono la chiave per una migliore comprensione della vita. Diffondere questa conoscenza in modo ampio è essenziale. Non saprei cos’altro suggerire; oggi sappiamo come funzionano queste cose: bisognerebbe che fossero divulgate nella maniera più ampia possibile.

Quindi possiamo ancora invertire la rotta?

Certamente!

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