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May 23, 2024

“ABITARSI”: la mostra a cura di Elisa Barison all’Abbazia di Novacella

Francesca Fattinger

Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero.
Etty Hillesum

È il momento di immergersi nelle pratiche di sette artiste e artisti e in una mostra che parla di organismi viventi, di creazione, di natura, di intrecci, di comunità, di individuo e gruppo, di contenuto e di contenitore, di dentro e di fuori, di introspezione e di apertura all’altro in ogni sua forma, di sacro e di profano, di umano, di vegetale e di animale. Una mostra che parla di vita, perché la immergono nelle dualità che la abitano, radicandola e al contempo espandendola, in un movimento concentrico e centripeto che muove e smuove corpi e idee.

Sono queste alcune delle parole e dei concetti chiave che ci guidano nell’immersione nell’ultimo dei progetti espositivi a cura di Elisa Barison, che ha un titolo che è già di per sé un invito al radicamento e all’espansione: “ABITARSI”, la mostra di arte contemporanea ospitata nella sala “Molino” dell’Abbazia di Novacella, visitabile fino al 26 ottobre 2024. 

Theresa Bader, Ingrid Hora, insalata mista studio (Ada Keller e Matthias Pötz), Arianna Moroder, Barbara Tavella, Tobias Tavella e Paul Thuile sono i nomi dei sette artisti e artiste invitati da Elisa  a progettare e a realizzare delle opere inedite e site-specific che ora abitano lo spazio dell’ampia sala situata al piano superiore dell’osteria abbaziale, scelta appositamente per le sue particolarità. Una sala che trasuda la sua storia recente e passata, rivelata ad esempio dal pavimento pieno di schizzi di colore, usata come atelier dall’artista austriaco Paul Renner e come spazio per corsi di educazione e formazione artistica dal Centro Convegni dell’Abbazia, che conduce naturalmente a riflettere sul concetto di atelier, come luogo fisico di creazione ma anche come concetto mentale. 

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“Qual è lo spazio della creazione? Che forma assume e cosa succede lì dentro?”: sono domande che mi stanno rimbombano dentro da un po’, me le sto portando appresso da qualche mese, andando alla ricerca dello spazio migliore per la scrittura, ma anche di un modo per lasciarmi libera di trasformarlo e di partecipare insieme a lui alla metamorfosi. Sono domande che abitano il mio corpo e la mia mente: è una bella coincidenza che la mostra in questione mi aiuti a indagarle ancora più profondamente, a scavarci e scavarmi dentro. “Dove siamo quando creiamo? Con chi siamo in quel momento?” Le artiste e gli artisti sono stati invitati innanzitutto ad abitare lo spazio dell’Abbazia per una breve residenza in cui per qualche giorno hanno vissuto insieme e con gli e le abitanti che quotidianamente lo animano. Preti, giardinieri, chi fa il vino e tanti e tante altre: ognuno con il proprio compito e ruolo, parte fondamentale dell’organismo vivente e del piccolo paese che è l’Abbazia. Per Elisa gli unici e le uniche che oggi mancano in questa comunità sono proprio gli artisti e le artiste: ecco quindi l’invito a colmare questa mancanza, ricordando il ruolo che hanno ricoperto in passato e che hanno reso l’Abbazia quello che è ancora oggi.  

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Su quali artisti e artiste è ricaduta la scelta di Elisa? Una selezione che mi racconta essere avvenuta di pancia, guidata innanzitutto dal pensiero che “fossero persone con cui avrei abitato volentieri”, ma anche che avrebbero coperto con le loro pratiche più media possibili e che con le loro opere avrebbero potuto interagire in modo non scontato con lo spazio. “Perché alla fine allestire una mostra è un po’ come arredare una casa assieme”: l’allestimento è stato pensato insieme, così ognuno ha trovato il posto più adatto per le proprie opere in una sinergia in cui ognuna dà forza alle altre e insieme creano la cornice per gli eventi e gli incontri che fin dall’inaugurazione hanno abitato lo spazio e continueranno a farlo nei prossimi mesi. Uno dei “sogni” in programma è usare lo spazio della mostra per cucinare insieme (ogni artista cucinerà qualcosa) e poi mangiare insieme nello spazio: un’occasione tra le altre per abitare lo spazio della creazione, non come una mostra congelata e inerte in cui è vietato toccare, ma anzi come uno spazio che si nutre di chi lo abita e lo usa e usandolo lo trasforma e si trasforma in un’osmosi di energie, riflessioni e corpi che cresce, germoglia e vive. 

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Tutto questo, che può essere inteso come l’obiettivo ultimo della mostra, è trattenuto tra le lettere maiuscole del titolo: “ABITARSI”, che mi immagino proiettino ombre vibranti che lo riconducono alle due frasi che nella sua genesi l’hanno preceduto. La prima è la frase in apertura, prelevata dai “Diari” di Etty Hillesum, che in ogni pagina trattiene talmente tanta luce da venirne sempre abbracciati anche se le si leggono estrapolate dal contesto, funzionali a scrollarci e a farci abitare il presente, così come il detto africano: “ci vuole un paese intero per crescere un bambino”. Infatti ci vogliono tanti ingranaggi per far funzionare una macchina complessa come può essere l’Abbazia o una mostra o semplicemente la vita di tutti i giorni, ma al contempo come ricorda Etty bisogna vivere in noi stessi come se contenessimo dentro un popolo intero. È da noi che dobbiamo cominciare quando si tratta di “abitare”: abitarci per abitare il mondo e per capire quali significati gli attribuiamo e vogliamo attribuirgli quando lo abitiamo. “Torniamo ad abitarci per imparare ad abitare” sembrano suggerirci Elisa e le opere e gli artisti e le artiste in mostra.

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È attorno a loro che ricomincio a chiacchierare con Elisa, andando a scoprire i dettagli di alcune di loro: per le altre vi lascio la curiosità di andare a trovarle, scoprirle e interrogarle nello spazio che abitano.  Sono attratta innanzitutto dai 12 sgabelli di legno che compongono “Chorus”, l’opera di Ingrid Hora, che messi in cerchio formano la postazione per un coro e si ispirano alle preghiere e ai canti giornalieri dei canonici: una riflessione sull’importanza dei rituali per la formazione dell’identità degli esseri umani in generale, degli artisti come dei canonici. I 12 sgabelli infatti possono fungere effettivamente come postazione per un coro, com’è accaduto durante la bellissima performance dell’inaugurazione, ma anche vagare liberamente per la mostra a servizio di visitatori e visitatrici per sedersi e soffermarsi a osservare un’opera. 

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Nella sala ci sono poi delle installazioni realizzate con lana di pecora autoctona di montagna da cui spuntano piante di edera: si tratta di “Humus 2.0” di Theresa Bader che, laureata in Eco Social Design, pone da sempre una particolare attenzione a realizzare progetti sostenibili con risorse locali e inutilizzate, in questo caso ispirandosi all’agricoltura e all’allevamento alpino del monastero e usando lana di scarto di pecore locali. Il tappeto da lei realizzato, tolti gli oggetti di plastica che l’artista ha trovato e poi integrato, se lo si posiziona in un giardino o sulla terra si decompone e diviene concime: una metafora di circolarità e del suo approccio sostenibile e olistico. Sempre suoi sono anche i due sgabelli realizzati con lana scura di “Pecore di Roccia Alpina” in via di estinzione che portano il nome “Not dead yet” (“ancora vivi”), dedicati alle pecore di roccia alpina e agli sforzi dei gestori del maso Stampferhof, vicino a Fortezza, da cui provengono. 

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C’è poi l’opera “Interior Space” di Arianna Moroder: uno “spazio nello spazio” ritagliato dal resto da una seta bianca che pende dalla capriata del tetto eche crea i contorni morbidi di uno spazio sacro in cui ritirarsi e in cui abitarsi. Al suo interno una candela creata con tutti i resti di cera raccolti nell’Abbazia e una catena formata da rondelle trovate e collezionate dall’artista negli anni e un pezzo della sua casa d’infanzia che è ora in ristrutturazione. Questa coreografia di oggetti e materiali trasforma questo angolo, ritagliato dal resto che lo circonda, in una specie di altare: l’opera che si inserisce in una narrazione autobiografica dell’artista ma anche in una riflessionetra coppie di concetti (lavoro interiore e vita esteriore, riflessione e stupore, percezione sensoriale consapevole e sopraffazione)permette a visitatori e visitatrici di guardarsi dentro immaginare e ritagliarsi il proprio spazio sacro e simbolico, abitarlo e abitarsi. 

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Infine un tavolo speciale, fondamentale per lo spazio e per la riflessione intorno al concetto di atelier: si tratta di “Tavolo due” di insalata mista studio, che è funzionale, e quindi utilizzabile, e al tempo stesso un’opera d’arte. Il tavolo è formato da due spesse tavole di noce, ricavate da un albero di proprietà del monastero, tagliato poco prima della residenza degli artisti, che sono state fissate a due cavalletti realizzati in frassino massiccio. Le tavole dovranno asciugarsi per almeno uno o due anni prima di poter essere utilizzate dal monastero, ma gli artisti propongono un “utilizzo intermedio”, una soluzione creativa e sostenibile, scegliendo di farle asciugare direttamente in mostra. Offrono così allo spazio-atelier così come a visitatori e visitatrici un punto di riferimento per la creazione: è attorno a un tavolo che si parla, si discute, si mangia, si scrive, si crea, ci si incontra. E così avviene anche nella mostra grazie a questo oggetto magnetico che attrae persone e oggetti e attorno cui accadono l’incontro e la creazione.

Questo come detto è solo un piccolo assaggio delle opere esposte: non perdete quindi l’occasione di incontrare la bellezza di questa mostra e dell’Abbazia tutta e tenete sott’occhio il sito per non mancare agli eventi e agli incontri che la animeranno nei prossimi mesi!

Credits: (1) video di Eric Wälz – Studio Mejia-Wälz; (2-9) Jürgen Eheim Fotostudio

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