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December 11, 2013
Gianni Pettena: un pezzo di storia dell’arte e dell’architettura (che parte da qui). “Ho grande fiducia nei 20enni di oggi”
Franz
Gianni Pettena è uno di quei “monumenti viventi” che è un privilegio incontrare e ascoltare. Gianni Pettena (che tra le altre cose è nato a Bolzano ed è dunque orgoglio nostrano oltre che del mondo) è uno di quelli che hanno fatto la storia (dell’arte, dell’architettura, del design) del nostro paese, e che si porta addosso una tale stratificazione di esperienze, di racconti, di volti visti e vissuti, che si ha come la sensazione di entrare per un momento in un libro aperto, quando lo si sente parlare.
Gianni Pettena – con il suo sigaro acceso e il suo sorriso pieno – è uno che trasmette. Trasmette un’energia giovane, con quella giovinezza di spirito che solo i “grandi vecchi” sanno avere addosso. Trasmette il desiderio di rimboccarsi le maniche e cambiare le cose, così come lui ha fatto, per sperare di ritrovarci anche noi a 70 anni con un tale bagaglio di vita da essere semplicemente sereni e pronti a trasmetterlo, a nostra volta.
Io non so se ci riuscirò, ad arrivare a 70 anni come Gianni Pettena, con la stessa forza e la stessa positiva visione delle cose, quella visione capace di scavare nei recessi della realtà, per costruirne un’altra, di realtà anche migliore. Certo è che ho avuto il privilegio di conoscerlo e ascoltarlo. E non me ne dimenticherò. Qui solo alcuni frammenti, di un racconto lungo, di una giornata intensa (per me), di una vita intera fatta di arte, architettura, storia (quella di Gianni Pettena).
Gianni Pettena, partiamo dall’inizio. Dall’avventura della “sua” architettura radicale.
“Architettura radicale” è una titolazione data in un determinato momento storico della ricerca artistica e architettonica italiana, londinese, francese, americana… è un adattamento concettuale e linguistico che le nuove generazioni di allora cercarono di produrre, avendo frequentato scuole in cui i docenti si erano formati fra le 2 guerre e dunque raccontavano, sia nelle accademie d’arte che nelle facoltà di architettura, il mondo brillante dell’epoca della loro formazione ma non quello che si era generato nel secondo dopo guerra. Verso la metà degli anni ‘50 fino a metà degli anni ‘70 gli studenti – coloro che cercavano un’identità e di imparare un linguaggio visivo per raccontare la propria visione del mondo – non si identificavano dunque con i loro maestri.
È normale, le nuove generazioni aggiustano il tiro, lavorano sulla loro interpretazione del mondo, criticando quella precedente per creare la propria, vedendo negli adulti contraddizioni e mancanze alle quali cercano di dare risposta. In particolare, la nostra generazione, era abbastanza vivace anche perché è stata la prima che non ha subito traumi dalla guerra. Io ad esempio in quel periodo stavo a Moena, occupata dagli ufficiali tedeschi. Ero un bimbo biondo e facevo loro ricordare i propri figli così mi accarezzavano. Poi sono arrivati gli americani, ed è stata la stessa storia. Sono stato bimbo più accarezzato della seconda guerra mondiale.
Dunque, io e la mia generazione non abbiamo subito traumi, e volevamo tutto. Si guardava avanti e si vedeva il mondo con una grande fiducia di ricostruzione e di reinvenzione della vita dopo le ferite della guerra. Così si può spiegare il perché dell’architettura radicale, ma contemporaneamente del perché degli hippies in America o dei Beatles, dei Rolling Stones, di Mary Quant, in Inghilterra. La mia generazione è stata fortunata. Eravamo come una tribù senza confini nazionali, che cercava le stesse cose e parlava la stessa lingua, seppur espressa in diverse discipline come l’arte, il cinema, la danza… io per esempio non mi sono mai sentito particolarmente “architetto”. Volevo fare architettura, ma dopo il primo anno ho capito che quel che mi insegnavano non era l’architettura nella quale mi identificavo. Ho scoperto sulla mia pelle che fare architettura in una scuola con professori formati tra le due guerre che parlavano di razionalismo e funzionalismo, di un mondo rigido e geometrico, era un atteggiamento troppo monacale per me. Avevo 20 anni, ero in piena esplosione ormonale e mi sono accorto che la realtà non è solo razionale, ma anche emozionale. E come può essere l’architettura razionale ed emozionale insieme? Io lo scoprivo più parlando con gli amici artisti, come Michelangelo Pistoletto, che non nella facoltà di architettura…
Ma oggi, come siamo messi? Dove siamo arrivati?
Oggi purtroppo quella situazione entusiasta di purissima creatività senza costrizioni di mercato o di utile finanziario, è un po’ perduta. Non c’è più una generazione che emozionalmente racconti la propria dinamica di ricerca con quella consonanza di discipline che creavamo noi. Non c’è quella globale intensa intenzione di andare in una direzione, per dare voce alla propria generazione. O meglio, continua a esserci tutto questo, ma le generazioni comunicano meno. Le varie discipline hanno ricreato i confini disciplinari, non c’è quella libertà di integrarsi che c’era, malgrado si sia nell’epoca della comunicazione. La comunicazione avviene quasi freddamente solo attraverso il web e quasi diventa un pettegolezzo invece che una piattaforma comune di ricerca. Tutto questo poi ha anche elementi di estreme pulizia e purezza di intenzioni, ma è difficile riconoscere oggi quel che sta succedendo. Forse lo si farà meglio fra qualche anno, come spesso succede: per esempio, di architettura radicale si parla più oggi che allora…
Dunque, c’è oggi – quando sembra che di aver visto e fatto tutto – qualcosa che possa ancora dirsi “radicale”?
Senza dubbio. Nella sua povertà linguistica e ideologica – premetto questo – Beppe Grillo racconta il disagio di una generazione. Ma che sia un 70enne a mettere insieme i 20enni, mi dà da pensare. Le posizioni ideologiche di Grillo sono veramente poverelle, rispetto a ciò che muoveva noi quando eravamo 20enni, che di certo non ci saremmo “intruppati” dietro a uno come lui, ma anzi lo avremmo criticato come tutti gli altri che non approvavamo perché avevano fatto compromessi di mestiere e di utile finanziario. Il 20nne di oggi dovrebbe fare questo, e invece si “intruppa” dietro a un pifferaio.
Sentirla parlare della vostra generazione, porta a pensare ai giovani di oggi… con forse un po’ di amarezza e di invidia per quel che avete vissuto. Lei come vede la situazione attuale?
Ho enorme fiducia nel 20enne di oggi. E questa fiducia mi deriva dal fatto che vedo giovani artisti, critici e architetti che sono vivacissimi. Anche 40 anni fa c’erano persone interessanti la cui voce si mescolava alle voci meno interessanti. Si tratta di capire, saper indagare ed estrarre da questo brusio apparentemente senza carattere e identità, le voci originali, selezionarle sul piano critico e dare loro la possibilità di esprimersi.
Mi pare di capire che ha una grandissima importanza, oggi forse ancora più di ieri, la formazione, l’educazione, la scuola (che sia quella di base o “La mia scuola di architettura” che dà il titolo alla mostra). Ma la scuola – sopratutto nel nostro paese – è profondamente in crisi, no?
Ma lo era già allora. Io sono nato a Bolzano e ho scelto di studiare a Firenze, perché c’erano tra i professori grandi nomi come Leonardo Benevolo, Ludivico Quaroni e Adalberto Libera. Dopo un anno ho però che non era come pensavo, ma da bravo studente ho continuato a studiare, mi sono laureato e ho preso pure la “licenza d’uccidere”. Di uccidere il paesaggio: sono iscritto regolarmente all’albo professionale degli architetti, ma mi guardo bene dall’esercitare, anzi cerco in tutti i modi di raccontare l’architettura senza che diventi sempre “utile”. Secondo i più, può esistere architettura solo se contiene scale, bagni, riscaldamento ecc. Non esiste oggi la possibilità di produrre architettura che racconti una poesia, senza finalizzarla all’investimento di capitale che comporta. Ci sono solo pochi esempi, come il Guggenheim a Bilbao o il Centre Pompidou a Parigi.
Ma allora, architettura si o architettura no?
Io fin dalla metà degli anni ‘60 ho cominciato a produrre un mio linguaggio, all’inizio arredando e rendendo abitabile un vecchio loft che avevo affittato. Poi ho continuato questo lavoro di ricerca, disinteressandomi del fatto che una volta laureato avrei dovuto vivere facendo “la professione”. Ho sempre pensato che la professione fosse bieca: se si intende l’architettura come professione, si finirà col fare compromessi che fanno dimenticare che siamo testimoni del nostro tempo e che anche l’architettura ha il compito di documentare l’avanzamento culturale e non la negoziazione con il mondo reale e l’adattamento ai desideri del cliente.
E qui, entra in gioco l’arte…
Questo è il punto. Io faccio architettura con gli strumenti dell’arte, non con quelli architettonici. Il mio lavoro è alla ricerca di definizioni e linguaggi che esprimano il loro tempo e il desiderio di raggiungere un’architettura assoluta. Cercavo una definizione assoluta architettura, in giro per il mondo, cercavo un luogo dove costruire questa architettura senza il forte condizionamento del passato che c’è in Europa. Nel vecchio continente infatti si può lavorare solo nelle smagliature del tessuto: quando il tessuto si smaglia ti concedono di rammendare il buco con un edificio contemporaneo che deve imparare a rispettare il passato, ma con orgoglio e con il diritto di parlare del proprio tempo. È sempre complicato.
Quindi, questo foglio che è l’Europa, fortemente connotato da segni precedenti, mi portava a cercare il contrario del tutto pieno: il tutto vuoto, il foglio bianco. Che erano i deserti degli Stati Uniti, come la Monument Valley. Per poi accorgermi che anche quei luoghi avevano la loro storia. I nativi americani avevano utilizzato quei luoghi rinominandoli senza modificarli, scoprendo che la migliore architettura che l’uomo può fare è quella trovata nella natura. E questo è successo: ho scoperto che per loro la Monument Valley è la valle dei templi, quindi un luogo diverso da quel che credevo.
Inevitabile a questo punto, chiederle che influenza ha avuto su di lei e sul suo lavoro la sua terra, l’Alto Adige.
Il mio è stato un lungo percorso, durato più di 40 anni, per scoprire che quello che stavo cercando erano proprio le mie montagne, che sono diventate per me luogo di riferimento originario. L’ho scoperto negli ultimi anni, anni nel quale ho recuperato e rivisitato i luoghi che mi hanno connotato, in senso definitivo. Un anno fa ho organizzato una mostra a Milano con altri artisti di quest’area geografica, una mostra alla ricerca di eventuali piattaforme comuni, condizionate dalla natura forte delle nostre valli e delle nostre montagne. Non esistono montagne della stessa qualità estetica e bellezza delle nostre Dolomiti, grandissima fonte di ispirazione. Ho scoperto dopo 40 anni che il mio percorso mi riportava qui. Un cerchio che si chiude, per aprirne altri. Attraverso quella mostra ho scoperto in modo definitivo che le montagne che hanno connotato le mie visioni fin da bambino, hanno anche connotato il mio gusto estetico, la mia ricerca di bellezza, il mio linguaggio, la mia visione del mondo.
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