Contemporary Culture in the Alps
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© 2025 FRANZLAB
Photography ,Visual Arts

Il corpo, la luce, l’attimo

Intervista al fotografo Fabrizio Ferri, presente con alcune immagini nella mostra "Sport. Le sfide del corpo" al Mart

02.12.2025
Anna Quinz

© Mart Rovereto, Jacopo Salvi, 2025

Nel silenzio vibrante che precede lo scatto, Fabrizio Ferri ha modellato un linguaggio capace di trasformare il gesto in rivelazione. Fotografo, regista e autore tra le voci più autorevoli della cultura visiva italiana, ha attraversato moda, ritratto e ricerca personale con la naturalezza di chi vive l’immagine come un’estensione del pensiero, un percorso iniziato nel 1970 come fotoreporter di costume e politica e poi approdato al mondo della moda, dove è rapidamente diventato una delle firme più richieste, collaborando con testate internazionali come Vogue, Marie Claire, Elle, Vanity Fair e GQ e ritraendo in modo inconfondibile, tantissime personalità dello Star System.

Ho avuto il piacere di incontrare Fabrizio Ferri al Mart di Roverto, mentre ancora portava negli occhi le impressioni fresche della mostra “Sport. Le sfide del corpo” (ne abbiamo parlato qui), dove alcune opere della sua serie ERA occupano un posto di rilievo. Tra queste, l’atleta sospesa nel salto — un frammento di energia pura, fissato nell’istante in cui il corpo sfida il tempo — è stata scelta come immagine ufficiale dell’esposizione.

È in questo contesto, dunque, circondati dalle sue fotografie e dalla loro tensione silenziosa, che la nostra conversazione ha preso forma. Un dialogo che parte da una figura in volo e si allarga al modo in cui Ferri ascolta il corpo, la luce e tutto ciò che accade tra loro.

© Fabrizio Ferri, Untitled #4 (serie ERA), dicembre 1995. Courtesy l’artista, Crediti fotografici: Fabrizio Ferri
About the authorAnna QuinzDa grande volevo la fare la ballerina. Nel frattempo, scrivevo poesie e romanzi gialli tascabili (una facciata, e [...] More
Fabrizio, iniziamo parlando delle opere in mostra. Come è nato questo particolare progetto fotografico?
Questo progetto fotografico nasce nel 1995. Condé Nast America stava progettando un nuovo magazine, John, dedicato allo sport, al movimento e alla salute. Avevano però un problema: non c'era nessuna immagine che desse una vera identità visiva al progetto. Le foto di sport disponibili erano tutte scattate negli stadi, convenzionali, prive di quella forza iconica che stavano cercando. In quegli anni stavano esplodendo i grandi budget delle aziende di abbigliamento sportivo: l’idea di reinventare l’immagine dello sport era potentissima. Mi chiesero se avessi qualcosa da proporre. Risposi di no, ma aggiunsi: “Possiamo farlo”. E così li convinsi a eliminare tutto: niente stadi, niente pubblico, niente elementi riconoscibili e direttamente scrivibili al contesto sportivo. Proposi il deserto, la sabbia, uno spazio essenziale in cui il corpo potesse parlare per sé. E realizzammo questo servizio fotografico con le atlete della squadra olimpica americana. La parte meno felice di questa storia è che il giornale non vide mai la luce: l’investimento necessario superò le possibilità dell’editore, e il progetto si fermò. A me rimasero le fotografie. Ogni tanto mi chiedo se sia stata colpa mia… Ma quando Antonio (Calbi, curatore della mostra n.d.r.) le ha viste e le ha proposte al Mart, riportandole alla luce dopo essere state ferme per anni nel mio archivio, devo dire che ne sono stato davvero felice. Quelle immagini hanno ora finalmente trovato il loro spazio, e la loro storia può continuare a essere raccontata.

In una sua intervista ha detto che la fotografia “non ferma l’attimo, ma crea l’attimo”. Come sono stati creati, allora, quegli attimi così speciali di queste immagini?
Normalmente, quando lavoro con delle modelle, spiego cosa devono fare: costruiamo insieme l’attimo che io voglio creare e fotografare, per condividerlo. Ma con le atlete è stato diverso: non potevo dire loro cosa fare. Loro conoscevano il proprio gesto, il movimento perfetto frutto di anni di allenamento. Io dovevo solo capire quando arrivava l’apice di quel gesto — l’attimo da fissare. È stato quasi un paradosso: credo che l’attimo si crei, ma in questo caso dovevo imparare a riconoscerlo, per poi fissarlo. 

Come hanno reagito le atlete a questa esperienza, così lontana dal loro contesto abituale, private dello stadio, del pubblico o persino dell'acqua, nel caso delle nuotatrici?
Si sono divertite moltissimo. Erano stupite dal livello di concentrazione che riuscivano a mantenere in quel “vuoto pneumatico”, dove non c’era nulla tranne la luce. Ma la cosa più interessante è che, nel deserto, si sono sentite emancipate dal tempo. I loro movimenti sembravano eterni, come quelli rappresentati sui vasi greci: lo stesso salto, la stessa posa, ma sospesi nel nulla, in un luogo senza tempo.

In effetti, guardando le foto, colpisce che atlete all’apice dello sforzo fisico non mostrino alcuna tensione sul volto…
Esatto. Sono rilassate perché la concentrazione è totale. Nemmeno i muscoli del viso si muovono: sarebbe uno spreco di energia. La loro disciplina è tale che nemmeno la fatica traspare. 

C’è stato bisogno di più tentativi per cogliere l’attimo giusto?
No, io lavoro sempre in modalità “buona la prima”. È un retaggio del mio passato da reporter: devi essere in sintonia con chi fotografi, anticipare di una frazione di secondo il momento perfetto. Non puoi chiedere di ripetere — non con questi movimenti così naturali per loro, ma innaturali nel contesto in cui li abbiamo ricreati.

Quindi un livello di concentrazione pari quasi a quello della gara...
Sì, e poi c’era il caldo, l’aria ferma… un’energia incredibile. 

È un progetto di qualche anno fa, nato su commissione per un magazine. Se le arrivasse oggi una commessa simile, la affronterebbe in modo diverso?
No, credo di no. Tornerei in quel deserto, alla ricerca di quella sospensione. Il deserto per me non è un luogo, ma una luce, una condizione dello sguardo. È libertà assoluta: nessun ostacolo, nessun limite. E quella libertà la ritrovo nei soggetti, in loro come in me. 

In queste, come in tutte le sue foto non ci sono mai trucchi digitali o artifici…
Mai. Sarebbe un tradimento. Quelle immagini parlano della libertà umana di superare i propri limiti. Renderlo artificiale sarebbe negarlo.

© Mart Rovereto, Jacopo Salvi, 2025

Lei è anche molto noto per i suoi ritratti, anche di personaggi noti. Come si crea “l’attimo” quando non c’è movimento del corpo, ma solo un volto?
Il ritratto è sempre un incontro tra due presenze: il fotografo e il soggetto. La percentuale di ciascuno determina la verità dell’immagine. Io cerco di fotografare l’altro, non me stesso. Voglio che emerga ciò che quella persona mi trasmette, non ciò che io voglio imporle.

Spesso ha dichiarato che i personaggi famosi che ritrae sono “veri”. In cosa sta questa verità?
Nella relazione. Le persone famose, quelle autentiche, non cambiano in funzione dell’altro. Sono gli altri che cambiano davanti a loro. Io no: li tratto come chiunque altro, e loro lo sentono. È questo che permette la verità di uno scatto. 

C’è differenza tra ritrarre un volto noto e uno sconosciuto?
Io tratto tutti come incontri nuovi. Anche una persona famosa, davanti all’obiettivo, è qualcuno da scoprire. Paradossalmente, è più difficile quando la conosco bene: la spontaneità si perde. Prendiamo Sting, per esempio, l’ho fotografato tantissime volte. Ma una volta mi hanno chiesto uno scatto in cui si vedessero davvero i suoi occhi (se ci fate caso, quasi mai si vedono, nei suoi ritratti…) — ed è lì che ho ritrovato l’emozione dell'incontro. Quella foto oggi tappezza Parigi per promuovere il musical The Last Ship, e finalmente gli occhi di Sting sono davvero in primo piano.

Come si comporta con chi fotografa per la prima volta?
Non dico niente. Nessuna istruzione, nessuna chiacchiera per mettere il soggetto a proprio agio. Il silenzio è importante: parlare porta tutto “alla testa”. Io voglio restare nel cuore, nell’intuito. Quando dico al soggetto “faccio una prova luce”, spesso quella è già la foto buona. 

Quindi la sua è una fotografia intuitiva, più che razionale.
Intuitiva e istintiva. L’istinto appartiene alla natura, ma l’intuito è conoscenza prima del pensiero. È ciò che ti fa scattare prima di capire perché.

 La sua carriera è iniziata quasi per caso, vero?
Sì, ho scattato una foto per un amico, non per me. Poi qualcuno mi ha pagato per quella foto, e ho capito che poteva diventare un mestiere. Avevo solo 17 anni, e il mio futuro era già deciso. 

Lei lavora molto su committenza. Potrebbe apparire una modalità limitante. È così?
Assolutamente no. Il limite è la prima forma di creazione. Senza limiti non c’è arte. Il pittore sceglie la tela, il pugile il ring, il corridore la pista. L’artista crea i propri limiti, o impara a rispettare quelli che gli vengono dati. È lì che si misura la libertà.

Chiudiamo tornando alla mostra al Mart. Cosa l’ha colpita in particolare, questa volta con l’occhio “da spettatore”?
Ciò che mi ha colpito di più è stata la natura profondamente personale delle emozioni che questa mostra riesce a suscitare. Le mie, devo ammetterlo, sono state del tutto sorprendenti. Fin dall’ingresso, dove un primo testo ricorda come il corpo sia stato interpretato da grandi artisti – da Boccioni a Severini, da Canova a Ferri – ho provato un vero momento di smarrimento. È una mostra che guarda il corpo in modo puro, mai pruriginoso. Il corpo sportivo è lavorato, sì, ma è anche autentico. È la forma visibile della disciplina, della dedizione. Quando il corpo è vissuto così, anche nudo, diventa semplicemente naturale.
Poi, entrando nella prima sala, l’impatto è stato ancora più forte: una sorta di calamità interiore, qualcosa di profondamente emotivo. Le immagini viste di profilo, quelle di Mimmo Jodice, mi hanno immediatamente catturato. Jodice, scomparso da poco, sembra quasi riemergere attraverso questa mostra grazie alle fotografie straordinarie scattate a Villa dei Papi a Ercolano. Invito davvero a non attraversarle in fretta: la sua interpretazione della luce e delle ombre è stupefacente, e riesce a restituire vita e sguardo alle statue e ai bronzi ritratti. Sono opere che non si dimenticano facilmente. 

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Tags

sport, mart, Fabrizio Ferri, milano cortina
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