Intervista al fotografo Nicolas Polli, in residenza al Parkhotel Mondschein, per realizzare un libro fotografico tra sogno e realtà
© Nicolas Polli
© Nicolas Polli
Ci sono luoghi che non si limitano a ospitare: ti assorbono, ti osservano, ti restituiscono a te stesso con una luce diversa. Il Parkhotel Mondschein di Bolzano è uno di questi. Tra palme e montagne, tra la calma dell’architettura storica e la vitalità del paesaggio, il fotografo svizzero Nicolas Polli ha vissuto una residenza artistica che è diventata un sogno a occhi aperti. Da quell’esperienza è nato il volume (edito da Ciao Press, casa editrice di cui Polli è fondatore e stampato da Longo) Where Moonlight Shadow Palm Trees, You Will Dream of Apple and Grapes — un titolo che è già una poesia, o forse un incantesimo.
Nel corso di ventisette giorni, Polli ha abitato l’hotel come un organismo vivente: ha fotografato il suo respiro, i suoi silenzi, la sua quotidiana imperfezione. Le sue immagini non descrivono, evocano; non documentano, ma trasformano. Stanze in ordine che si scompongono, oggetti che diventano sculture, frammenti di luce che si fanno racconto. Il libro che ne è nato è un attraversamento sensoriale tra veglia e sogno, una riflessione sulla bellezza dell’impermanenza e sul confine — sempre labile — tra naturale e artificiale, realtà e finzione.
Abbiamo incontrato Nicolas Polli per ripercorrere insieme questo viaggio, tra ombre lunari, alberi di palma e il profumo delle mele: una conversazione sospesa, come un risveglio che non vuole ancora finire.
Nicolas, come è nato questo progetto editoriale così particolare?
Tutto è iniziato con un invito di Jasmine Deporta e Moritz Dissertori a trascorrere una residenza artistica qui, al Parkhotel Mondschein, nell’autunno del 2024. Avevo a disposizione una settimana e mi era stato detto di prendermi del tempo per rilassarmi, ma ho finito per fotografare giorno e notte. In pochi giorni ho realizzato una trentina di scatti. Successivamente, dopo un confronto con Jasmine e Moritz, abbiamo deciso di ampliare il progetto aggiungendo due ulteriori sessioni in primavera ed estate. Il libro è quindi il risultato di ventisette giorni di lavoro tra Bolzano e Lana: un racconto fotografico che nasce dal dialogo tra territorio, hotel e immaginazione.
Il tuo libro colpisce anche per le scelte editoriali: niente foto in copertina, nessun testo introduttivo, solo brevi frasi poetiche. Come hai costruito questo equilibrio?
Ho voluto che il libro fosse come un sogno, un viaggio notturno all’interno del Mondschein. “Moonlight” e “shadow” evocano proprio quella dimensione di fantasia. Non c’è un testo introduttivo perché non volevo dare istruzioni di lettura: desideravo che ogni “lettore” potesse perdersi, come accade nei sogni. La copertina con l’uva e le mele nasce invece dal contrasto tra tradizione e trasformazione, tra ciò che è locale e ciò che si reinventa. È anche un riferimento al paesaggio altoatesino, dove elementi mediterranei e alpini convivono.
Il contrasto è un tema centrale, anche visivamente: interni ed esterni, natura e artificio. Come hai lavorato sulla relazione tra il paesaggio e lo spazio dell’hotel?
L’hotel è immerso nel verde pur essendo in città. Da questa tensione è nato tutto: l’idea che la natura e l’architettura convivano, che il dentro e il fuori non siano opposti ma complementari. Le immagini esterne, tutte scattate nel raggio di venti minuti, introducono quella continuità tra il territorio e l’esperienza dell’hotel. È un modo per mostrare come anche un luogo urbano possa essere profondamente connesso alla natura.
Entriamo allora “dentro”. Le tue immagini raccontano la vita d’albergo, ma lo fanno ribaltando completamente la prospettiva: disordine, oggetti spostati, stanze vissute. È come se tu avessi scardinato la perfezione patinata tipica della fotografia d’hotel.
Esattamente. Volevo rompere quell’immagine levigata e controllata. Nelle mie stanze non è entrato nessuno per settimane: costruivo set, lasciavo il caos, lavoravo anche di notte. L’hotel è pensato per essere ordinato, impeccabile; io ho cercato il contrario. Volevo creare un contrasto tra l’idea di perfezione e la realtà del vissuto, perché è nel disordine che spesso si rivela la poesia delle cose.
Il tuo modo di costruire le immagini è quasi scultoreo. È una cifra del tuo lavoro?
Sì, direi di sì. Mi interessa costruire “l’inconsueto”: partire da situazioni banali e trasformarle in qualcosa di nuovo. È un modo per ridare attenzione agli oggetti, alle cose che di solito non guardiamo. Le composizioni richiedono ore di preparazione: rifletto molto su luci e forme, poi costruisco intuitivamente. La prima sessione è stata puro caos creativo; nelle successive, invece, ho lavorato in modo più strutturato, progettando le scene e collaborando con lo staff dell’hotel.
Nel libro i testi si intrecciano con le immagini. È un approccio che usi spesso?
Sì, mi piace che le parole e le immagini danzino insieme. I testi non spiegano le foto, ma le accompagnano, aggiungendo un’altra voce. Come nei sogni, le frasi sono frammentarie, intime, evocative: aiutano a entrare in uno spazio emotivo diverso.
Parliamo della notte. È un tempo molto presente nel tuo racconto. Che tipo di esperienza è stata?
Di notte tutto cambia. Non ci sono email, rumori o distrazioni. Ho lavorato molto con la luce artificiale, controllando ogni dettaglio. Per alcune immagini ho dovuto persino studiare i turni del personale, per sapere quando muovermi senza disturbare. La notte è diventata il mio giorno creativo.
E di giorno? Ti sei inserito nella vita quotidiana dell’hotel come una presenza “invisibile”?
Esatto. Vivevo l’hotel come un ospite qualunque, ma osservavo e fotografavo nei momenti più inattesi: durante la colazione, la cena, o quando la sala era vuota. A volte gli altri ospiti mi guardavano incuriositi: vedevano un tavolo pieno di flash e uccellini che venivano a mangiare. È stato un modo di abitare davvero il luogo, seguendone i ritmi.
Questa dimensione onirica di cui parlavi — il sogno, il risveglio, il check-in, il check-out — è una metafora molto bella. Ti appartiene anche come approccio alla vita e al lavoro?
Credo di sì. Gli hotel sono come sogni temporanei: viviamo esperienze intense, sospese, e poi dobbiamo svegliarci, ripartire, dimenticare. Il libro finisce proprio con l’idea del “check-out”, del ritorno alla realtà. È una metafora che mi accompagna anche nel mio modo di lavorare: entro in un mondo, lo vivo, poi ne esco e ne porto via un ricordo visivo.
Tu lavori anche nel mondo della moda. Come si intrecciano questi universi?
In realtà trovo la moda un mondo quasi incomprensibile, ma stimolante. Mi chiamano per fare immagini “inusuali”, che costruiscono immaginari più che prodotti. Anche lì cerco di evitare l’ovvio. Non fotografo quasi mai persone: preferisco una zucchina a un essere umano (ride). Lo still life mi permette di esplorare la forma pura, la materia, e forse di parlare più liberamente.
In questo libro però compaiono animali — uccellini, lumache…
Le lumache sono una mia ossessione (ride). Le porto sempre con me: le fotografo e poi le libero in un altro giardino. Sono il mio modo di inserire vita nelle immagini, senza dover ricorrere alla figura umana.
C’è un momento del progetto che ricordi con particolare affetto?
Sì, quando ho chiesto al personale dell’hotel di darmi dei piatti sporchi. Pensavano avessi sbagliato richiesta, e mi hanno portato quelli puliti! Poi, capito cosa intendevo, mi hanno dato ciò che cercavo. È stato un piccolo momento di magia, e da lì è nata una delle immagini più belle del libro.