Il femminismo di Brigitte Vasallo a Centrale Fies

A volte succede che accadano le cose che più desideriamo. Forse perché impariamo a focalizzarle bene. O forse perché attorno a noi esistono dei luoghi illuminati e illuminanti in grado d’intercettare i nostri desiderata.
Quel che è certo è che mai avrei creduto d’incontrare personalmente, in una calda domenica di luglio, uno dei miei miti nonché una delle mie pietre miliari del della divulgazione femminista: sto parlando di Brigitte Vasallo, scrittrice, attivista e femminista spagnola nota soprattutto per la sua critica all’islamofobia di genere, al purplewashing e all’omonazionalismo, nonché per la difesa del poliamore nelle relazioni affettive. Qualche giorno fa ho avuto l’onore (oltre che il piacere) di confrontarmi Brigitte a Centrale Fies, di parlare insieme di femminismo, di che cosa significa fare i conti con il proprio passato, di che cosa vuol dire studiare le epistemologie contadine e approcciarsi all’alterità.
Brigitte è titolare della cattedra Mercè Rodoreda di Studi Catalani presso l’Università di New York (CUNY), docente del Master in Genere e Comunicazione presso la UAB e ideatrice del 1° Festival della Cultura Txarnega a Barcellona. Senza studi universitari, è figlia di contadini di Chandrexa de Queixa esiliati dalla loro terra ed emigrati. Il suo lavoro ruota attorno ai meccanismi di costruzione dell’alterità, con particolare interesse per la differenza sessuale e la scomparsa delle epistemologie contadine. Come drammaturga, ha presentato Naxos, dramma in tre lamenti e un paio di atti, diretto da Gena Baamonde e appartenente alla prima fase della Trilogia di Naxos, e Un cos (possible) i lesbià, sull’opera di Monique Wittig, co-diretto insieme all’artista visiva Alba G. Corral. La sua produzione letteraria comprende romanzi come PornoBurka, saggi come Pensamiento Monógamo, Terror Poliamoroso o Lenguaje inclusivo y exclusión de clase, e poesie narrative come Tríptico del silencio, pubblicate contemporaneamente in tre diverse versioni nelle sue tre lingue madri.
Brigitte, vorrei chiederti come prima cosa come da dove inizia il tuo percorso di ricerca intorno al femminismo. C’è un fatto o qualcosa che ti ha spinta a dedicarti a questi temi?
Mi sono avvicinata al femminismo per una vicenda familiare nel senso che sono scappata dalla Spagna a causa di mio padre (vivevo una situazione di violenza); per tale ragione mi sono rifugiata in Marocco. Volevo andare lontano, desideravo sentirmi al sicuro. È così che sono approdata al femminismo europeo, da cui però mi sono allontanata velocemente per la presenza dei discorsi legati all’islamofobia. Per me che abitavo in Marocco non aveva senso una liberazione di questo tipo, una liberazione che contemplava solo una parte del mondo. Diversi anni dopo molte femministe musulmane vennero a cercarmi per dialogare (con mio grande stupore perché non mi sentivo né musulmana né femminista!), per cercare un confronto con me dal momento che ero un’attivista contro l’islamofobia. Da qui ho cominciato ad avvicinarmi al femminismo post coloniale che mi ha dato la possibilità di trovare la mia linea, un percorso che fosse logico e coerente con me e il mio pensiero.
Quindi che cos’è per te il femminismo e che cosa rappresenta?
Non un’identità, ma un movimento sociale. Il femminismo per me è soprattutto uno strumento, un utensile: non una materia o un tema ma un mezzo per pensare e analizzare il mondo, facendo pace col fatto che talvolta questo sguardo può funzionare e talvolta no. E quando non funziona è necessario ricercare un altro paio di lenti per guardare il mondo.
Il tipo di femminismo che tu utilizzi è intersezionale…
Sì. Il mio femminismo è non essenzialista. Non mi occupo (anzi, potrei dire ‘non pratico’) un femminismo di genere, ma un femminismo della vita, della violenza (che passa per il genere ma che non è di genere).
Ci sono dei temi della ricerca che per te sono particolarmente cari? Penso ai tuoi lavori sul linguaggio ampio o agli studi sulle relazioni come riflesso delle strutture culturali e sociali del contesto in cui abitiamo.
L’aspetto che più m’interessa investigare è il lavoro sull’alterità, su tutti quei processi per cui diciamo e affermiamo ‘noi siamo noi’ così da comportare il generarsi degli altri. Io cerco di studiare quel il tipo di rapporto che si crea lungo il confine che mettiamo tra noi e il resto del mondo. Forse perché sono stata “l’altra” molte volte nella mia vita o perché come collettivo spesso abbiamo messo in discussione cosa è altro e cosa non lo è. Potrei dire che quest’aspetto dell’alterità caratterizza da sempre tutta la mia opera e rappresenta una sua linea di continuità.
Al momento ti stai occupando di epistemologie contadine. Di che ricerca di stratta?
Sto lavorando da molti anni della scomparsa del mondo contadino nel sud dell’Europa. Io sono figlia di contadini e la mia ricerca parte proprio dalla Spagna, dalla mia genealogia per tentare di capire in primis chi sono io per poi ricondurre tutto questo anche alla società e alla sua storia. Quando sono venuta in Italia, all’Accademia di Spagna, ero alla ricerca di uno specchio, cioè di una realtà che potesse aiutarmi a comprendere e a confrontare quello che era accaduto nel mio paese. In Spagna infatti sono scomparse le ontologie contadine preindustriali dalla memoria collettiva dello Stato spagnolo dopo il cosiddetto Miracolo Economico degli anni Cinquanta, in cui si intersecano il discorso celebrativo del capitalismo liberale e il silenzio forzato del franchismo. L’Italia è l’unico Paese dell’Europa meridionale che ha vissuto lo stesso processo della Spagna, nello stesso periodo, ma che non era sotto dittatura. Lo specchio italiano permette quindi di delimitare quali parti del miracolo e della sua narrazione sono state consustanziali alle politiche franchiste e quali al capitalismo. Allo stesso tempo, consente di tracciare quali differenze rimaste nella memoria e nell’autorappresentazione delle e dei discendenti di quella diaspora, tra quelli che subirono la censura franchista e quelli che, invece, poterono osservare e analizzare, in tempo reale, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica. Questa ricerca la sto portando avanti viaggiando da nord a sud del paese e praticando dei laboratori di memoria contadina. L’obiettivo è anche quello di produrre della “letteratura per non lettori” tenendo sempre a mente che quando siamo arrivati alle città eravamo persone non alfabetizzate e che possedevamo solo la cultura orale. Per questo nel mio approccio convive sempre la teatralità, una zona diffusa che valorizza la memoria contadina mutante e che vuole rompere la verticalità.
Un’ultima domanda. Che cosa rappresenta per te Centrale Fies?
Il patrimonio industriale m’interessa moltissimo. Fies è uno spazio che mi fa sentire a casa: la mia genealogia passa per qui, passa attraverso persone che hanno lavorato in spazi come questa Centrale. È così che in luogo come questo respiro un’aria che sa di famiglia.
A questo punto, dopo il femminismo di Vasallo, non mi resta rammentarvi che Centrale Fies riapre il weekend del 26 e 27 luglio con FEMINIST FUTURES, a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta. Il programma, creato all’interno di un importante network europeo, apap – advancing performing arts project, sperimenta e diffonde pratiche orizzontali e inclusive ispirate al pensiero del femminismo intersezionale con Adenike Oladosu, Aïsha Devi, Anne Lise Le Gac, Chiara Bersani, Crème Solaire, Erna Ómarsdóttir, Muna Mussie e Massimo Carozzi, No Plexus, Rifugio Amore, Sofia Jernberg, Zia Soares e Nina Ferrante.
Photo credits: Centrale Fies, Brigitte Vasallo, photo credits Alessandro Sala, CESURA, courtesy Centrale Fies