Un invito alla resistenza al vedere convenzionale

Fotografare le Alpi #20. Intervista a Martin Schgaguler

© Martin Schgaguler

C'è una differenza sottile ma abissale tra guardare e vedere: il primo è un atto di consumo visivo, rapido e selettivo, guidato da schemi mentali che filtrano la realtà secondo convenzioni sociali; il secondo è un processo di abbandono, una disponibilità a lasciarsi attraversare dall'intera scena senza fretta di interpretare. Martin Schgaguler, fotografo svizzero-italiano classe 1982 che vive e lavora a Basilea, ha costruito la sua pratica artistica proprio su questa distinzione fondamentale. Le sue immagini non documentano né raccontano: resistono. Resistono alle conclusioni affrettate, alla spettacolarità, alla retorica del sublime alpino. Nel corso di un decennio, dal 2015 al 2025, Schgaguler ha attraversato foreste, coste e spazi urbani, ma sono le Alpi a occupare un posto di particolare risonanza nel suo lavoro perché incarnano perfettamente la sua poetica della sospensione.

Nato a Vipiteno e cresciuto tra questi paesaggi, l'artista ha sviluppato un rapporto intimo con l'ambiente alpino che va oltre la documentazione turistica o l'esaltazione romantica. Le sue fotografie diventano "oggetti di metafora emozionale", contenitori risonanti che traducono in forma visiva sensazioni effimere e tensioni percettive. Ogni immagine aspira a catalizzare la contemplazione della nostra condizione di esseri impigliati in questo mondo sconfinato. Il suo progetto "Withstanding the Gaze", resistere allo sguardo, è programmatico: non si tratta di sopportare lo sguardo altrui, ma di resistere al proprio modo abituale di guardare. È un invito alla presenza, all'apertura, a quella forma di visione più lenta e porosa che permette all'immagine di emergere alle sue condizioni, senza imposizioni esterne.

© Martin Schgaguler

Martin, come nasce questo progetto fotografico?
Non lo definirei un progetto in senso tradizionale: non c'è stato un inizio chiaro né un obiettivo definito. I paesaggi alpini sono stati una presenza silenziosa nel corso della mia vita, sono i luoghi a cui ritorno, sia fisicamente sia mentalmente. Camminare su questi terreni, passando dall'attenzione per una valle stretta all'ampia panoramica delle altitudini più elevate, suscita in me qualcosa di forte. Non si tratta tanto di documentare il paesaggio, quanto di abitare con esso.

Come si declina il tuo progetto alpino?
È un dialogo continuo, come il mio rapporto con le montagne. Queste fotografie nascono dall'esperienza vissuta: sono cresciuto in questi paesaggi che continuano a offrirmi un senso di appartenenza e di pace, ma anche una prospettiva di scala, fragilità e attrito percettivo. Li fotografo non per catturarli, ma per rispondere a ciò che suscitano in me; sono una sorta di specchio che punta non solo verso il mondo naturale, ma anche verso l'interno.

© Martin Schgaguler

Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Tendo a non pensare in termini di opposti o di estremi: questi schemi possono distrarre dalle qualità più sottili ed essenziali dei miei scatti. Ma se dovessi scegliere due immagini, forse non si differenzierebbero per la loro drammaticità visiva ma per l'atmosfera che trasmettono. Non mi interessa la spettacolarità; ciò che mi cattura è il modo in cui la luce, l'aria, la temperatura o il suono creano un certo stato d'animo che si riverbera in me. La pagina del libro che mostra Re Alberto 1°, del 2021, e Polenton, del 2022, potrebbe illustrare questo aspetto. Ci sono poi momenti non legati a una fotografia in particolare ma che rimangono nel tempo, come la sensazione della pietra riscaldata dal sole dopo che il sole è già scivolato dietro una cresta: il calore rimane, come se le rocce conservassero un calore interno che tarda a sprigionarsi. Questi ricordi tattili, anche se non sono mai stati fotografati, danno comunque forma alla mia visione.

© Martin Schgaguler
About the authorSilvia M. C. SenetteSono stata una bambina “multipotenziale” ante litteram. Ora sono una donna “multicomunicativa”: giornalista per curiosità e per una [...] More
Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Non sono sicuro che il mio stile sia riconoscibile in senso convenzionale. Quello che posso dire è che presto molta attenzione alle sottigliezze: texture, cambi di tonalità, tensioni silenziose. A volte costruisco l'immagine in modo deliberato, guidando lo sguardo dell'osservatore; altre volte cerco di creare un campo egualitario dove ogni dettaglio ha lo stesso peso, invitando a una forma di visione più lenta e porosa. In entrambi i casi, mi interessa lasciare che l'immagine si svolga gradualmente, senza imporre un unico significato.

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Non c'era un intento deliberato. Le Alpi fanno semplicemente parte del territorio in cui vivo, tanto geograficamente quanto psicologicamente. Non ho deciso di studiarle o interpretarle. Sono lì e io rispondo a loro.

Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Sì, c'è stato un cambiamento nel tempo. All'inizio ero più interessato a evitare del tutto la composizione, utilizzavo una sorta di metodo di scansione, coprendo sistematicamente il terreno con la macchina fotografica, cercando di eliminare la gerarchia all'interno dell'inquadratura. Ultimamente, invece, mi sono permesso di comporre in modo più intenzionale, di impegnarmi con l'immagine in modo più deliberato. Ma oscillo ancora tra le due cose. Ciò che è costante, è la cura che metto nell'atto di vedere.

Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
Non cerco di "ritrarre" o "immortalare" le Alpi: questi concetti mi sembrano troppo statici. Non cerco di aggrapparmi a nulla. Il mio approccio si basa piuttosto sull'ascolto: cerco di essere in uno stato in cui l'immagine possa nascere dall'incontro piuttosto che essere imposta. Non si tratta tanto di ciò che la fotografia mostra, quanto di ciò che rende possibile.
© Martin Schgaguler

Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Se ho scoperto qualcosa è che la fotografia, se affrontata con attenzione, può servire da indicatore. Non al mondo visibile, ma a qualcosa che sta sotto o oltre. Una fotografia può portare con sé risonanze emotive, intenzioni e sottigliezze; diventa un contenitore, non di informazioni, ma di presenza. Ciò che mi interessa non è ciò che è raffigurato, ma ciò che viene trasmesso nell'atmosfera che lo circonda.

Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Non mi sento legato alle montagne, ma mi sento connesso ad esse. Sono uno dei tanti ambienti in cui mi piace passare il tempo, proprio come le foreste, le città, gli oceani, i deserti o le coste. Ciò che conta non è l'ambiente in sé, ma lo stato di ricettività che invita.

Quale consideri il tuo scatto migliore?
La fotografia non si presta alle classifiche: ciò che risuona oggi potrebbe svanire domani, e viceversa. Per me una fotografia forte è quella che continua a invitarmi a entrare, che mantiene il suo senso di mistero e non si affida alle tendenze o alla spettacolarità per catturare l'attenzione. Forse preferisco domandarmi quali fotografie continuano a parlarmi. E un'immagine che continua ad attirarmi è una fotografia che ho scattato nel 2016 proprio sotto la Petite Aiguille Verte, nel ghiacciaio Argentière delle Alpi francesi. Qualcosa nel terreno fratturato e nelle creste in ombra dissolve la prospettiva: quando la guardo, perdo l'orientamento. L'attrazione gravitazionale è instabile, illeggibile. Questa dissonanza percettiva è parte di ciò che mi spinge a tornare.

© Martin Schgaguler

Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Per me non si tratta di inseguire la novità. Il mio impulso è spesso quello di tradurre in forma visiva qualcosa di interiore, un'emozione, un'atmosfera. Ci sono molte immagini che non ho mai scattato: il più delle volte accade mentre corro, cosa che faccio quasi quotidianamente, perché raramente porto con me una macchina fotografica, quindi spesso mi imbatto in momenti che vorrei fotografare ma non lo faccio. Mi dico che tornerò, ma non lo faccio mai. Quei momenti rimangono irrisolti: vivono come assenze che plasmano il mio modo di vedere, sintonizzando il mio occhio in modo diverso, rendendolo più poroso, più attento.

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