Contemporary Culture in the Alps
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Performing Arts

Narrazioni decoloniali e geontologie affettive

Una conversazione con Elizabeth A. Povinelli

17.07.2025
Stefania Santoni

© Elizabeth A. Povinelli

Oggi Centrale Fies, il mio posto del cuore, apre le sue porte.

E lo fa accogliendo corpi, pensieri, visioni e performance che attraversano linguaggi e discipline, che smarginano il reale e lo rimettono in discussione.

La programmazione prende il via con l’opening di Undomesticated Ground, mostra collettiva visitabile fino al 20 settembre a cura di Simone Frangi e Barbara Boninsegna con la curatela esecutiva di Maria Chemello. Un group show che si espande in un Live Program, dove i corpi e le voci si fanno materia viva del pensiero.

Protagonistə dell’opening sono Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi con la performance The city we imagine, mentre da oggi al 20 luglio sarà possibile vedere The Inheritance, film firmato da Elizabeth A. Povinelli che sarà anche ospite sabato 19 luglio alle ore 17.00 per un dialogo pubblico con Simone Frangi nel parco della centrale.

Filosofa, antropologa, teorica e artista, Povinelli intreccia pensiero critico e pratiche visive, interrogando la crisi climatica, l’eredità coloniale e le strutture di potere che si annidano nei nostri modi di pensare il mondo. È membro fondatore del Karrabing Film Collective e professoressa alla Columbia University, dove insegna Antropologia e Studi di Genere. Il suo lavoro attraversa l’arte e la ricerca, i film e i disegni, i testi e le comunità, ricostruendo una genealogia del tardo liberalismo e delle sue forme di violenza.

Scopriamo meglio il suo lavoro di ricerca e la sua pratica tra antropologia, filosofia e attivismo.

© Elizabeth A. Povinelli
About the authorStefania Santoni Sono nata nel cuore di una fredda notte di gennaio, tra il bagliore della luna piena e il [...] More
Elizabeth, nel tuo lavoro teorico e artistico, il concetto di “geontologia” rappresenta una chiave di lettura del tardo liberalismo e delle sue ecologie mortifere. Cosa significa oggi, nel 2025, ripensare la distinzione tra vita e non-vita nei contesti segnati dalla crisi ambientale e dalla persistenza delle logiche coloniali?
“Geontologie” e “Between Gaia and Ground” hanno introdotto il concetto di geontopotere: una forma di governo dell’esistenza fondata sulla divisione e gerarchizzazione epistemologica, politica ed etica tra vita e non-vita. Per “vita” si intende tutto ciò che si ritiene possedere una dinamica interna capace di evolvere verso forme complesse — organismi, civiltà, economie, mente; la “non-vita” è, invece, lo spettro di un’esistenza inerte che può essere modificata ma priva di una funzione simile a quella metabolica. Dopo questi due libri, il mio lavoro teorico si è concentrato su come il geontopotere ci imponga di riflettere sulle materializzazioni differenziali piuttosto che sulle ontologie relazionali (o su altri approcci ontologici), se vogliamo davvero comprendere il liberalismo civilizzazionale, il tardo liberalismo e qualunque forma del cosiddetto governo liberale verso cui oggi stiamo scivolando. Per me il geontopotere — questa divisione dell’esistenza in vita e non-vita — non è mai stato un tentativo di fondare un’ontologia dell’essere, bensì di mostrare come una distinzione radicata nell’episteme occidentale sia stata storicamente trasformata in un’arma per legittimare, sul piano giuridico ed etico, la catastrofe ancestrale dell’invasione coloniale. Pensiamo, ad esempio, a come la concezione aristotelica della dynamis — cioè la capacità di una cosa di trasformarsi in una forma più complessa — sia stata strumentalizzata durante le invasioni coloniali per giustificare la distruzione delle popolazioni colonizzate. Quali società erano considerate portatrici del pieno potenziale umano? E quali, invece, venivano ridotte a materia inerte, come lo erano — secondo questa logica — le culture ancestrali delle mie colleghe e dei miei colleghi Indigeni? All’interno di questo schema, tutto ciò che non rispondeva ai criteri della produzione di ricchezza e del dinamismo veniva considerato sprecato, passivo, privo di vita. Poiché il colonialismo epistemico ha costruito i suoi sistemi politici, giuridici ed etici proprio su questa distinzione tra organico e inorganico, tra dinamico e inerte, tra vita e non-vita, tutto ciò che veniva classificato come “non-vita” restava automaticamente escluso dalla tutela e dall’interesse di questi sistemi. Ed è proprio questo che mi ha interessata in Geontologies e Between Gaia and Ground: il modo in cui questa forma di governo ha generato canali specifici di materializzazione. È importante qui distinguere tra materia e materializzazione. Tutto ciò che veniva ritenuto “di valore” fluiva in una direzione. I residui tossici necessari a estrarre tale valore fluivano nell’altra. Gli effetti catastrofici di questa materializzazione differenziale — lo sfruttamento e il surriscaldamento della Terra — sono stati percepiti sin dall’inizio nei territori colonizzati e razzializzati. Solo più di recente questi effetti sono diventati tangibili anche nei luoghi che avevano beneficiato di tali dinamiche. Si potrebbe dire: “Ora tutti stanno finalmente vivendo la catastrofe ancestrale”. Le isole del Pacifico vengono sommerse, i ghiacciai alpini si sfaladano. Tuttavia, questa condivisione dell’esperienza della crisi climatica nasconde il fatto che le strategie per sopravvivere a questi cambiamenti continuano a seguire le stesse traiettorie simboliche e socio-ecologiche. Da dove proviene, ad esempio, il litio necessario per alimentare l’energia solare, presentata come alternativa “green” all’idroelettrico? Le mie colleghe e i miei colleghi indigeni di Karrabing possono indicare le miniere che stanno devastando le loro terre. Le forme di materializzazione differenziale sono ovunque. Pensiamo, ad esempio, al concetto di zona di sacrificio. Dove credete che si trovino? Quindi non si tratta semplicemente della distinzione tra “vita” e “non-vita” in sé. Ma piuttosto di comprendere come questa divisione — e le gerarchie che ha istituito per legittimare e governare le invasioni coloniali — continuino a determinare la differente materializzazione dello spazio.
© Elizabeth A. Povinelli

Sei una delle fondatrici del Karrabing Film Collective, un’esperienza che intreccia arte, attivismo e comunità indigene. Come si costruisce una pratica decoloniale dell’immagine e della narrazione, che non parli “per” ma “con” i soggetti coinvolti? E qual è il ruolo del collettivo in questa trasformazione?
Direi che per molte e molti membri del Karrabing Film Collective l’obiettivo di tutte le nostre pratiche collettive è quello di spingere l’ancestrale verso il futuro, verso la generazione successiva. Questo movimento in avanti dell’ancestrale è cruciale. Spesso, quando le persone non indigene parlano delle tradizioni indigene, lo fanno pensando a qualcosa che appartiene al passato — a un tempo che precede le invasioni coloniali; oppure, nel caso del Trentino, al periodo anteriore alle invasioni napoleoniche che hanno distrutto il sistema delle Carte di Regola. Ma le donne e gli uomini Indigeni che conosco, e che ho conosciuto in questi ultimi quarant’anni, parlano costantemente del futuro ancestrale: di ciò che possa aiutare a rafforzare il legame delle prossime generazioni umane con le proprie terre e acque ancestrali e con i parenti più-che-umani che le abitano. Vivono nel presente di un esproprio coloniale ancora in atto guardando al futuro in modo generazionale. Guardare avanti significa chiedersi: che tipo di antenata o antenato sarò stata per questi bambini, per i figli dei loro figli, per queste terre e questi mari ancestrali mentre lottano contro gli effetti drammatici del cambiamento climatico? Ma queste lotte decoloniali esigono che comprendiamo la molteplicità delle relazioni dentro le quali siamo sempre immersi. Essere con significa essere all’interno di una relazione. Torno spesso alla “Poetica della Relazione” di Édouard Glissant. Glissant insiste: bisogna iniziare la lettura del coloniale dal ventre delle navi negriere, nell’Atlantico centrale — da quelle relazioni rivolte verso l’alto del cielo, verso il fondo del mare, verso l’incertezza delle sponde lasciate e di quelle che forse non si toccheranno mai. Ma queste relazioni non sono le stesse di quelle vissute dai marinai sul ponte: anch’essi in relazione con cielo, mare, e orizzonte, ma da una posizione radicalmente diversa. Per questo motivo, chi beneficia delle materializzazioni differenziali prodotte da queste relazioni coloniali deve impegnarsi in una strategia decoloniale che parta dal proprio rapporto con quelle stesse relazioni e dalle disuguaglianze materiali che generano.

Nelle tue opere visive – dai film ai disegni – sembra emergere una tensione tra documento e fabula, tra storia e mito. Qual è per te la potenza politica della narrazione speculativa quando si tratta di pensare e rappresentare il tempo coloniale come sedimentazione materiale e affettiva?
Credo che questa domanda si ricolleghi direttamente a quanto dicevo prima. Affronto lo spazio tra storia e mito come qualcosa che si produce all’interno delle stesse materializzazioni differenziali generate dalle sedimentazioni materiali e affettive del colonialismo. Ciò che i colonizzatori chiamano miti indigeni sono, in realtà, storie vere — storie dotate di un peso esistenziale, rivelatrici e fondamentali per la costruzione del sé e del mondo. Al contrario, nel genere occidentale la “finzione” è considerata solo una storia, così come “sono solo narrazioni” quelle che vengono impiegate per giustificare la distruzione in corso del pianeta, come se questa ci stesse portando da qualche parte. Nel video del collettivo Karrabing, Mermaids/Mirror Worlds, installazione su due schermi, si alternano due piani narrativi. Su uno, seguiamo il viaggio di un giovane uomo Indigeno attraverso un futuro devastato da un capitalismo estrattivo tanto tossico da far marcire i corpi dei non-indigeni che vi entrano in contatto. Mentre attraversa le sue terre, incontra le sue parentele ancestrali che lottano per sopravvivere nelle medesime condizioni catastrofiche. Questa narrazione si alterna a uno schermo parallelo, in cui scorrono filmati promozionali montati di Monsanto, Dow Chemicals e delle lobby del fracking, che anticipano il meraviglioso mondo che le loro industrie estrattive stanno contribuendo a realizzare. Cos’è un mito? E cos’è un fatto? Da dove, e in che modo, osserviamo ciò che resta della storia? Ancora una volta, i mondi dei popoli indigeni e razzializzati continuano a esistere dentro le menzogne di questi miti. Incarano gli ambienti corrosi e corrosivi che si ritengono necessari per produrre questi futuri cosiddetti progressisti. E tuttavia, invece di chiedere a chi lotta fin dall’epoca delle invasioni coloniali per garantire un futuro ancestrale come potremmo cambiare noi affinché loro non debbano più combattere così duramente e a così caro prezzo, chiediamo loro in che modo i loro miti possano offrirci una nuova visione del mondo. Distogliamo forse lo sguardo dalle loro lotte, pur presenti in forma ancestrale, per evitare di chiederci come le modalità con cui ci stiamo rintanando di fronte al collasso climatico si stiano ripercuotendo su di loro?

© Alessandro Sala

Negli ultimi anni hai esposto in contesti come ar/ge, Biennale Gherdëina e il Museo delle Civiltà, spazi che si confrontano con la questione della restituzione simbolica e materiale del sapere coloniale. Quale dovrebbe essere, secondo te, il compito di queste istituzioni?
Per me, la domanda centrale è: possono queste istituzioni creare narrazioni, immagini e forme espositive capaci di trasmettere, anche sul piano affettivo, le materializzazioni differenziali del geontopotere di cui parlo da tempo? Non si tratta di concentrarsi sul sé o sull’altro, ma su quelle materializzazioni differenziali che hanno fratturato il mondo a partire dal XV secolo, tracciando rotte di valore e di tossicità che continuano ad agire ancora oggi. Ho cercato di suggerire un possibile approccio in una serie di disegni che ho realizzato per il Museo delle Civiltà di Roma: si tratta di astrazioni diagrammatiche radicate nella presenza ancestrale e viva delle Alpi dietro Carisolo e dei mari nelle terre Karrabing. Questi disegni mettono in luce come ciascuno di questi luoghi sia stato attraversato — e alterato — dalle catastrofi del colonialismo, come ogni territorio porti le tracce affettive e materiali di rotte estrattive che non si sono mai interrotte. Anche i lavori esposti ad ar/ge e alla Biennale Gherdëina insistono su questo punto: non guardare alle radici del mondo, ma alle rotte che lo hanno costruito. È questa la potenza politica dell'immagine. Naturalmente, credo sia fondamentale che le istituzioni culturali si aprano davvero a prospettive decoloniali. Ma al tempo stesso penso debbano prestare attenzione a un certo incantamento dell’Altro, ovvero a quel meccanismo per cui guardare l’Altro permette al pubblico occidentale di evitare lo sguardo su se stesso, sulle narrazioni che l’Occidente costruisce su di sé per continuare a trarre beneficio dalle stesse rotte coloniali che dichiara di voler superare. Un esempio interessante è la mostra in corso al Wiels Contemporary Art Museum di Bruxelles, dedicata al Realismo Magico. Ho installato il Museum of Tardigrade Prehistory (Museo della Preistoria dei Tardigradi), che introduce il pubblico agli Archivi Phanon — una sorta di metanarrazione tratta da un mio romanzo di finzione: Alice Henry and the Collapse of the Western Plateau. Il romanzo è ambientato in un futuro in cui il mondo occidentale è letteralmente collassato su se stesso. Gli esseri umani vivono in una rete di bunker geologicamente instabili, completamente ignari della storia del capitalismo estrattivo e del consumismo che li ha confinati nelle viscere della terra. Una teocrazia della distruzione creativa, rappresentata dal simbolo dell’ouroboros, estrae ricchezza dai resti compressi delle città. Il romanzo ha la forma di un archivio frammentato: lettere personali, diari, documenti amministrativi e scientifici che si accumulano intorno alla scoperta di una bambina, Alice Henry, emersa da un mondo sotterraneo di “scrapers” (scavatori) che cantano delle metamorfosi degli animali, del mangiare e dell’essere mangiati, e di una talpa dal muso stellato che profetizza l’esistenza di gallerie-stellari che conducono a una “superficie delle superfici”. I personaggi centrali credono che la loro sopravvivenza dipenda dalla capacità di decifrare, sopprimere o potenziare questi canti, nel tentativo di fuggire o di distruggere per sempre il mondo dello scraping continuo. I Tardigradi sono i discendenti di coloro che sono riusciti a fuggire attraverso i Tunnel Stellari. Dopo aver consumato fino in fondo la loro seconda casa, ritornano per ricominciare da capo.

Nel tuo dialogo con l’antropologia critica e gli studi di genere, la performance sembra avere un ruolo sempre più centrale, anche come dispositivo epistemico. Cosa può fare il corpo – performativo, affettivo, vulnerabile – che il linguaggio teorico non riesce più a dire?
Non ho mai pensato che una sola modalità di pensiero possa compiere tutto il lavoro necessario a deviare le rotte delle materializzazioni differenziali. E non sono certo l’unica a pensarlo. Gilles Deleuze, nelle sue lezioni su Spinoza, individuava due modalità di pensiero: l’idea e l’affetto — diverse per natura e non riducibili l’una all’altra. Altri, come Michel Serres e Frantz Fanon, hanno anch’essi riconosciuto il potere trasformativo radicale che risiede nelle pratiche del corpo e nei suoi affetti. Dire la verità (dire vrai, dire la vérité) significa, per me, oscillare tra discorso, affetto e habitus, muoversi sul limite dell’intelligibilità, della praticabilità, dell’abitabilità. Forse, a causa della crisi di intelligibilità che ha segnato la mia infanzia — come racconto in The Inheritance — mi è sempre sembrato evidente, persino necessario, questo alternarsi dei modi del pensare. Per me, il pensiero deve trovare una forma di pratica, altrimenti non è un vero pensiero. E, viceversa, la pratica deve essere fondamento del pensiero, altrimenti quel pensiero non è pensato. La domanda che mi accompagna è quindi sempre questa: come mettere in pratica questa modalità di pensiero? Come trasformare l’intensità affettiva dell’esperienza in pensiero, e poi domandarmi che cosa essa rivela sul mio rapporto con le materializzazioni differenziali di cui sto parlando? E infine: in che modo le idee che formulo su queste intensità corporee e affettive stanno formando l’habitus attraverso cui io stessa mi colloco, mi adatto o resisto a queste stesse materializzazioni?

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