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March 2, 2012
Rimusicazioni al Cineforum, la visione di Emanuele Zottino
Marco Bassetti
Questa sera, venerdì 2 marzo alle 21, presso la Sala Videodrome in via Roen a Bolzano, si assisterà ad un programma variegato, nell’ambito della rassegna Rimusicazioni in collaborazione con il Cineforum Bolzano. In programma due film dell’epoca del muto musicati dal vivo dal gruppo bolzanino Controfase e da Massimo Zamboni, ex chitarrista dei CCCP. Sarà anche l’occasione per ascoltare dal vivo brani tratti dal cd, recentemente registrato dai Controfase, “Rispettabili criminali e comuni mortali”, in cui il flusso musicale del combo bolzanino incontra le parole e la voce di Pietro Frigato, ricercatore di economia politica e saggista. Abbiamo scambiato due parole con Emanuele Zottino, anima insieme ad Andrea Beggio del progetto Controfase, nato nel 2004 all’incrocio tra diverse esperienze, tra rock, sperimentazione, improvvisazione ed elettronica.
In cosa consiste la sottile arte della “rimusicazione”? Non si tratta di collone sonore ma…?
Comporre per film muti è un lavoro molto creativo, ma anche delicato. Di solito nel mondo del cinema o del video in generale il musicista e l’autore della parte visiva collaborano e normalmente è il regista a impostare il lavoro del compositore. Nel caso di una musicazione di un film muto, di fatto il musicista ha a che fare col prodotto di un artista morto, che quindi non ti impone un bel niente, non può entusiasmarsi di quello che fai, né può censurarti. È invece col film che devi dialogare, cercando di rispettarne quella che secondo te è l’anima più intensa. E lo fai rischiando, giocando in bilico tra la tua espressione creativa e il timore di rovinare un capolavoro. Partendo dal fatto che il modo peggiore per rovinare un capolavoro sia quello di aver paura di fare delle scelte compositive personali, allora ti lanci e cerchi di dare il tuo contributo creativo al servizio di quelle vecchie immagini. Con rispetto e coraggio insieme.
Come lavorate concretamente, qual’è il vostro approccio? Avete fatto uno studio preliminare sui film prima dell’esibizione? E poi?
Andrea Beggio è di solito il primo che ci propone la musicazione di un film muto. E la scelta del film non è poco, perchè l’arte cinematografica di quel tempo spaziava veramente a 360 gradi. Quindi lo guardiamo più volte insieme, cercando di dimenticarci di essere musicisti, per godercelo da spettatori e basta. Poi inizia il lavoro di analisi della struttura, e dove è possibile segmentare il film, se funziona, lo facciamo. Così é accaduto per “La perle”. Ma diciamo che quello che più ci interessa è creare un dialogo non scontato tra il visivo e il sonoro. La musica in questo caso non dovrebbe fungere da commento o da sostegno, ma aggiungere qualcosa di diverso, che combinato con le immagini produce qualcosa di ancora diverso dalla semplice somma dei due elementi. Come dire, il risultato più riuscito è 1+1=3! Seguendo questo metodo di non allinearci in modo diretto alle immagini, abbiamo adoperato spesso una composizione già esistente. Con nostro grande stupore il gioco ha funzionato!
Diverso il discorso su “Rispettabili criminali e comuni mortali”, in cui la musica non si intreccia con le immagini, ma intrattiene un rapporto con le parole. Qual è il metodo adottato in questa esperienza?
Posso dire intanto che siamo orgogliosi di “Rispettabili criminali e comuni mortali”? Lo consideriamo, almeno per noi, un lavoro urgente e necessario, molto collettivo, in cui ciascuno ha dato qualcosa di unico. I nostri singoli contributi sono semplici, diciamo un po’ poveri, se presi singolarmente, ma preziosi se combinati insieme. Rispondendo alla tua domanda sul rapporto tra parole e musiche, anche se è per noi la sfida più importante di questo progetto, non ci dà tanto da lavorare. Avviene in automatico, non dobbiamo quasi mai intervenire per aggiustare qualcosa. Nel caso ad esempio di “Diario postumo di un lavoratore flessibile”, è stata composta prima la musica da me e da Andrea, che il quale ha poi suggerito a Pietro Frigato di comporre un testo sul mondo del lavoro, negandogli la possibilità di ascoltare prima il pezzo. La prima volta che abbiamo tutti insieme sentito l’accostamento delle due cose è stata la prima volta che abbiamo eseguito quel pezzo dal vivo, al festival Undefined di Merano. Pietro ci avvisò soltanto che per l’occasione, anzichè comporre, aveva deciso di usare un articolo di Luciano Gallino apparso su “La Repubblica”. Quella è la versione definitiva che il brano ha anche nel cd. Penso che questo possa accadere perchè noi tutti, anche a distanza, percorriamo binari paralleli. Le parole denunciano qualcosa, e lo fanno in modo diretto, forte, rabbioso, amaro, talvolta ironico e onirico. Le musiche è come se prendessero atto di questo disincanto, combinando malinconia a rabbia, aggiungendoci se vogliamo un po’ di trasporto emozionale, fatto di ritmi martellanti, di armonie suadenti, di sonorità basate sul contrasto tra cose morbide e cose ruvide.
“Love will tear us apart” (ultima traccia dell’album), i Joy Division… gli anni ’80, ancora loro, che si ripropongono con forza da ogni parte. Ancora una dimostrazione che in quel decennio sono stati gettati semi in gran copia, molti di più di quanti si eri disposti a credere… Che ricordo hai di quegli anni a livello musicale?
Ti do perfettamente ragione, gli anni Ottanta sono stati molto creativi. Io li ho vissuti come un periodo in cui ti dovevi schierare, o stavi dalla parte del pop o ti dedicavi alla musica alternativa, quando all’epoca aveva un senso parlare di “alternativo”. E i Joy Division rappresentavano il lato più malinconico degli anni Ottanta. Li ho sempre visti come dei dark non allineati neppure alla moda dark. Basta osservare le loro copertine minimal-neoclassiche per rendersi conto della loro libertà creativa, della loro antitesi alle mode e all’euforia collettiva. Forse per questo ci piace riproporre oggi uno dei loro pezzi più famosi.
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