Il vichingo e l’eccentrico: riflessioni sulla musica colta di adesso

Niente baffoni né barba folta. Niente ascia o idromele. Il pianista islandese (errata corrige non norvegese!) Vikingur Olafsson si maschera sotto l’aspetto di un normalissimo alto fanciullo biondo con gli occhiali.
E il suo pianismo non è di certo barbarico, anzi.
Nel concerto tenutosi domenica 26 mattina al Museion è stata offerta un’occasione di ascoltare musica in una maniera differente. Sicuramente non è stata la solita esperienza del concerto, anche se ci si poteva aspettare qualcosa di molto più particolare. I brani erano inframezzati da registrazioni di interviste fatte a Glenn Gould, il grande e anticonformista pianista dello scorso secolo, comodamente scritte e tradotte sul programma di sala, dichiarazioni che mi hanno stimolato a pensare durante l’intera performance. Si può dire che sia stato un concerto in cui oltre all’ascolto dei pochi ma raffinati brani eseguiti da Olafsson attingendo dal repertorio preferito di Gould, un’importante parte sia stata lasciata al pensiero del singolo ascoltatore, libero di vagare sopra le non sempre condivisibili, ma quanto meno provocatorie dichiarazioni dell’eccentrico Glenn Gould.
Nonostante non ci sia stato un vero e proprio dialogo con il defunto pianista, Vikingur Olafsson ha reso un grande tributo, sottoponendosi anche al rischio di vedere comparate tutte le sue esecuzioni con quelle di Gould. In ogni caso bisogna notare che l’atmosfera del Museion (e la frizzante aria mattutina, quando ancora il caldo non affligge l’ascoltatore e un concerto non diventa uno strazio se non funziona l’aria condizionata) hanno ampiamente favorito le riflessioni.
D’altronde trovandosi di fronte alle frasi di Glenn Gould è difficile non iniziare a pensare. Fosse anche solo perché mostrano in alcuni casi delle contraddizioni, come quando sostiene che compositore, interprete e pubblico si sono separati e isolati e devono tornare ad un rapporto cosmico e poi in un’altra citazione afferma di disprezzare e odiare selvaggiamente ogni genere di pubblico, anzi, l’idea stessa del pubblico!
Quando tuttavia sostiene che, cito, “si imbrogli quando si dà un concerto; non si esplora repertorio nuovo, ma si suonano gli stessi vecchi brani stanchi, già testati sul proprio pubblico” Gould colpisce uno dei punti fondamentali dell’arenarsi della musica classica di oggi. Si sa, una volta l’esecutore, eccetto occasioni o commemorazioni, si perfezionava ed eseguiva in concerto quasi unicamente repertorio che egli stesso componeva. Col tempo l’immenso e spettacolare patrimonio tramandatoci ha acquisito un fascino che è impossibile ignorare, vedendo crescere costantemente d’importanza musicisti che si limitassero, anche se non è affatto una limitazione, a perfezionarsi sull’esecuzione. Mi è capitato spesso di pensarci sopra e la frase di Gould mi ha lasciato immerso in una nuova riflessione durante le Partite in sol maggiore e in mi minore di Bach.
Non ho la minima intenzione di criticare la figura dell’interprete a tempo pieno. Esso ha consentito un perfezionarsi non solo delle esecuzioni, ma anche della musica eseguita, che teneva in conto non più solo le capacità del compositore, bensì anche e soprattutto quelle di un esecutore ideale, dalla tecnica ben formata e dall’acutezza musicale necessaria. Non è stato più necessario scendere a patti in caso di difficoltà personali, la musica poteva essere slegata da se stessi. Diventava più assoluta.
Tuttavia la tendenza di eseguire musiche nuove e musiche passate, evolutasi soprattutto all’inizio del ‘900, in un singolo concerto è andata lentamente scemando. I grandi pianisti del passato eseguivano tanto i classici quanto i compositori a loro contemporanei oppure appena deceduti.
Certo mi si potrà dire che i compositori a loro contemporanei erano Prokof’ev, Ravel, Debussy, Rachmaninov, Busoni, Strauss e chi più ne ha più ne metta.
Ma razionalmente mi rifiuto di pensare che in quell’epoca nascessero più geni rispetto a questa. Reputo invece più probabile che sia cambiata la concezione della musica classica. Glenn Gould aveva ragione a criticare un costante restringersi all’interpretazione di brani ormai antichi, questo ha di fatto confinato la musica classica ad ambiente raffinato, in cui le più sottili sfumature possono essere colte solo dagli esperti e in generale l’intera produzione artistica sembra ad occhi esterni monotona e ripetitiva. Quante volte mi sono sentito dire “ma sono sempre le stesse note!”
Se nello scorso secolo gran parte dei programmi dava voce all’arte dei compositori di quel tempo, al giorno d’oggi i concerti che racchiudano al loro interno musica contemporanea sono rarissimi e solitamente riservati ai soli addetti ai lavori. La musica classica di adesso non riesce a cogliere adepti spesso e volentieri nemmeno fra i conservatori, figuriamoci fra il resto della popolazione. Si è allontanata totalmente dal pubblico, tornando praticamente ai livelli della musica riservata ai soli intellettuali e non comprensibile dai non esperti. Il rifiuto di scadere nel commerciale e di soddisfare ogni bisogno di un pubblico pigro ha spinto la musica nella direzione opposta, verso il totale disprezzo del pubblico, oppure verso la necessità di stupire e provocare costantemente, rinunciando alla piacevolezza musicale che, persino in un provocatore nato come Prokof’ev, non cade mai in secondo piano. E brani come i Sarcasmi op.17 sono nati con l’esatto intento di osare e provocare un auditorio!
Il pensiero continuava a tormentarmi, tanto che dopo il concerto mi sono trovato a discutere con una concorrente delle preselezioni, Darya Dadykina, presente al concerto, cercando insieme di raggiungere una soluzione, illudendoci che attraverso un continuo scavare si potesse trovare una soluzione, si potesse riportare la musica colta a qualcosa di più che innumerevoli interpretazioni, a qualcosa che possa raffigurare il tempo in cui viene creata, i pensieri e gli stili tipici di un periodo. Forse siamo così immersi nel nostro tempo da non essere in grado di comprenderli, tuttavia continuo a sperare che sia possibile riportare la musica colta ad una musica nuova, che tiene ben salde le proprie radici nel passato, ma che compone musica adesso, musica che chiunque sia dotato di una sensibilità raffinata possa comprendere. Non si tratta di svilire la musica colta, anzi! Ma un animo sufficientemente sensibile apprezza un Bach, apprezza uno Chopin, apprezza un Mahler e arriva ad apprezzare anche uno Schönberg (mmm…), che non riesca ad apprezzare musica composta adesso dovrebbe pur significare qualcosa. Non ritengo sia solo una questione di abitudine, ritengo che sia proprio un rifiuto del compromesso che permette ad un ascoltatore di avvicinarsi ad una musica moderna e diversa e alla musica di accettare l’ascoltatore come proprio motivo d’esistenza. Bisognerebbe forse trovare una nuova via? Oppure la musica colta del presente esiste già e non è quella che viene eseguita obbligatoriamente al Busoni o commissionata dall’Orchestra Haydn, ma ancora non ce ne siamo resi conto? Che percorso imboccherà nel futuro, cosa di questo turbinoso tempo rimarrà?
Troppe domande, facile criticare la musica di adesso e gridare “alla rivoluzione” senza idee concrete!
Dovrei iniziare a studiare composizione.
Foto Gregor Khuen Belasi