Music
May 2, 2012
I fiati, Schellenberger e un pugno di critici giovani e agguerriti
Parola all'ascolto
Come si recensisce un concerto? Cosa si ascolta, cosa si guarda, e, infine, cosa si scrive per raccontare, valutare, trasmettere a un lettore (che forse ha ascoltato il concerto, e forse no) il significato di un’esecuzione, di un concerto, di una serata?
Carla Moreni, firma per la critica musicale del Sole XXIV Ore, ha detto la sua in un seguitissimo laboratorio di scrittura sulla recensione ai giovani studenti del corso di critica e giornalismo musicale “Parola all’ascolto”, incaricati di recensire il concerto dei Fiati della Haydn venerdì scorso a Rovereto. Ne sono uscite venti diverse letture della serata, ve ne proniamo tre tra quelle giudicate migliori dalla stessa Carla Moreni.
GABRIELE SFARRA – Non tutte le ciambelle riescono col buco. Una rondine non fa primavera. Scegliete voi il proverbio che preferite, il risultato sarà lo stesso: non sempre, utilizzando ingredienti di ottima qualità, prepareremo dei piatti da leccarsi i baffi. E’ quello che è successo ieri sera: un concerto che non è riuscito a incantarci, nonostante il programma fosse intrigante e i musicisti promettenti.
Ma andiamo per ordine, e come ogni buon cuciniere (giacchè oramai, evocando familiari immagini di casalinghe o massaie si rischia di essere tacciati di arretratezza, maschilismo e quant’altro) partiamo dalla ricetta, e dalla lista degli ingredienti. Gli ingredienti sono genuini e di qualità: a marchio D.O.C, direi: due partiture giovanili di Richard Strauss (non quelli del Bel Danubio e della Marcia di Radetzky, ma l’altro, il tedesco) e una matura di Mozart. Per essere più precisi (e tutto va curato e pesato, per preparare una buona portata) la Suite e la Serenata da una parte e la Serenata KV 361 Gran Partita dall’altra. Il tutto scritto per banda. Preparato l’occorrente, direi di dare uno sguardo all’ equipe dei cuochi: i fiati dell’ Orchestra Haydn di Trento e Bolzano capitanati da un maitre di tutto rispetto: Hansijorg Schellenberger, eccellente oboista con alle spalle vent’anni nei Berliner Philharmoniker.
Ma l’acquolina che avevamo in bocca si è trasformata, prendendo un po’ della genziana. Certo la Sala Filarmonica di Rovereto non è il forno migliore di cui un cuoco possa disporre, ma anche la capacità di adattarsi ad una sala dall’acustica non eccellente, e che per di più non si pratica troppo raramente è cifra fondamentale di un buon musicista. E un buon cuoco deve anche saper organizzare bene il menù. Forse sarebbe stato meglio iniziare con il Salisburghese, e poi servire Strauss “dulcis in fundo”. Perché in effetti i musicisti hanno impiegato un po’ per scaldarsi. La Serenata del Tedesco è risultata fredda. Che peccato per una zuppa così ben congegnata! Mancava quel sale che avrebbe potuto trasformare un esercizio di scuola di un giovane studente di composizione in un brano, seppur breve, intimo e dolce. Problemi analoghi, forse un po’ meno evidenti, anche per la Suite. I musicisti non hanno concertato, non sono riusciti a trovarsi. Questo li ha schiacciati su un livello dinamico monotono, per lo più tendente al forte, che ci ha impedito di gustare la preziosa invenzione melodica di Strauss e ha ostacolato l’apertura, la creazione di spazi necessari all’emergere dei numerosi momenti solistici, eseguiti comunque bene, specialmente dal primo oboe Gianni Olivieri. La temperatura necessaria è stata raggiunta verso il terzo tempo della Suite, la Gavotta, che ha iniziato a mostrare le potenzialità purtoppo non sfruttate degli esecutori. Quindi il secondo tempo è andato avanti più liscio, offrendoci un Mozart più sentito, dal fraseggio studiato, ma anche qui non troppo convincente. Certo, con l’eccezione del celebre Adagio, terzo movimento, la partitura mozartiana permette meno dei due piccoli capolavori di Strauss. Qualche attacco toppato, qualche nota fuori posto e i giovani (una volta tanto) cornisti sempre sul forte non ci hanno permesso di tornare indietro nel tempo fino alle aristocratiche feste che Mozart frequentava e per cui scriveva questi brani. E lo chef? Forse avrebbe potuto essere più chiaro nei suoi gesti, nelle sue indicazioni di tempo, magari avrebbe dovuto utilizzare la bacchetta.
Sicuramente un piccolo bis, una ciliegina dolce su una torta non troppo ben riuscita, ci avrebbe lasciato nelle orecchie un sapore migliore.
IOLANDA TAMBELLINI – “Il critico è colui che cerca ostinatamente un letto in un domicilio altrui”. A Rovereto il letto conteso è stato quello del Maestro Hansjörg Schellenberger e dei fiati dell’Orchestra Haydn; i critici sono quelli del corso di giornalismo musicale che hanno sottoposto a esame anatomico l’intera esecuzione di venerdì sera. I rumori sono iniziati già durante la breve pausa prevista dal concerto, nel foyer, mentre in sala si trattenevano altri spettatori ai quali l’età aveva concesso insieme alla prudenza l’oblio del sonno (e diversi ne hanno approfittato). Confrontando le recensioni dei giovani critici si è trattato di un concerto che “prometteva molto”, “poteva essere una bella occasione”… verissimo, perché l’idea di quest’appuntamento della stagione cameristica di Rovereto, che affiancava un celebre capolavoro di Mozart a uno Strauss raro, era davvero buona.
In maniera piuttosto accattivante il direttore Schellenberger ha proposto un percorso cronologicamente a ritroso. Tale scelta ha messo in evidenza quanto concretamente Mozart abbia rappresentato un modello per il giovane Richard Strauss. Ma il legame tra i due compositori va oltre questa familiarità. All’inizio del secolo scorso fu proprio Strauss a promuovere la riscoperta dei capolavori operistici di Mozart, contribuendo nel 1920 alla rinascita del Festival di Salisburgo, importante manifestazione che a lungo ha visto affiancate le opere di entrambi i musicisti. Venerdì scorso a Rovereto, cittadina che ogni anno offre due importanti manifestazioni dedicate al Salisburghese e forse non è un caso, Amadè rendeva il favore, offrendo la sua Serenata Gran Partita a illuminare due opere giovanili di Strauss pressoché sconosciute: la Serenata op. 7 e la Suite op. 4. La suggestione bastava a rendere la proposta interessante, ma è stata resa con una certa discontinuità. Si è cominciato, un po’ in sordina, con la Serenata di Strauss, l’esecuzione della quale è risultata più tesa che sicura. Migliore il risultato della Suite, soprattutto nei tempi centrali in cui la rigida scienza contrappuntistica cede alla cantabilità della Romanza e al fascino di una Gavotta di gusto fine secolo. Dopo la pausa, la Gran Partita di Mozart: eseguita con maggiore padronanza e con la scelta di tempi piuttosto veloci. E forse proprio per questo a qualcuno non sarà piaciuto l’Adagio che, vero centro della composizione mozartiana, è risultato notevolmente ridimensionato. Un piccolo peccato che ha permesso agli interpreti di fare emergere un’altra sezione dell’opera che anticipa epoche future: il quinto movimento in cui una Romanza, lenta e delicata, è accostata con ironia a un capriccioso allegretto in minore.
L’insieme non è risultato del tutto omogeneo. Splendido il primo oboe Gianni Olivieri e perfettamente a suo agio in entrambe le parti del concerto, tanto da offrirci saggio di manutenzione del suo strumento tra un tempo e l’altro colorando pure di ripetuti soffi l’esecuzione dei colleghi. È stato interessante ascoltare i corni di bassetto (Argenterio e Torsani), tessitura insolita impiegata da Mozart nella Gran Partita. Sonoramente importante anche la presenza dei corni: nei loro interventi i giovanissimi Perathoner e Consoli han rimarcato il loro merito con fin troppa decisione. In fine il risultato più interessante della prova interpretativa di Schellenberger, per quanto non sempre illuminata alla perfezione, risiede forse nella ricerca di dare a Strauss sonorità neoclassica, pittura a tratti romantica a Mozart dando carne a tale costellazione ideale. Non si è voluto concedere spazio ad altro. Nessun bis.
DANIELE PALMA – Chissà cosa avrebbe detto il giovane Richard Strauss se venerdì fosse stato seduto in platea, in Sala Comunale a Rovereto, per sentire il concerto dei Fiati dell’Orchestra Haydn. Magari avrebbe cercato di intercettare il direttore suo concittadino, Hansjoerg Schellenberger, alla fine, per chiedergli conto e ragione rigorosamente in bavarese. Di prime deludenti, per il pubblico e per i compositori, la storia ne annovera tante. Così pure è stata quella della Serenade e della Suite che Strauss scrisse ancora adolescente, tra il 1881 e il 1884: due brani poco eseguiti, forse anche per la difficoltà di mettere insieme un programma per ensemble di fiati che sia anche “digeribile”, fatto sta che si tratta di due piccole perle. Atmosfere Art Nouveau e sensualità fanciullesca per la Serenade op. 7, inusualmente scritta in un unico movimento; contrappunto di timbri e forma rigorosa, ma divertita, per i quattro movimenti della Suite op. 4, con anticipazioni della caratura che Strauss dimostrerà, dopo aver conosciuto Wagner, nelle sue pagine più mature. Il tutto in una cornice idealmente neoclassica, con Mozart che fa capolino, nella seconda parte del concerto, con la Gran Partita K. 361. Per fare Romeo e Giulietta, però, non bastano un balcone e una luna di carta, e qui sembra di vedere in scena la divertente Marchesini di qualche anno fa. Tante le imprecisioni, e soprattutto un insieme che non convince: i giovani cornisti suonano troppo forte, coprendo la bella prova dei fagotti, mentre la bacchetta che Schellenberger non impugna avrebbe potuto aiutare a metter d’accordo gli strumenti acuti. Ci si aspettava di meglio da una compagine che suona assieme da lungo tempo, e soprattutto da un direttore che ha maturato una grande esperienza nella musica da camera, oltre a esser stato primo oboe dei Berliner per dieci anni. L’acustica della sala ha le sue colpe, ma a parte alcuni momenti di lucida intensità l’idea è stata quella di una poca convinzione da parte degli esecutori, il che si traduce sempre in un compitino senza pretese, fatto per portare a casa la sufficienza. Seconda parte, nuova formazione: per il Salisburghese via i flauti, con l’unica donna in palcoscenico, dentro i corni di bassetto e il contrabbasso. Strumenti tutti moderni, perché si sa, a fare la buona esecuzione non sono le polverose preoccupazioni storicistiche, ma la qualità degli interpreti. Che c’è, innegabilmente, ma rimane anche qui per lo più confinata alla sezione. La prova, tuttavia, risulta molto più convincente che in Strauss. Schellenberger dimostra le sue qualità berlinesi: lo stacco dei tempi è ottimale, anche se alcuni passaggi più virtuosistici costringono gli esecutori a rallentare. Il contrabbasso riempie la sala e conferisce omogeneità all’impasto, scandisce il fraseggio dialogando in particolare con i fagotti, che ancora una volta dimostrano la loro qualità. Spicca l’oboe solista, Gianni Olivieri, molto bravo a tenere la concentrazione nonostante i parecchi problemi tecnici che gli gioca il suo strumento, tant’è che è costretto per buona parte del tempo a nettarlo e a soffiare in una chiave cercando di sbloccarla. I sette movimenti mozartiani scorrono sereni, con un progressivo diminuendo nella qualità in proporzione all’aumento della stanchezza, dovuta ad una scrittura molto fitta. Non bene il famigerato Adagio, veloce sì ma pesante e poco respirato. Il Rondò finale, luogo di presunte turcherie, chiude ironico un concerto senza infamia e senza lode, con applausi moderati che non stanno neanche a chiedere il bis.
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