Music

February 27, 2012

Brondi e le “Luci” arrivano al Cristallo

Marco Bassetti

Essere cantautori negli anni ’60, forse, era più semplice. Per tutta una serie di ragioni. Basta cominciare mentalmente ad elencare nomi per rendersi conto che i cantautori, in quegli anni, erano davvero tanti, anche in Italia. Partendo dal gruppo torinese dei Cantacronoche, passando per la Scuola genovese, quella romana del Folkstudio, il giro milanese (Gaber, Jannacci, I Gufi…), fino ad arrivare ai Guccini, ai De Gregori, ai Dalla. Il primo a scrivere canzoni partendo dalla cronaca fu Modugno, nel 1955, con “Vecchio frack” (1955). Come “Heartbreak Hotel”(1956), racconto di un suicidio: “Adieu, adieu, adieu, addio al mondo, ai ricordi del passato, ad un sogno mai sognato, ad un attimo d’amore che mai più ritornerà”. L’addio di un principe, Raimondo Lanza, amante della bella vita, presidente del Palermo, considerato il fondatore del moderno calciomercato. Un uomo in frac che si suicida all’alba, di cui chi canta ignora l’identità. A parlare per primo degli ultimi, dei diversi, degli emarginati fu invece Enzo Jannacci: “El portava i scarp del tennis” del 1964. Poi arrivò De Andrè.

Insomma, pur con tutte le differenze tra un artista e l’altro, se si prende un frammento qualsiasi della sterminata discografia di quegli anni e si ascolta bene, sembra di sentirvi racchiuso un intero mondo, un preciso modo di intendere il rapporto tra musica, realtà e parole. Con tratti piuttosto definiti, sogni e aspirazioni comuni. L’unione creativa, la libertà, la condivisione. Il sentore dell’avvento di una nuova epoca. Con un suo senso e una sua direzione. La passione, la fantasia e la tenerezza. Manifestazioni musicali, forse, di uno Zeitgeist … ma qui il discorso si fa complicato e l’aria subito pesante.

E poi, che ne è stato dei cantautori? Se si pensa alla “nuova generazione dei cantautori” viene subito in mente la scena romana: Silvestri, Gazzè, Fabi, Zampaglione… Poi, sparsi qua e là, lungo direzioni personali, vocazioni e percorsi più o meno autonomi, Samuele Bersani, la Consoli, Cristina Donà, Vincio Capossela, Marco Parente… Artisti nati tra la fine dei ’60 e gli inizi dei ’70 che iniziano a pubblicare negli anni ’90. La tematica sociale viene per lo più evitata e la politica ignorata, o trattata con ironia. In questo senso il singolo d’esordio di Daniele Silvestri – senza dubbio il più politico dei “nuovi cantautori” – è un vero inno generazionale. Correva l’anno 1994: “Allora, gli anni ottanta sono ormai finiti /sono stati noiosi come i loro miti/ di una cosa sola noi non siamo stanchi /di una buona chitarra… una chitarra funky… Non mi devi giudicare male/ anch’io ho tanta voglia di gridare/ ma è del tuo coro che ho paura/ perché lo slogan è fascista di natura”. Voglia di gridare e paura del coro. Frustrazione, rabbia, desiderio di cambiamento. Però, per lo più, prevalgono l’intimismo, il lirismo, il crepuscolarismo. La poesia delle piccole cose. “Non miti non dita/ ad indicare metodi di vita / solo io e la mia rivoluzione”, canta Marco Parente. E Samuele Bersani: “Se gli errori li cancello / resta la peggior calligrafia/ che ho avuto in vita mia/ nuda lì sul foglio”. Punte altissime di poesia. Ma è l’epoca del disorientamento, della solitudine, dell’incertezza. Si vedono crollare molte cose senza vederne sorgere di nuove. È scomparsa la visione, il futuro si è annebbiato. Il Geist se ne è andato dal Zeit e tanti saluti. Aria pesantissima, ma prevale il disimpegno.

Ora, va bene che in Italia non trovi un giovane al di sotto dei quarant’anni, ma è ora di iniziare a pensare che la “nuova generazione dei cantautori” non sia quella dei Gazzè. E che in giro ce ne sia una successiva. Saddam Hussein è stato ucciso, il berlusconismo prospera, la Cina decolla, la crisi morde, Fabrizio Corona ha messo la testa a posto. Simoni Cristicchi, siamo nel 2010, sentenzia: “C’è la crisi mondiale che avanza / e i terremotati ancora in vacanza / Meno male che c’è Carla Bruni / Siamo fatti così Sarkonò Sarkosì”. E nel 2007 vince San Remo con “Ti regalerò una rosa”, ispirata alla sua esperienza di volontario nel centro di igiene mentale di Roma. C’è qualcosa di nuovo nell’aria? Chissà, fatto sta che accanto a Cristicchi, nel sottobosco, si muove tutta una nuova scena di cantautori. “La leva cantautorale degli anni Zero” è stata chiamata, celebrata con un progetto discografico del 2010, nato dalla collaborazione tra Club Tenco e il Mei. Amor Fou, Andhira, Beatrice Antolini, Banda Elastica Pellizza, Bastian Contrario, Giovanni Block… C’è anche Denise. E tanti altri, 36 in tutto. Tutti sotto i 40. Introdotti da una bella prefazione di Cristicchi.

Tra questi manca Vasco Brondi, in arte Le luci della centrale elettrica. Assente giustificato perchè usciva in contemporanea col nuovo disco. Quello che, tra tutti, ha forse lasciato il segno più profondo nell’immaginario della musica contemporanea italiana. Ferrarese, classe 1984, radici nel punk, Brondi dà voce e corpo a una poetica che fa del principio di realtà un’istanza dominante. Necessaria e straziante. Bisogna immergersi nell’esistente, affondare il muso nel cemento, non per capire ma per esistere. Una rinata esigenza condivisa con altri cantautori di diversa attitudine, come Dente, Brunori Sas,  Nicolò Carnesi…  Fossimo in Inghilterra ci sarebbe già stato un NME a darci un’etichetta. Chessò, nuovo realismo.

Brondi però è estremo, non c’è spazio per l’ironia. E così, con Brondi, tutto è precario, a scadenza, a tempo determinato, in affitto. Persino l’amore. “Mi urli che il tuo cuore non è un bilocale da trecento euro al mese / andremo a Roma a salvare le balene”. Non solo il lavoro è precario, è la vita che è precaria.  Una precarietà sociale che diventa condizione esistenziale, il call center come dimensione dell’anima. Tutto è destinato a perdersi nel nulla, nell’insignificanza. “Le morti bianche le cravatte blu il tuo fuoco amico / l’eyeliner per andare guerra nell’estrema sinistra della galassia”. Un nulla che è ovunque e ci tormenta. “Ci troveremo a camminare tra le fabbriche lunghe come l’orizzonte / per una constatazione amichevole del nostro niente / e avremo gli occhi lucidi come le Mercedes”. Non c’è scampo, non c’è salvezza. C’è solo, si fa per dire, da vivere.

Le luci della centrale elettrica

27 febbraio 2012
Teatro Cristallo
Via Dalmazia 30, Bolzano

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