Giorgia Ohanesian Nardin chiude Radical Love a Centrale Fies con un incantesimo
© Roberta Segata, courtesy Centrale Fies
“Se c’incontrassimo di notte, la luna ci tirerebbe fuori dalla terra come un germoglio, crescente c’allungherebbe i capelli, e se noi c’incontrassimo al momento giusto ci acconceremmo in trecce, trascenderemmo la scena fino al centro della terra, torneremmo volentieri a decomporci dopo la fine farci vermi e nutrire l’aldilà di proteine e l’aldiquà di idee perverse, insomma vorremmo rimanere, tornare, rimescolare sempre da capo le carte, rimuginare, iniziare di nuovo sotto altra forma, vorremmo potremmo pensare di star scivolando giù da un pendio scosceso ridendo, ginocchia striate d’erba, fiori sui capelli, agghindati a ghirlande da restituire al bosco, vorremmo potremmo cantare e piangere allo stesso tempo, lamento magico incanto, ripetere le stesse cose fino a che non s’avverano, assecondare il sentimento, prendere una corda e legarci un sasso, con i piedi piantati in terra ben salde sentire che rumore fa quando rotea sopra la nostra testa”
Ci sono parole che non si ascoltano. Si attraversano.
Come aghi che pungono il cuore o gocce che scavano piano una diga.
Parole che non si dimenticano perché non le abbiamo sentite con le orecchie, ma con la pelle.
Parole che non sembrano neppure scritte da qualcuna. Sembrano arrivate da dentro, da un luogo che non ha tempo.
Certe volte le parole guariscono.
Ma, prima ancora, ci spaccano in due.
Perché riconoscersi nel dolore dell’Altra è come rivedere una cicatrice che avevamo nascosto sotto strati di silenzio.
Certe voci — e non tutte — hanno il potere di rivelare la nostra. Quando qualcuna dice ad alta voce ciò che abbiamo pensato in segreto, quando una performer, una poeta, una sconosciuta con occhi che brillano di verità, lascia andare una frase che è esattamente quella che ci eravamo dette sottovoce mesi prima, allora accade qualcosa di sacro.
Il dolore smette di essere solo nostro. Diventa corale. Diventa corpo comune.
E non ci sentiamo più sole. Nemmeno fragili. Solo vive.
Quella frase ci attraversa e non chiede spiegazioni.
Non c’è bisogno di capire: si sente.
Ed è proprio lì, in quel sentire collettivo, che qualcosa si ricuce, si rimette al mondo, si rimette a fuoco.
Non sempre succede. Ma quando succede lo ricordi per sempre.
E se accade in un luogo come Centrale Fies, dove la voce incontra la scena, dove la luce si fa pelle e l’arte scava in profondità, allora quel momento si imprime come un rito, come una rivelazione.
Ho pianto a dirotto durante quella performance.
E ora provo a raccontarla.
Ma prima permettetemi di restare ancora un attimo lì.
In quel buio pieno di luce.
Nel nodo alla gola che diventava canto.
«Whatever I am / Let it be seen» ha la potenza di un’invocazione. Un titolo che pulsa di tensione arcaica, come il cuore di una tragedia antica dove dolore e rivelazione coincidono. È con questo canto – insieme preghiera e dichiarazione di presenza – che Giorgia Ohanesian Nardin ha chiuso Radical Love, domenica 27 luglio a Centrale Fies.
«Ha qualcosa di tragico, il tono della tragedia nel senso arcaico del termine» mi spiega Giorgia. Un tono che non va inteso come pathos drammatico, ma come atto sacro e catartico in cui il corpo si fa canale di verità e la scena si trasforma in soglia rituale.
Il titolo della performance è nato da un episodio vissuto a Bruxelles nel corso di un incontro che ha assunto da subito i contorni di un rito. Invitata a leggere i tarocchi, Giorgia incontra una donna di discendenza turca che, a sua volta, legge i fondi del caffè. Decidono di scambiarsi i gesti: tarocchi per Giorgia, caffè per l’altra. Ma dietro quello scambio apparentemente semplice si annida una tensione profonda. «Lei è di discendenza turca, io sono di discendenza armena: tutto questo permane nella pratica», mi racconta. «Non è neutro. È una tensione latente che passa attraverso il gesto».
Nel rito della lettura dei fondi, la tazzina viene rovesciata e chi si affida alla lettura deve pronunciare una frase precisa che in turco è una preghiera: “Whatever I am / Let it be seen”. “È molto forte come richiesta, verbalizzare quella cosa. C’era una consegna nell’affidarsi allo spirito”. Quella frase – così semplice e così irrevocabile – ha continuato a risuonare in Giorgia. È diventata chiave di accesso, soglia, principio generativo. Da lì ha preso forma la performance.
Da oltre dieci anni, il lavoro di Giorgia Ohanesian Nardin si muove nella dimensione del rito. Non c’è una ricerca da spiegare, ma un’intimità da esperire. “Per me la danza è una forma di divinazione”, mi spiega. Una pratica che non vuole essere imbrigliata in linguaggi che le sono estranei. “Non voglio appoggiare addosso alla danza un linguaggio e una contestualizzazione che non sono propri della materia del corpo, che sono accademici, che cercano di spiegare qualcosa che non va spiegata, ma vissuta”.
Per questo il suo approccio si sottrae alle gabbie dell’analisi e dell’argomentazione. Non si offre come oggetto di studio, ma come esperienza che chiede di essere attraversata, nella sua intensità emotiva e nella sua verità incarnata. “È come se la danza avesse bisogno di una manifestazione più alta, che non passa dal corpo per essere compresa, ma che attraverso il corpo si fa sentire. Non può passare da saperi dominanti”.
Il sapere, in Giorgia, non è concettuale: è materia viva. “Non è una questione di ricerca antropologica o studio: è la materia stessa che mi abita”. E poi aggiunge: “Il mio modo è stare nelle cose che mi abitano. Capire cosa mi abita, essere interessata alla ragione per cui queste cose mi abitano nel momento in cui mi abitano e rendermi risonante di quella cosa”.
Whatever I am / Let it be seen è allora anche questo: un atto di resa, una disponibilità alla visione, un corpo che si lascia attraversare da una presenza più grande, che non chiede di essere compresa ma riconosciuta. Un canto per ciò che torna alla terra, per essere trasformato.
Il contesto della performance non è un semplice sfondo. È una materia viva, un ambiente che respira insieme al corpo e ne informa il gesto. «Volevo fare un lavoro elementale, nel senso più letterale della parola», mi racconta Giorgia. «La terra informa il movimento, la mia voce, il modo in cui stiamo lì. E informa anche lo sguardo, l’occhio di chi guarda».
La scena non è costruita per evocare un simbolo: non c’è rappresentazione, ma presenza. La drammaturgia è materica, fatta di elementi viventi, di terra, di piante, di oggetti che hanno una propria esistenza. «Il suo ruolo drammaturgico non è simbolico, ma è materico. Così come lo sono le piante. E lo è la ghirlanda».
Quella ghirlanda, composta con elementi naturali, non serve a decorare né a spiegare. È un oggetto celebrativo in sé stesso, un nodo di gesti e presenze che rimandano al tempo, alla trasformazione. «C’è qualcosa nella costruzione di un oggetto naturale che è celebrativo di per sé, che per me è molto potente», racconta. E ciò che rende quel gesto ancora più intenso è la consapevolezza della materia viva che lo costituisce: «La cosa importante è che la materia che usiamo è viva, e sta già iniziando a disfarsi».
In questo lavoro l’effimero convive con il duraturo. La danza finisce, la voce tace, ma la materia rimane. Continua a mutare. Continua a essere. «Quella materia lì continua a esistere dopo che la danza è finita, dopo che la parola è terminata, dopo che tutte le cose effimere si sono concluse», prosegue Giorgia. «Quell’elemento rimane e viene esposto nel suo processo di disfacimento così come viene esposto nel suo processo di creazione». Nessun apice. Nessuna climax visiva. Nessuna glorificazione dell’oggetto finito. «La ghirlanda non ha mai un apice di visibilità. Viene glorificato il processo di composizione e decomposizione». In questo modo, la performance si sottrae all’idea che un’opera debba “dire” qualcosa: il suo scopo non è comunicare, ma permettere di sentire. «Il lavoro è emersivo del passaggio delle cose e non della simbolicità delle cose. Le persone vengono messe nella condizione di percepire, di sentire più che di capire. C’è bisogno di tornare a una dimensione sensibile e collettiva dei corpi».
I costumi, realizzati da Maxine Simonetto, abitano un’estetica arcaica e decostruita, capace di evocare figure quasi mitologiche. La cotta di maglia, le casacche larghe e un senso diffuso di decadenza contribuiscono a definire uno spazio liminale, dove i corpi sembrano già sul punto di disfarsi. La terra, elemento vivo della performance, interagisce con gli abiti, trasformandoli. Anche il suono – curato da F. De Isabella – segue una logica immersiva e panoramica, componendo paesaggi che si muovono in dialogo con parola e luce, come una soglia che anticipa ciò che verrà.
Io sono troppo bella troppo intelligente troppo accogliente troppo calda troppo una casa per te[...]troppo lenta, troppo impermeabile troppo sensibile troppe cose che non vedi
“Troppo bella è nato in un momento in cui mi sentivo intrappolata in una soglia carceraria. Mi si chiedeva di essere tutto e allo stesso tempo quel tutto era la mia condanna. L’impossibilità di essere esattamente la cosa giusta, mai abbastanza, sempre troppo. Ricordo l’energia del corpo mentre scrivevo. Lavorando sul testo, quella ferita si è trasformata in una preghiera. Una restituzione. Oggi mi va bene essere troppo. È la mia forma di verità” mi dice Giorgia.
In quelle parole, nel modo in cui le ha dette e restituite in scena, io ho sentito la voce di molte. Un dolore condiviso, attraversato, trasformato. Quel testo è diventato spazio rituale per una sofferenza collettiva. Una voce che ha parlato anche per chi si sente attraversata da un maternage eccedente, non orientato verso figli ma comunque presente, instancabile, a volte ingestibile. Una maternità diffusa, senza destinatari, che abita il corpo e la cura come condanna e come dono. Essere troppo madre senza alcun figlio da accogliere: è una soglia che molte conoscono e che raramente trova parole così nitide per essere nominata.
“vorremmo potremmo arrenderci, capitolare l’una nelle braccia dell’altra, riscoprire che cos’è l’amore, lentezza fissazione, ossessione per il dettaglio, resa e crollo d’ogni certezza, amore rimani con me nell’ardore, ridi con me a crepapelle fino alla fine di questa radura, rigirati a guardare la notte negli occhi, unisciti a me per celebrare l’incanto con cui la tua pelle m’incatena sempre cambiata ogni volta che si schiude la palpebra, ogni momento sempre più sacra”
E infine la preghiera collettiva.
“Vorremmo potremmo è un incantesimo,” dice Giorgia. “Comincia come un elenco, ma poi si spalanca sul potere trasformativo della parola. Potrebbe essere semplice, in fondo, essere felici. Questo testo rimette il fuoco sulle cose essenziali, sulla dimensione elementale dell’esistenza. È una poesia che parla come un sogno, che tocca la materia. Ha il tono di un discorso diventato manifestazione. È come se un arcangelo la pronunciasse: non per insegnare, ma per mostrare. È già qui, davanti a noi. Basta guardarla”.