Contemporary Culture in the Alps
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Performing Arts

Azioni Fuori Posto: la danza come gesto di relazione  

28.10.2025
Francesca Fattinger

© Azioni Fuori Posto

Siamo seduti insieme a un tavolino, io, Silvia Dezulian, Filippo Porro e Dorotea Porro, accanto a noi i corpi delle montagne e il corpo del fiume che scorre; dentro di noi corpi che si muovono, flussi di pensieri, ricordi, nostalgie, consapevolezze come rocce a cui aggrapparci al nostro passaggio. Ci muoviamo, anzi danziamo in effetti, attraverso micro gesti del corpo e del pensiero, nel nostro stare insieme e sostare in un tempo altro, una parentesi morbida incastrata in una crepa quasi atemporale, in cui riappropriarci, attraverso la parola condivisa e l’ascolto, di un percorso, di un senso, di un orientamento del fare. Il corpo sente, il corpo capisce, danzando si capisce molto di più che in mille parole rovesciate su e tra di noi, e lo si capisce ancora di più se lo si fa insieme, umani e non, perché su questa Terra i tempi di ognuno sono legati indissolubilmente a quelli dell’altro: si assottigliano insieme. I nostri vuoti, sono possibilità, sono tracce di passaggi, di presenze. I nostri fantasmi e quelli dell’ambiente attorno a noi, sono presenze da ascoltare, che ci fanno compagnia; sono accanto a noi e pretendono ascolto, sta a noi imparare a stare “fuori posto”, abitare quello squilibrio, quel tremore prima della caduta ma anche prima del salto, che ci insegna a ritrovare il nostro posto, il nostro posto nel mondo.

© Enzo Piglionica

Per me questa chiacchierata è stata proprio una camminata, un’ascesa verso questa consapevolezza, verso questa vetta: la scoperta della compagnia “Azioni Fuori Posto”, nata a Trento nel 2019, e fondata da Silvia Dezulian e Filippo Porro, che ha proprio come missione primaria l’agire fuori contesto, fuori luogo, “fuori posto” appunto, in tutti i sensi che scopriremo insieme fra poco. Nota per una poetica dell’“azione”, intesa come movimento consapevole e politico, come un gesto che mette in relazione corpi e luoghi, persone e territori. Tra i progetti più significativi Oltrepassare, camminata performativa in ambiente naturale, Prospettiva, dedicato al paesaggio urbano, e Rimaye. Un disvelamento materico, riflessione fisica e poetica sui ghiacciai e sulla fragilità dei paesaggi montani. Accanto alla produzione artistica, Dezulian e Porro curano anche il festival Danzare a Monte, che porta la danza contemporanea nei paesaggi alpini e mette in dialogo artisti, artiste, abitanti, ricercatori e ricercatrici attorno al tema del corpo in montagna.

© Giulia Mantovani
About the authorFrancesca FattingerCon il cuore scalzo, alla continua ricerca del vuoto dentro di sé, quello che si insinua tra le [...] More
Il nome Azioni Fuori Posto suggerisce uno spostamento, un agire “altrove”. Che cosa significa per voi oggi essere “fuori posto”, sia artisticamente che politicamente?
Per noi è fondamentale agire: proporre e produrre azioni di diversa natura. Il nome nasce anche da un percorso di formazione frequentato insieme, durato diciotto mesi in Toscana. È stato il primo e unico periodo di studio davvero insieme: pur avendo frequentato la stessa scuola, la Paolo Grassi di Milano – sezione danza – non eravamo mai stati nella stessa classe. Dopo il diploma ci eravamo persino ripromessi di non lavorare più insieme, perché un primo tentativo era finito male… e invece eccoci qui.

Sono “azioni fuori posto” le nostre, perché siamo nati con lavori site-specific. La nostra prima produzione, Oltrepassare, si è svolta all’aperto e volevamo che il nome della compagnia portasse quell’identità. Sono azioni che sono sempre “fuori posto”, ma, al tempo stesso, sono costruite e adattate proprio per uno spazio, un luogo, una comunità. Non facciamo cose che stanno solo in un luogo o con una sola identità: spesso la danza nasce dentro una “scatola nera” e si replica uguale; noi, invece, partiamo dal contesto e lo trasformiamo e ci trasformiamo con lui.

All’inizio non avevamo un teatro a disposizione, quindi abbiamo semplicemente lavorato con ciò che c’era: lo spazio pubblico, accessibile a tutti. Così è nato il nostro modo di pensare alla danza come un agire concreto, non passivo. Anche a livello personale ci sentiamo spesso “fuori posto”, e l’azione, per noi, diventa un gesto chiaro, un modo di prendere posizione nel mondo.
Non è “solo” danzare, ma un danzare più ampio, che ha a che fare con il movimento del corpo nello spazio. La danza può nascere anche da un gesto quotidiano: camminare, bere, fare colazione… tolti dal loro contesto pratico, questi gesti raccontano e trattengono una genuinità che è già danza.

© Enzo Piglionica

Nei vostri lavori il corpo entra in dialogo profondo con lo spazio. In che modo il paesaggio modifica la vostra danza — e viceversa, in che modo la vostra presenza trasforma lo sguardo sul luogo?

Per noi il concetto di paesaggio è ampio: include ciò che vediamo e chi lo abita, chi lo attraversa, chi lo ha costruito. Non è una scenografia, ma qualcosa di vivo. A volte lo osservi da fuori, poi ci entri, e nel frattempo altri lo attraversano: presente, passato e futuro si mescolano nello stesso istante. All’inizio è stato un approccio di scoperta.
Con Oltrepassare ci siamo detti: “Lavoriamo in salita, con gli zaini sulle spalle, ascoltiamo il suono dei passi”. Provando ci siamo accorti che non potevamo andare avanti e indietro: bisognava solo salire. Non potevamo provarlo in sala, così abbiamo lavorato direttamente sul sentiero a Trento, alla Saluga, dietro Port’Aquila. In quelle ore incontravamo le stesse persone: il signore col cane, le bambine che uscivano da scuola… si creavano relazioni, li invitavamo a vedere lo spettacolo.

Abbiamo capito che il luogo è vivo e cambia di continuo: di giorno è una cosa, di sera un’altra, di notte un’altra ancora. Questo ti destabilizza ma, allo stesso tempo, ti salva. Da lì è nata la nostra idea di una presenza “permeabile”: non portiamo qualcosa nel luogo, ma lo agiamo insieme e lo trasformiamo attraversandolo. Anche gli “incidenti” — una bici che passa, qualcuno che chiede “cosa state facendo?” — diventano parte della drammaturgia: ritmo, musica, vita che entra nello spettacolo.

© Giulia Lenzi

Con Oltrepassare abbiamo ragionato sul paesaggio quotidiano insieme all’artista visiva Martina Dal Brollo, chiedendoci come “approdare a un orizzonte diverso”. In montagna l’unico modo per farlo è salire, e in cima si scopre una miriade di orizzonti. La partitura dei passi include camminare con il pubblico: a volte ci sorpassano, poi li superiamo noi. Si crea un’unica esperienza — noi, il pubblico, il paesaggio che cambia lungo il sentiero.

Nel punto più ripido ci arrampichiamo letteralmente su di loro, dai piedi alle ginocchia, fino a formare una piccola catena umana per aiutarci a salire. È diventato parte del linguaggio dello spettacolo, così come il “solo” sulla caduta di Filippo e il non riuscire: si continua a scivolare, poi si riparte insieme, con l’aiuto del pubblico.

In contesti segnati da traumi storici — come nelle trincee in Friuli — quella parte acquista un’intensità particolare, specie quando una guida racconta prima il percorso. Per Oltrepassare e poi per Prospettiva, in contesti urbani, abbiamo studiato il paesaggio a livello storico, geografico e architettonico, lavorando con guide e storici locali. Sapere che in certi luoghi un tempo c’erano castagneti o terrazzamenti abbandonati dà senso all’azione: la danza diventa un modo per ri-abitare il luogo.

© Giulia Mantovani

Durante la pandemia avete esplorato modalità che mettevano in tensione mobilità e sedentarietà. Come è cambiato da allora il vostro modo di coinvolgere il pubblico nei contesti non convenzionali?

La relazione con il pubblico è sempre parte integrante del processo. Non lo consideriamo mai spettatore, ma presenza viva nello spazio. Anche quando non può muoversi, resta un corpo accanto ad altri corpi, con il proprio respiro e il proprio sguardo. Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto sulla prossimità: condividere uno spazio fisico e naturale, camminare insieme, aiutarsi, guardarsi. È una danza che include anche chi non danza, un’esperienza collettiva più che una rappresentazione.

© Giulia Lenzi

“Rimaye. Un disvelamento materico” mette in relazione il corpo umano e il corpo del ghiacciaio, affrontando i temi del cambiamento climatico e della fragilità di ambienti e memorie. Come avete costruito questa analogia e in che modo la danza diventa strumento di riflessione su questi temi?

Rimaye nasce da un invito di Patagonia Montebelluna: creare un laboratorio in quota con escursionisti e un glaciologo, per due giorni, sul rapporto tra corpo e paesaggio, fino al ghiacciaio inferiore dell’Antelao. Non sapevamo nulla di ghiacciai e abbiamo iniziato a studiare. Era l’anno del crollo della Marmolada: la richiesta era sensibilizzare i partecipanti, ma per noi è diventato anche un modo per ripensare la nostra danza.

Abbiamo scoperto il ghiacciaio come una creatura viva, con vuoti interni, rigida e al tempo stesso plastica: cresce in altezza ma scorre in basso, modella il paesaggio e lo ha modellato per secoli. Da lì sono nati esercizi per mettere in relazione il corpo glaciale e il corpo umano.

Dall’autunno 2022 all’estate 2023 abbiamo fatto numerose escursioni di ricerca tra Trentino, Lombardia, Veneto e Valle d’Aosta, collaborando con il Servizio Glaciologico Lombardo, SAT, MUSE, Museo delle Dolomiti, Parco Adamello Brenta e Museo Civico di Rovereto. Abbiamo letto molto, tra cui anche Enrico Camanni, sull’antropologia dei ghiacciai: la percezione è cambiata nel tempo, da luogo temuto a impresa alpinistica, fino alla nostalgia contemporanea.

Un incontro chiave è stato con Matteo Oreggioni, filosofo e autore di Filosofia tra i ghiacci, che dice che siamo al cospetto di “fantasmi”: li vediamo ma è come se fossero già scomparsi. Salire a un ghiacciaio è un esercizio di ascesi, fisica e filosofica. Il vuoto lasciato nella valle è la traccia del suo ritiro.

In scena c’è anche nostra figlia Dorotea: la sua presenza è un gesto simbolico verso le generazioni future. Forse lei vedrà ancora questi paesaggi; sua figlia, forse no.

© Giulia Lenzi

Il festival Danzare a Monte porta la danza in spazi montani e paesaggi naturali. Qual è per voi la specificità di questo contesto e come dialoga con la vostra ricerca artistica? Ci potete svelare qualche anteprima dell’edizione di quest’anno?

Dopo sei edizioni estive nasce Danzare a Monte d’inverno, il nostro modo di spiegare ai nostri vicini di casa ciò che facciamo artisticamente, facendolo insieme alla comunità della Val di Fiemme, attraverso un percorso che invita a esplorare la montagna con occhi nuovi, tra arte, memoria e natura. In quest’edizione abbiamo invitato artisti e artiste a riflettere sul paesaggio: vogliamo portare i montanari a teatro, in particolare a Tesero e Predazzo, a vedere danza che parla di montagna, sport e corpo.

Tra novembre e gennaio si alterneranno performance, incontri e camminate (un weekend di escursioni con Errando per antiche vie, un percorso a piedi che attraversa i luoghi delle prossime Olimpiadi – da Cortina alla Val di Fiemme, da Bormio alla Valtellina fino a Milano – accompagnato da talk, proiezioni). Molti gli spettacoli in programma: da Rimaye a Whiteout di Piergiorgio Milano, dove la danza incontra il gesto sportivo, fino a First Love di Marco D’Agostin, che trasforma lo sci di fondo in racconto fisico e affettivo. Danzare a Monte non nasce “contro” qualcosa, ma per aggiungere una dimensione artistica e culturale, aprire un dibattito usando il corpo come innesco.
La montagna può essere raccontata in molti modi, non solo attraverso il turismo di massa, impianti e grandi eventi. In ogni edizione, estiva o invernale, chiudiamo infatti con un confronto pubblico, mettendo in dialogo guide, storici locali e voci esterne.

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Filippo Porro, Silvia Dezulian, danza, danza contemporanea, azioni fuori posto, danza e natura
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