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October 9, 2012
People I know. Peter Prossliner e il riciclo virtuoso di idee, risorse, cose
Anna Quinz
Peter Prossliner ha 57 anni e gli occhi vispi di un ragazzino. Dice di sé di non essere un buon comunicatore, eppure, con uno sguardo e un sorriso aperto e sincero, comunica molto più che con mille parole. Quinto di cinque fratelli, nato e cresciuto in Val Venosta, da 40 anni stabile a Bolzano, Peter ha da sempre la passione per l’arte. E per il “fare”, parola che spesso torna nel suo parlare. Ha frequentato scuole d’arte, ha fatto il militare, ha lavorato all’ufficio tutela del paesaggio. È stato a lungo progettista di interni e da un anno e mezzo è disoccupato “un periodo molto proficuo”, racconta “perché mi ha permesso di fare cose e sviluppare idee”. Le cose sono un laboratorio di pittura come volontario al Centro Profughi di Bolzano, dove Peter è ormai un’istituzione e un punto di riferimento dei ragazzi in attesa dei permessi di soggiorno, che in lui vedono, prima di tutto, un amico. Le idee invece sono la cooperativa sociale Akrat, da poco aperta e che si occupa di riciclare oggetti dimenticati, ai quali dare nuova vita e di procurare un impiego a chi non ce l’ha. Perché Peter, se fa qualcosa, lo fa bene, e lo fa anche per il bene comune.
Partiamo dalla formazione. Scuola d’arte, Ortisei, anni ’70. Che esperienza è stata?
In quegli anni la scuola non aveva una fama buonissima, era un luogo dove si respirava una libertà non apprezzata negli ambienti conservatori. Anche nella piccola Ortisei arrivava il vento – o almeno il venticello – del ’68. Erano i tempi delle assemblee, dell’attivismo. In quel periodo, l’arte e la politica correvano parallele, e tutti noi di conseguenza. Io, ad esempio, ho smesso di dipingere per dedicarmi alla creazione di manifesti politici. Oggi mi pento di aver lasciato il pennello, e mi rendo conto che il concetto di arte, allora, era completamente sottomesso a quello della lotta di classe. Poi però il pennello l’ho ripreso, e ora a tempo perso, mi dedico alla pittura.
Qual’è per te il valore del lavoro? Quali insegnamenti hai dato e dai ai suoi figli?
Quando ho iniziato il lavoro c’era e si guadagnava bene, non come oggi. Non invidio chi cerca lavoro di questi tempi. Io ho sempre lavorato volentieri, ma come si può ora dire a un ragazzo di fare ciò che gli piace? Quello che importa è avere un lavoro, che piaccia o meno poco conta, e questo rende le cose difficili. Ai miei figli ho cercato di trasmettere la capacità di essere sinceri con sé stessi, di sopportare le delusioni e di educare l’autostima. E li ho sempre ho stimolati a fare. Li ammiro, ma non li invidio. Viviamo in un tempo in cui abbiamo tutto, ma manca totalmente quel minimo di certezze che servono per crescere. A noi sembrava che il mondo fosse lì ad aspettarci, oggi non è più così. Ma questo, credo, è un esplicito invito a cambiare le cose.
Appunto, il cambiamento. Anche la tua attività di volontariato al Centro Profughi è un modo per cambiare le cose. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?
Un anno fa passavo davanti al Centro e ho visto i ragazzi seduti fuori con le mani in mano e ho deciso di fare qualcosa. Avevo già in testa di creare un container di pittura, così ho proposto il mio progetto all’associazione competente. Voglio dare ai ragazzi la possibilità di fare, non impongo nulla, non avrebbe senso. All’inizio, ero lì tutto solo e sconsolato. Poi la curiosità li ha vinti, si sono avvicinati, per conoscermi o per prendere in mano i pennelli e disegnare. Insieme abbiamo fatto molta strada, costruito una dinamica produttiva, un sistema di fiducia e stima reciproca, di amicizia.
Non deve essere stato facile però entrare in relazione, con ragazzi che hanno, oltre che una condizione attuale difficile e un passato pesante, anche culture e lingue diverse.
Quello che mi ha aiutato è stato il fatto che hanno la stessa età dei miei figli. Li ho sempre visti come persone piene di potenzialità, che vogliono fare e costruirsi una vita. Sono giovani che come tutti gli altri hanno pregi e difetti, ma sono pieni di vita e di sogni. Basta mettersi sul loro stesso piano. Questa è stata, ed è, per me un’esperienza forte e importante e di certo ho guadagnato più io di loro.
E la cooperativa Akrat invece? Cosa, come, e soprattutto, perché?
È una vecchia idea che accarezzavo da tempo. Penso che il riciclo dia infinite possibilità di sviluppare idee nuove. Io ad esempio, non avevo mai voglia di gettare i vecchi quotidiani, e così, li ho trasformati in cestini. In più c’è la possibilità di creare posti di lavoro – sani e socialmente utili – per soggetti diversi, perché se la materia prima è “povera”, per renderla interessante e vendibile, serve investire proprio nella forza lavoro. E poi credo che l’idea del recupero sia molto attuale. La gente, anche per via della crisi, è sensibile a questi temi. Sono entusiasta di questo progetto, ho la fortuna di essere sostenuto da mia moglie, e dai miei figli. Questo aiuta. Mi sembra di essere tornato indietro di 30 anni, ora che posso realizzare le idee che avevo chiuso per tanto tempo nel cassetto più basso del mio cervello.
Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 7 ottobre 2012
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