Un’intervista a Marco D’Agostin tra danza, scienza e amore che sfidano il tempo
© Alice Brazzit
A Centrale Fies l’amore è una questione radicale. Non un affetto passeggero, ma una forza generativa, un legame che si rinnova attraverso il tempo, la fiducia e la sperimentazione. È questo lo spirito che anima Radical Love, il progetto che chiude la programmazione estiva della centrale con un ultimo, intensissimo atto di dedizione alle arti performative, alla relazione, alla cura.
Si comincia oggi con una festa speciale: il ventesimo compleanno di Sotterraneo, celebrato con un’intera giornata di programmazione dedicata alla compagnia fiorentina che ha intrecciato la propria traiettoria artistica con quella di Fies in un dialogo costante, creativo e visionario.
E poi via, fino a domenica, in un crescendo che attraversa corpi, voci e linguaggi: Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, Jacopo Jenna, Francesca Pennini / CollettivO CineticO, Marco D’Agostin, DOM-, Giorgia Ohanesian Nardin. A chiudere il cerchio, le pratiche poetiche e performative di Genny Petrotta e Giorgiomaria Cornelio, alias GRANDI MAGAZZINI CRIMINALI, artiste e artisti di FONDO – il network per la creatività emergente coordinato da Santarcangelo dei Teatri.
Tra i nomi che compongono l’ecologia poetica e scenica di Radical Love, quello di Marco D’Agostin risuona come una traiettoria luminosa e imprevedibile. Coreografo e performer, D’Agostin torna a Centrale Fies con Asteroide, in scena sabato 26 luglio. E lo fa portando con sé una riflessione vertiginosa sulla fine, sull’improvviso, sull’innesco. Come un corpo celeste che spezza il tempo lineare e apre una fenditura nel quotidiano, Asteroide parla dell’amore e delle sue estinzioni, ma anche della possibilità di danzare dopo la fine.
Marco,“Asteroide” nasce dall’incontro tra scienza e sentimento, estinzione e separazione amorosa. Come sei arrivato a sovrapporre queste due narrazioni, così distanti eppure così profondamente legate dal tema della fine?
C’è stato un tempo della mia vita in cui ho cercato conforto nella letteratura – e per letteratura intendo l’ampio campo della produzione narrativa, quindi non solo quella che riguarda i libri. Negli ultimi anni, però, mi capita – e mi è capitato spesso – di cercare conforto nella scienza: nelle sue storie, nelle sue immagini, nei meccanismi, nei fenomeni, nelle teorie e nelle ipotesi. Non lo faccio come esercizio, ma piuttosto perché l’età adulta richiede immagini sempre più complesse. E parole di conforto sempre più complesse e intense. In qualche modo, la scienza – che quotidianamente si misura con la complessità – mi è sembrata, e continua a sembrarmi, un territorio su cui poter proiettare anche le questioni personali, sentimentali. La scienza è un parco giochi di metafore. E ho pensato che mi piaceva avventurarmi in questo Luna Park.
Hai scelto di incarnare un paleontologo, figura che studia ciò che resta. Perché questa immagine del corpo che interroga le ossa ti è sembrata adatta a raccontare anche il sentimento amoroso, e la sua possibile estinzione?
Questa domanda mi commuove, perché intercetta qualcosa che mi ha sempre interessato nella mia danza, ben prima di Asteroide. La maggior parte dei miei esercizi e delle mie pratiche riguarda l’archeologia, le ossa: mi ha sempre affascinato questo approccio archeologico al corpo. Amo dire che gli archeologi hanno un atteggiamento rigoroso e commosso. L’archeologo si pone il problema dell’esattezza della sua “danza”, ma ha sempre gli occhi velati di lacrime. C’è qualcosa, nel gesto di togliere terra o sabbia da un osso, e poi provare a riconfigurare quel reperto all’interno di un sistema scheletrico più complesso, che mi interessa profondamente. Il paleontologo Walter Alvarez, in Asteroide, è una figurina iper-caratterizzata che ho scelto perché è l’autore di un’ipotesi fenomenale: che sia stato un asteroide a cambiare per sempre il destino del pianeta Terra. Mi ha attratto molto questa storia fantastica — anche se, in realtà, io sono affascinato da chiunque studi le ossa. L’osso, in verità, è un oggetto che ha molto a che vedere con il passato e con il futuro, e molto poco con il presente. I corpi viventi non vedono le proprie ossa. L’osso è sempre qualcosa che appartiene a ciò che è stato e a ciò che sarà. Per me è davvero un oggetto poetico, evocativo, che fa da ponte tra il non vivente e il non più vivente. Ma il ritrovamento osseo suggerisce sempre, in qualche modo, un atteggiamento danzante. È, in ultima istanza, la traccia di una danza che è stata — e che forse sarà ancora.
Il tempo, in "Asteroide", non è lineare: si piega, si stratifica, si rovescia. Come hai lavorato sul tempo della scena per evocare questa dimensione geologica e insieme emotiva dove ogni gesto sembra depositarsi come un fossile?
Sono da anni interessato al tempo di colui che, sulla scena, ha il compito di intrattenere il tempo dello spettatore: un tempo che deve andare a bersaglio, con una serie di numeri perfetti, divertenti. Mi sembra che questo sia un tempo che precipita verticalmente dentro l’attimo, dentro il momento in cui si fa qualcosa per qualcuno. E che proprio questo precipizio dentro l’attimo rappresenti, in fondo, un tentativo disperato di espellere il pensiero della morte. Il tempo opposto a questo è il tempo profondo. In geologia, tra gli anni Ottanta e Novanta, viene introdotto questo concetto: il tempo della Terra, quello dei milioni di anni, in cui avvengono i grandi cambiamenti — ma a un ritmo impercettibile nell’arco di una vita umana. Un tempo, tra l’altro, in cui — come dicono i paleontologi — non è possibile ricostruire con certezza il nesso di causa ed effetto. La paleontologia contemporanea, quella cladistica, ha infatti disinnescato il modello classico che tendeva a istituire legami di discendenza diretta tra uno scheletro e l’altro. Oggi si parla piuttosto di parentele ramificate che dividono le creature e al tempo stesso sospendono ogni certezza su un’origine lineare. È interessante perché, al contrario, noi esseri umani percepiamo e ricostruiamo le nostre vite proprio attraverso il bisogno di legare ogni cosa con un nesso causale, con una narrazione continua. Sono sempre stato affascinato dall’idea che uno spettacolo potesse, anche solo per qualche istante, far respirare allo spettatore il tempo profondo. Che potesse connettersi alla geologia, nonostante il tempo teatrale tenda — per sua natura — a tirare la freccia e andare a segno con esattezza. In Asteroide, il tempo profondo è continuamente evocato. Io non mi permetto mai di precipitare, ma tendo l’orecchio alla possibilità che il tempo del nostro corpo sia un tempo che sfugge allo sguardo umano.
Nel tuo spettacolo c’è una continua tensione tra desiderio di raccontare e impossibilità di farlo fino in fondo, tra parola e corpo, tra precisione e slancio. È anche una riflessione sul linguaggio? Cosa resta, secondo te, quando una storia non si può più dire?
Non faccio mai riflessioni sul linguaggio, se non ex post. Quando lavoro a uno spettacolo mi considero davvero un artigiano: per me ogni creazione si presenta come una serie di problemi da risolvere e cerco di trovare, di volta in volta, gli strumenti più adatti per affrontarli. A volte la risoluzione di un problema coincide con il mantenere vivo un enigma. Risolvere, quindi, non significa necessariamente dare una risposta, ma piuttosto trovare combinazioni affascinanti tra gli elementi in gioco. Se poi il mio spettacolo è anche una riflessione sul linguaggio — inteso qui in senso ampio, come linguaggio polisemico — è qualcosa che può emergere solo dopo. Non lo so ancora se Asteroide sia una riflessione sul linguaggio. Forse sì. Rispetto alla questione delle storie, invece, c’è effettivamente un momento nello spettacolo in cui si ragiona sul nostro rapporto con il raccontare. La capacità di raccontarci delle storie è stata, in fondo, uno strumento evolutivo potentissimo: in alcuni casi ha reso l’essere umano più forte persino di armi più avanzate. Le storie ci consolano, ci fanno sentire meno soli. Tuttavia, credo anche che molto spesso cadiamo vittime delle storie. Antropologicamente parlando, esse assolvono a una funzione precisa: rendono più semplice un problema, lo addomesticano. Ma in questo addomesticamento creano un nuovo problema perché semplificano la realtà. E lo fanno sempre. Eliminano troppi elementi dal campo, elementi che smettiamo di considerare semplicemente perché non rientrano nella narrazione, in quella sintesi che riduce e ordina un pezzetto di reale. Siccome la realtà è sempre più complessa di qualsiasi storia, mi chiedo — dentro Asteroide e insieme allo spettatore — se non sia il caso, ogni tanto, di farne a meno. Di provare a fare a meno delle storie. E forse, nel lavoro, c’è già una risposta.