Scatti disincantati per ricucire lo strappo con la natura

Fotografare le Alpi #6. Intervista a Roberta Segata

© Roberta Segata

Roberta Segata, fotografa trentina di 49 anni originaria della Val di Fiemme, condensa nei suoi scatti artistici una sensibilità che è lo specchio del suo vissuto. Cresciuta in un ambiente che le ha sempre permesso di esplorare la bellezza della natura, la sua formazione è stata duplice: una laurea in pittura all’Accademia di Belle Arti e una specializzazione in danza alla Royal Academy of Dancing. Per gran parte della sua vita Roberta è stata danzatrice, lavorando nel campo del teatro danza e coltivando la sua passione per le arti figurative. La sua vita ha subito una virata drammatica poco prima dei trent’anni, quando le è stata diagnosticata la malattia che le ha impedito di continuare a danzare. Da quel momento ha trovato nella fotografia lo strumento per rimanere in scena, utilizzando il suo corpo per narrare storie con al centro la sua figura fisica e l’ambiente. 

Legata al territorio montano da una profonda connessione, l’artista racconta di una relazione che affonda le radici nell’infanzia: “Sono cresciuta come Heidi, la natura è sempre stata la mia prima casa, un luogo di libertà e scoperta”. Oggi le sue fotografie si concentrano sui paesaggi alpini, catturando l’essenza di boschi, fiumi e montagne con sguardo nuovo, disincantato. Il suo progetto “We Are Here” segna una svolta nella sua ricerca artistica, esplorando il complesso rapporto tra uomo e natura messo a dura prova dagli eventi naturali.

© Roberta Segata
About the authorSilvia M. C. SenetteSono stata una bambina “multipotenziale” ante litteram. Ora sono una donna “multicomunicativa”: giornalista per curiosità e per una [...] More
Roberta, come nasce questo progetto fotografico?
La mia vera avventura con la fotografia è iniziata dopo la tempesta Vaia, che ha profondamente segnato il mio territorio e ha cambiato totalmente la mia ricerca. Il giorno dopo quella catastrofe ho sentito il bisogno urgente di documentare ciò che era accaduto nella mia valle. Ero desiderosa di comprendere e testimoniare non solo il disastro, ma anche le storie delle persone che avevano in qualche modo contribuito a tutto questo. Le montagne che consideriamo selvagge e libere sono, in realtà, giardini coltivati secondo interessi economici, e la narrazione della montagna è spesso distorta.

Come si declina il tuo progetto alpino?
Dal punto di vista tecnico, mi sono immersa quotidianamente nei boschi, affidandomi ai forestali per capire come muovermi in questi spazi improvvisamente complessi e pericolosi. Ho cercato di conoscere il bosco addentrandomi nei luoghi devastati e catturando momenti che avessero senso nella narrazione. Non volevo documentare semplicemente il disastro con la vastità degli abbattimenti, ma piuttosto ritrarre alberi singoli in contesti di luce particolari per trasmettere la bellezza che permane anche nel dolore. Questo approccio mi ha portato a lavorare su una mostra che ha unito fotografie e installazioni inusuali, creando un’esperienza immersiva nel bosco e raccontando non solo la tragedia, ma anche la vita che continua a resistere.
© Roberta Segata

Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Nel progetto “We Are Here” ho scelto di non inserire figure umane in contesto paesaggistico; la natura è l’unico soggetto. Ogni foto rappresenta la ribellione della natura contro ciò che l’uomo tenta di imporle. Contestualmente ho realizzato ritratti di persone che vivono in simbiosi con il territorio, come i membri della Magnifica Comunità di Fiemme, che sono co-proprietari del bosco. Questa comunità vive la tragedia con profondo rispetto e dolore e ho potuto cogliere le emozioni contrastanti di chi dedica la propria vita alla cura del bosco. Le testimonianze sono state un viaggio tra lacrime e speranze, rivelando un legame intimo e profondo con la terra. 

We are here, © Roberta Segata

Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Il mio linguaggio visivo si distingue per una nota introspettiva e un’atmosfera cupa. C’è sempre un’ombra, una dimensione che invita a esplorare oltre la superficie. Questa profondità è alimentata dalla mia formazione pittorica e dalla mia continua ricerca di connessione con la natura, esprimendo non solo la bellezza, ma anche la fragilità dell’ambiente. Attraverso il mio lavoro voglio stimolare una riflessione sul nostro rapporto con la terra, invitando le persone a guardare oltre e a comprendere le complessità di un ecosistema in pericolo. 

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Le Alpi sono sempre state centrali nel mio lavoro. Anche nei progetti di natura commerciale o istituzionale c’è sempre una parte di bosco, di Alpi, di territorio montano. Mi sono resa conto, soprattutto dopo Vaia, che la figura umana ha cambiato il suo ruolo all’interno del mio lavoro. Prima, realizzavo molti autoscatti in cui cercavo un equilibrio – forse con me stessa, forse con l’essere umano in generale – tra la figura umana e la natura. Ma dopo Vaia, quel bilanciamento si è spezzato e non ci sono più io nei miei progetti; ora ci sono modelle, amiche, figure femminili, con un’unica eccezione: un ragazzo albino immerso nella neve. È come se fossi diventata una spettatrice, osservando e registrando la natura come soggetto principale, mentre l’essere umano diventa quasi un pretesto per raccontare il territorio e il disequilibrio tra uomo e ambiente generato dal modo in cui l’uomo piega la natura.

© Roberta Segata

Riconosci un’evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Inizialmente il mio lavoro si concentrava sull’utopia tra uomo e natura; è con Vaia che ho iniziato a esplorare il disequilibrio ponendo l’accento su aspetti politici, antropologici e culturali. Nei miei scatti c’è una cesura chiara, il mio lavoro artistico ha un pre-Vaia e un dopo-Vaia. Prima il mio obiettivo sondava l’aspetto “romantico” della relazione uomo-natura inserendo la mia figura corporea in composizioni improbabili, spaesanti, non convenzionali, sfruttando la mia preparazione atletica. Mi interessava il punto di contatto, di equilibrio. Ma quel fine settimana tra ottobre e novembre 2018 la montagna incantata è diventata disincantata: il giorno dopo sono uscita con la mia macchina fotografica e il mio punto di vista era già stravolto, trasformato.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l’arco alpino?
Intimo e delicato. C’è sempre un’estetica molto forte nei miei lavori: una scelta consapevole. Anche quando racconto la devastazione preferisco farlo con delicatezza, cercando un punto di vista che possa avvicinare lo spettatore. Spesso mi dicono che questo approccio è “troppo bello” per temi drammatici; credo sia il mio modo di raccontare le sfumature del territorio e dell’umanità. 

Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Questa ricerca mi ha resa più disincantata nei confronti della narrazione umana sulle Alpi. Ci raccontano la montagna in un certo modo, ma è un’immagine condizionata. Attraverso il mio lavoro ho imparato a conoscere la montagna per ciò che è veramente. La consapevolezza ha rotto un’illusione che forse avevo bisogno di abbandonare, ma mi ha portato a un amore ancora più profondo per il territorio, al desiderio di preservarlo. Mi sento più responsabile, sia come persona sia come artista, nel raccontare questa nuova visione brutale della montagna e del nostro ruolo in tutto questo. 

© Roberta Segata

Com’è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Se prima la vedevo come un’amica che mi accoglieva, oggi sono consapevole del lato oscuro e imprevedibile della montagna e del fatto che l’uomo non può controllarla, per quanto ci provi. Quando cammino nel bosco, accetto il rischio che la natura possa imporsi in modi inaspettati. La montagna mi affascina ancora, ma ora so che questa relazione richiede rispetto e una certa dose di paura.

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Ogni serie ha uno scatto che preferisco, tuttavia il mio scatto più rappresentativo è della serie “Afterdark”: una foto che mi ha fatto vincere parecchi premi all’inizio della mia carriera. È un autoscatto realizzato in Svezia, su una spiaggia in mezzo alla neve, in cui indosso una gonna bianca illuminata da una torcia. Un’immagine che continua a tornare nel mio percorso artistico; oggi, però, non mi ci riconosco: trovo che racconti un’illusione della natura che non mi appartiene più. La magia di quell’immagine forse non la colgo più, anche se continua a essere richiesta da gallerie e produzioni cinematografiche.

© Roberta Segata

Senti il desiderio di catturare un’immagine ancora mai scattata?
Ho molti progetti non ancora realizzati, disegnati nei miei quaderni. Uno dei miei sogni è di scattare nella cava di marmo di Lasa, un luogo che mi affascina esteticamente. Ora sto lavorando a un progetto su donne che stanno recuperando antichi mestieri legati alla montagna, come tassidermiste o liutaie: una riflessione sul ruolo femminile in territori tradizionalmente maschili. Ne vorrei realizzare un libro d’artista con ritratti di queste figure nel loro ambiente. È un progetto a cui tengo molto e che sento vicino, un modo per raccontare come queste donne si stiano riappropriando del loro ruolo nel territorio.

© Roberta Segata

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