Culture + Arts > Visual Arts
October 17, 2024
La fotografia secondo Anie Maki: intervista ad Anna Michelotti
Maria Quinz
Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate
Diane Arbus
Storie, memoria e immaginazione. E il flusso mutevole della vita, fatto di persone, cose, luoghi, luce e tempo. Istantanee fotografiche, inanellate l’una nell’altra, attimo dopo attimo, come una catena o una ghirlanda di carta stampata a colori o in bianco in nero, potenzialmente infinita. Questa è solo una delle immagini che si sono risvegliate in me, scoprendo passo passo la ricerca fotografica di Anna Michelotti, in arte Anie Maki. Il lavoro della giovanissima fotografa bolzanina è un percorso affascinante, che non teme di scavare in più direzioni, a partire dall’inconscio e dalla memoria personale e che al tempo stesso colpisce l’occhio dell’osservatore per la sua spontaneità e freschezza. La macchina fotografica è per Anna uno strumento di esplorazione e di indagine, ma anche un medium affettivo e intuitivo, che le permette non solo di bloccare il presente su pellicola, ma anche di tessere legami, approfondendo la sua relazione con le persone, i luoghi e le cose. Anna, come è nato il tuo interesse per la fotografia?
Mi è sempre piaciuto scattare fotografie fin da quando ero piccola. Nel mio hard disk ci sono immagini che ho realizzato a partire dal 2008, da quando avevo 10 anni. Già allora mi piaceva fotografare le persone. Da ragazzina ho trovato in casa una vecchia reflex da 35 millimetri e ho iniziato a fare i miei esperimenti con quella macchina, portando la pellicola a sviluppare. Anche oggi realizzo quasi tutti miei progetti in pellicola, mentre nei lavori su commissione uso, ovviamente, anche il digitale. Per un po’ di tempo non ho avuto abbastanza fiducia in me stessa per decidere che il mio hobby potesse diventare il mio lavoro. A un certo punto, invece, mi sono detta che potevo provarci e dopo la laurea in Scienza della Comunicazione ho deciso di dedicarmi più seriamente alla fotografia, iscrivendomi a Spazio Labò a Bologna: una scuola improntata sul progetto e sulla realizzazione di un libro come tesi conclusiva dei 2 anni di corso e che mi ha formato, dando una struttura più solida alla mia fotografia tramite la formazione pratica e le conoscenze tecniche. C’è qualche fotografo che ti ha ispirato maggiormente nella tua formazione o che ammiri particolarmente?
Ammiro tanti autori. In generale, più che la fotografia di reportage, di paesaggio o still life prediligo la ricerca visiva che concentra il suo sguardo sulla natura umana, colta in una dimensione di realtà il più possibile autentica, quotidiana e non edulcorata. Mi piace molto Nan Golding, per l’intimità istantanea che riesce a restituire nelle sue foto e Diane Arbus, per la potenza e l’anticonformismo dei suoi scatti in bianco e nero. Tra gli autori contemporanei ammiro molto Jim Goldberg, anche lui statunitense, che lavora con materiale misto. Jim Goldberg annota sulle sue fotografie o chiede di scrivere ai soggetti che ritrae, mettendo insieme più materiali con la tecnica del collage. Anche a me piace fare questo tipo di lavoro, utilizzando la scrittura e il collage, aggiungendo alle immagini più stratificazioni ed elementi visivi propri di linguaggi differenti. Di recente mi è capitato anche di intersecare la fotografia con la scultura in un bel progetto in cui ho collaborato con l’artista Lucia Russo Thomson, per una mostra che si è tenuta a Londra organizzata dal collettivo di amici Slug Area. Anna quando scatti una fotografia cosa attrae maggiormente il tuo sguardo?
Questa è una domanda sempre attuale per me e che continuo a pormi ogni volta che fotografo e mi trovo davanti a qualcosa di inaspettato. Anche quando scatto seguendo una progettualità, non tutto quello che la foto restituisce lo avevo immaginato prima e questo è anche il bello della fotografia. Spesso scatto perché ho l’istinto di farlo e in un secondo momento mi interrogo sul perché io abbia fotografato quel certo particolare in quel determinato istante. Penso che ci sia sempre un motivo alla base, un nucleo profondo anche se inconsapevole o di natura inconscia che guida lo sguardo e lo scatto. Questo qualcosa naturalmente può cambiare con il tempo e le situazioni, così come cambiamo noi. Non penso di avere una risposta finale. Però so per certo che, se posso, cerco di passare del tempo con le persone, prima di fotografarle. Non solo nel caso del canonico ritratto. Questo è il mio approccio anche quando mi interessa fotografare un dettaglio della persona: un piede una mano, l’ambiente dove vive. É come se questi incontri di reciproca conoscenza fossero per me parte del fotografare. Credo che alla base ci sia un mio bisogno di indagare la relazione tra le persone; non so se tra me e loro, tra loro e l’universo che portano con sé o entrambe le cose. Alla fine le persone si aprono e mi raccontano le loro storie, i loro desideri e ricordi legati ai luoghi. Quando fotografo cerco di andare nel profondo; non fare qualche scatto e basta. Hai realizzato un progetto fotografico con al centro una tua vicina di casa – oggi diventato un libro – e anche un lavoro su tua nonna, due persone che hai conosciuto bene…
Si è vero anche se sono due progetti diversi, perché in un caso ho lavorato su di una persona di famiglia e nell’altro su di una persona esterna, anche se familiare: una vicina di casa anziana, sensitiva e telepatica, ai miei occhi affascinante, con cui ho intessuto una relazione speciale, fatta anche di scambi di bigliettini, doni e dolci e che piano piano mi ha aperto le porte della sua “tana”, svelandomi il suo mondo. Questo progetto è diventato un libro dal titolo “Marinella” ed è stato pubblicato dalla casa editrice indipendente di Firenze, Lotta Books, che realizza libri fotografici molto belli cuciti a mano. Sono felicissima del risultato. Il progetto su mia nonna “Maida” invece è stato la tesina finale per la scuola di fotografia ed è un lavoro ancora aperto. In questo caso ho scavato nel mio passato e ho utilizzato anche immagini provenienti dall’archivio fotografico di famiglia. C’è stato quindi fin da subito un coinvolgimento intimo e un’indagine di natura psicologica più personale, che mi ha portato a studiare il mio albero genealogico e la tessitura dei legami e traumi che si sono avvicendati in famiglia di generazione in generazione. Tuttavia, anche quando indago la storia di altri procedo più o meno allo stesso modo, cercando di restituire i collegamenti tra le persone e i luoghi, così come gli oggetti e i piccoli dettagli apparentemente banali, ma per me significativi, che li connotano. Le ragazze e i ragazzi, tuoi coetanei, sono soggetti che ritornano nel tuo lavoro e poi c’è anche Bolzano…
Quello che mi circonda e che attraverso è ciò che mi incuriosisce e quindi questi soggetti non possono mancare. A scuola ho avviato il progetto “Ex oder Walsch” sul tema del conflitto affrontato tramite la fotografia, mettendo al centro la mia regione. Ho voluto riflettere su più piani: sul conflitto linguistico, culturale e politico e mi sono immaginata l’Alto Adige come un paziente in analisi a seguito di un trauma che in qualche modo lo ha paralizzato. Ho quindi cercato di utilizzare un punto di vista neutro, non giudicante, considerando il conflitto come qualcosa di consequenziale al trauma, raccontando più i “sintomi”, se vogliamo. Ho tenuto a mente questo blocco e ho realizzato foto di animali imbalsamati, porte e portoni chiusi, serrature che mi sembravano soggetti emblematici. Poi ho iniziato a fotografare e mettere a confronto i miei coetanei a feste e serate che per contrasto, creavano una frattura con la serie di immagini sulla chiusura e l’immobilismo. Su Bolzano ho realizzato anche una serie di fotografie ambientate intorno al fiume, “Overflow”, per il progetto “FLUX – Esplorazioni fluviali”, commissionate da Lungomare, che nell’arco di più tempo, ha invitato artisti, architetti, ricercatori per lavorare sullo spazio fluviale a Bolzano e poi è stata fatta anche una bella pubblicazione per la mostra. A me, in particolare, hanno chiesto di lavorare sui giovani: volevano uno sguardo il più possibile ravvicinato. Ed è stato bello perché ho potuto lavorare con calma, con un anno di tempo a disposizione. Ho iniziato intervistando i ragazzi, domandando che relazione avessero con il fiume e poi trascorrendo diversi momenti insieme nei loro posti preferiti. C’era chi si fermava al fiume di giorno, chi di notte a fare il bagno. Ho colto un’ampia varietà di atmosfere, tra quiete e dinamismo, luce e buio. Ho realizzato delle foto in bianco e nero molto contrastate, che rendevano bene, secondo me, tale diversità. Questo progetto mi ha fatto affezionare al fiume… “The first incarnation is the hardest” invece cosa indaga?
Anche questo è un lavoro trasversale, che parte dai miei luoghi di vita e dalle mie amicizie e che mette al centro la relazione e il tema del bisogno di cura della mia generazione: quel tempo prezioso che si dedica all’altro, così come a sé. Anche qui il processo creativo che sta dietro alle immagini ha richiesto diverso tempo, più di quanto sembri: tempo per entrare in connessione, comprendere, ascoltare e stringere legami affettivi. Senza il tempo dedicato, credo che queste foto non potrebbero essere le stesse e avere questo grado di intimità e verità. Anna hai qualche speciale sogno nel cassetto per il futuro?
Un giorno mi piacerebbe avere una libreria fotografica e vorrei che tutti i miei progetti diventassero libri… Ho questa fantasia già all’inizio di ogni progetto, anche se sono consapevole che sia tutt’altro che immediato farne ogni volta un libro. C’è tanto lavoro dietro. Per me è importante occuparmi personalmente della scelta della carta, della grafica, dell’impaginazione e della messa in sequenza delle immagini e degli altri materiali per creare una narrazione. Nel caso di “Marinella” abbiamo lavorato insieme con l’editore e anche per “Maida” sto collaborando con un’esperta di grafica molto brava, Chiara Cesaretti. Ho anche auto-pubblicato una serie di libretti che ho realizzato espressamente per me, per il progetto “Evidence”. Sono una cinquantina di fascicoli che accostano serie di immagini di dettagli, colori, forme e oggetti che ho fotografato con il cellulare e che mi piacciono particolarmente. Sono foto che desidero conservare fisicamente: istantanee minime che non voglio perdere e che con la loro “evidenza” mi tengono in stretta connessione con l’attimo presente. Questo è quasi un lavoro terapeutico per me e che mi ricorda ogni giorno quanta bellezza ci sia in giro, se solo ci si sforzi di osservare ciò che ci circonda con curiosità, partecipazione e cura.
Credits: (1,3,8) The first incarnation is the hardest; (2) Berlin (4,5) Maida; (6,7) Marinella; (9) ritratto di Anna Michelotti; foto by Anna Michelotti.
Comments