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March 9, 2012

“Servo di scena”: Shakespeare sotto le bombe!

Jimmy Milanese

Il teatro è il luogo dello sguardo: «non raggiungerai mai il fondo del tuo animo, se non in teatro» sosteneva Eraclito. Il teatro è ovunque e forse tutti noi siamo attori inconsapevoli di un teatro ipotetico. Ogni abitazione è una scena nella quale si consuma una commedia, un dramma o una tragedia. Ogni inizio, ogni fine, ogni incontro, ogni abbandono e un pezzo di teatro, del quale non avremo mai notizia. L’attore di teatro studia testi e posizioni per tutta la vita, per poi accorgersi di avere tirato fuori solamente quello che è. Mentre ciò accade in tutti i teatri del mondo, la vita sociale impone all’essere umano di tenere ben celata la sua essenza. La differenza sta tutta in questo particolare, e nel fatto che gli attori di teatro scelgono per contratto di essere giudicati: non da qualche divinità, ma dal pubblico. Da tempo il teatro si è spogliato di maschere e parrucche: il nostro mondo, invece, non sa più che trucchi inventarsi.

Più o meno con queste parole, un vecchio turco arrugginito nei movimenti ma non nella conduzione del pensiero, mi spiegava quella che per lui era l’essenza del Teatro. «E scrivilo grande questo sostantivo», aggiungeva sempre. Eravamo seduti sulle gradinate dell’antico teatro di Efeso, in Turchia, alla foce del fiume Caistro, dove quell’uomo sosteneva si fosse recato Shakespeare in persona a scrivere «La commedia degli errori»: forse l’unica opera del grande drammaturgo inglese, classica nel soggetto e anche nella struttura. Non ho mai trovato conferma di quello che per lui era un fatto incontrovertibile: Shakespeare si era recato in Anatolia, sulle orme del grande Omero, nato due millenni prima, probabilmente nella vicina Izmir.

Un omaggio a questa incredibile arte, che sembra resistere ad ogni declino culturale, alle crisi economiche, alla concorrenza spietata della tecnologia e alle guerre, è la commedia «Servo di Scena» di Ronald Harwood: drammaturgo sudafricano che abbandonò Città del Capo per trasferirsi alla corte di Re Giorgio II d’Inghilterra, poco prima che in Europa divampasse la II Guerra Mondiale. Proprio all’interno di quella drammatica esperienza, Harwood colloca un fatto ben preciso: il declino del Teatro e con esso, la fine di un attore, ormai relegato ad estenuanti repliche in teatri di quart’ordine.

Attorno a «Sir» – ne di nome ne di fatto – Ronald (Franco Braciaroli), si raggomitolano una serie di personaggi più o meno vittime di un’immobilismo che li ha divorati negli anni. Milady (Lisa Galantini) è una moglie mai del tutto innamorata e mai del tutto indifferente verso il severo e burbero marito. Norman (Tommaso Cardarelli) è il tuttofare, ovvero il «dresser» di scena, che nella versione italiana è un semplice e svilito servo. Madge (Melania Giglio) è la direttrice di palco: risoluta, precisa e priva di particolari esigenze, se non quella di portare a termine lo spettacolo. Un Re Lear minacciato dalla cagionevole salute di Ronald, che nei suoi lapsus e mancamenti rivela la vera essenza dell’essere umano. La fine di un’epoca è anche testimoniata dalla rappresentazione parodistica di un’opera del grande Shakespeare.

Dal canto suo, Ronald pare avere avuto il suo breve momento di successo. Ora, invece, quella che per lui è stata una passione, la ragione unica della sua esistenza, diventa motivo di lagnanza. Recitare pare sempre più difficile, tanto che in fin di recita, egli abbandona la compagnia e, assieme ai compagni di una vita, un mondo insidiato dalla guerra totale.

Franco Branciaroli porta in scena il teatro nel teatro di Harwood, accompagnato da una bella comitiva di attori che restituiscono sia il dramma imminente della guerra sia il tramonto dell’espressione artistica più sublime che l’uomo abbia inventato: il teatro. Una versione molto contigua alla fortunata e pluripremiata trasposizione cinematografica di Peter Yates del 1983, quella di Branciaroli e Masolino D’amico, che ha curato i testi. Invece, le scene e i costumi di Margherita Palli sono di quelli che fanno amaramente pentire di occupare la platea piuttosto del palco. Un teatro, quello di Harwood, «per chi non è rimasto vittima di quella pestilenza ch’è il costume», tanto per farla finita con le parole stesse del Re Lear.

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