Rituali di fumo per il ritorno della luce

© E. Lamy
Nelle Alpi, quando l’inverno si chiude come una porta pesante e il sole scende così in basso da sembrare smarrito, accade qualcosa che non ha a che fare con il calendario.
Accade al tempo.
Le montagne lo sanno. Lo sanno le rocce, i boschi, gli animali che smettono di muoversi inutilmente. Lo sanno anche le donne, soprattutto quelle che vivono dove la neve non è decorazione ma presenza, e il buio non è paura ma spazio.
È il 21 dicembre, il solstizio d’inverno: la notte più lunga dell’anno. La notte in cui il sole tocca il fondo del cielo e poi, impercettibilmente, comincia a tornare. Non si vede, ma si sente. Come un respiro che riparte.
Questa notte non è solo una notte. È una soglia.
Da qui iniziano le Raunächte, le ruvide notti fumose, tredici notti che non appartengono né all’anno vecchio né a quello nuovo. Notti fuori dal tempo, come le creste alte, dove il sentiero non è segnato e bisogna camminare con attenzione.
Si chiamano “ruvide” perché sfregano l’anima.
Si chiamano “fumose” perché il fumo è la loro lingua.
In queste notti cammina Holda.
Non come una figura da libro, ma come una presenza che passa. È la Signora della Neve e del Riposo, colei che governa ciò che deve fermarsi perché qualcosa possa nascere. Dove passa Holda, il superfluo cade, come neve scossa da un ramo.
Le donne delle Alpi sanno che, in questo tempo, non si inizia nulla di nuovo. Non si forza. Non si decide. Si sta. Si osserva. Si ascolta.
E si fumiga.
La fumigazione non è magia nel senso rumoroso del termine. È un gesto antico e semplice: si accende un carbone, si depongono sopra parti di piante -resine, erbe, radici- e si lascia che il calore liberi ciò che la pianta custodiva. Gli oli salgono nell’aria, entrano negli spazi, si posano sulle pareti, sugli animali, sulle persone.
Il fumo non scaccia con violenza.
Rivela.
Nella notte del solstizio, sul carbone si posa resina di pino o di abete. È il primo gesto. La resina è la linfa solidificata, la memoria dell’albero. Bruciandola, si chiede alla casa e al corpo di ricordare chi sono.
Questa è la prima notte, la notte della radice. Tutto ciò che verrà è già lì, come l’anno intero nascosto in un seme.
Nella seconda notte, quando il buio è ancora fitto, si bruciano angelica e lavanda. L’aria si fa più gentile. È la notte della voce interiore: quella che parla solo se nessuna la sovrasta. Holda ascolta insieme alle donne.
Nella terza notte, il fumo di sambuco si mescola al gelo. È la notte dell’apertura del cuore. Nei sogni compaiono immagini strane, semplici, luminose. È marzo che si annuncia.
Nella quarta notte, l’aria si fa aspra. Si brucia assenzio. È la notte del rilascio: ciò che blocca, ciò che pesa, ciò che non è più vero comincia a sciogliersi. Holda passa come vento di cresta.
Nella quinta notte, salvia e vischio intrecciano l’aria. È la notte dell’amicizia, dei legami che reggono anche nel gelo. Le montagne ricordano che nessuna vetta si attraversa da sole.
Nella sesta notte, la barba di bosco purifica. È una notte profonda, acquosa. Si dice che Holda lavi il mondo con neve invisibile. Gli animali dormono tranquilli.
Nella settima notte, i semi di frassino scoppiettano sul carbone. È una notte di preparazione. Non si sa ancora cosa verrà, ma ci si dispone. Come prima di una salita.
L’ottava notte è diversa. Non si brucia nulla. È il passaggio tra un anno e l’altro. Il tempo trattiene il fiato. Holda ferma il mondo per un istante, perché il nuovo possa entrare senza essere spaventato.
Nella nona notte, l’alloro benedice. È una notte di saggezza. Nei sogni compaiono guide, antenate, figure silenziose.
Nella decima notte, artemisia e achillea aprono visioni. È una notte di collegamenti sottili. Settembre si disegna come una mappa ancora bianca.
Nell’undicesima notte, l’assenzio ritorna. È il congedo. Si saluta ciò che è stato, senza rancore. Come si lascia una valle prima di salire.
Nella dodicesima notte, salvia e resina proteggono. Si fumigano le stalle, gli animali, le soglie. Nulla è escluso: nelle Alpi, ogni vita conta.
Poi arriva la tredicesima notte.
La notte di Holda.
È la più potente, la più densa. Si dice che in questa notte non si debba uscire. Il confine tra i mondi è sottile come ghiaccio nuovo. Sul carbone bruciano vischio, pino e lavanda insieme. Il fumo è spesso, vivo.
Holda passa.
Ciò che non è autentico trema.
Ciò che è vero viene benedetto.
All’alba dell’Epifania, il tempo riprende a scorrere. Holda si ritira nei passi alti, ma lascia tracce: nei sogni, nei mesi, nella luce che cresce piano.
Chi ha attraversato le ruvide notti fumose sa una cosa semplice e difficile:
che l’anno non si comincia facendo, ma ascoltando.
E che, almeno una volta all’anno, il gesto più sacro è lasciarsi essere.