Il bianco e nero delle Dolomiti, tra tecnologia e natura
Fotografare le Alpi #19. Intervista a Niccolò Biddau

© Niccolò Biddau
Niccolò Biddau si muove con la precisione di un artigiano e la visione di un poeta. Fotografo analogico, cultore del bianco e nero, ha attraversato generi diversi - dal reportage all'industria, dall'architettura al design - mantenendo sempre una coerenza stilistica riconoscibile. Il suo progetto "Proud to be Dolomiti Superski" racchiude dieci scatti che raccontano il complesso dialogo tra la maestosità delle montagne e la tecnologia che ne permette la fruizione.
"Sono laureato in storia contemporanea - racconta - e nei miei progetti fotografici questa metodologia di analisi e di ricerca è fondamentale, pur mantenendo sempre quell'elemento di sorpresa, di stupore". La fotografia, per Biddau, è una questione di famiglia: la passione l'ha ereditata dal padre, preside ma fotografo nell'anima, i cui scatti in bianco e nero degli anni '50 e '60 hanno formato il suo sguardo. Oggi, a 58 anni, dopo aver fotografato circa 600 industrie italiane in tutti i settori produttivi, Niccolò Biddau ha sviluppato un linguaggio visivo rigoroso e inconfondibile. Il progetto sulle Dolomiti nasce da un'esigenza precisa di Dolomiti Superski: comunicare in modo distintivo il proprio comprensorio. "Ho suggerito di evidenziare dal punto di vista iconografico e fotografico la relazione unica tra la tecnologia e il paesaggio che si integrano molto bene e, anzi, spesso le infrastrutture vanno a tutelare e preservare la natura" spiega.

Niccolò, come nasce questo progetto fotografico?
Gerhard Vanzi, ex direttore marketing del comprensorio, e il presidente di Dolomiti Superski Andy Varallo mi avevano esplicitato la loro esigenza. Insieme a loro ho ragionato e sviluppato il progetto e mi hanno supportato dal punto di vista operativo. Gli scatti sono stati immortalati anche al mattino molto presto: un dietro le quinte che ha funzionato perfettamente. Le location del comprensorio dolomitico le abbiamo battute tutte, dalla Marmolada al Lagazuoi alla Val Gardena.
Ho fotografato con la macchina analogica di medio formato, quindi a pellicola, sempre con il cavalletto e in bianco e nero. Tutto questo richiede tempi dilatati rispetto alle macchine digitali che si usano oggi. Hai una pellicola con 10 scatti e questo implica che prima di scattare deve essere tutto perfetto, in linea, non puoi permetterti troppi errori. Ad Arabba per esempio, sono stato in mezzo alla neve fresca per mezza giornata, piantato con il cavalletto, aspettando la luce giusta, perfetta. La fotografia è anche questo: osservazione, pazienza e resilienza in rapporto al tempo, soprattutto per la fotografia di paesaggio.
Quali le due immagini più "estreme", i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
Da un lato, lo scatto in Val Gardena sotto il Sassolungo: la geometria perfetta della pista appena battuta, con i solchi regolari che disegnano pattern sulla neve immacolata, e in primo piano il battipista, elemento tecnologico che dialoga con la maestosità della vetta sullo sfondo. È un'immagine che racconta la precisione umana in contrasto con l'imponenza naturale. All'estremo opposto, la fotografia alla partenza della Marmolada: due minuscole figure di sciatori si stagliano contro l'immensità delle Dolomiti in una prospettiva aerea che amplifica la vastità del paesaggio. Qui il punto di vista cambia radicalmente, l'uomo diventa un elemento quasi impercettibile ma determinante, pronto a tracciare effimere linee sulla neve che presto il vento cancellerà.


Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Certamente il bianco e nero e un rigore formale, una pulizia della composizione dell'immagine: questi sono i due tratti principali. E poi tendo sempre a cercare quel punto nello spazio che definisce una storia all'interno dello scatto. Una fotografia per me deve contenere due elementi che sono un aspetto emozionale e un elemento di informazione, di contenuto. Io opero per sottrazione: una cosa difficile, ma molto importante. La fotografia gioca sul positivo e negativo; quando inquadri, tu cancelli tutta la realtà che c'è intorno, all'interno di quell'area vai a costruire una storia. Uno scatto è una dichiarazione politica, una scelta molto precisa.
Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
È stata una spinta non legata a una fotografia naturalistica, ma rispondeva all'esigenza di una committenza, di unire e creare questo dialogo tra tecnologia e paesaggio. Il maggiore stupore di fronte a questo comprensorio così importante è scoprire che sono montagne vive, dove veramente si articola una socialità molto diversa rispetto alle montagne che abbiamo in Piemonte: paesi costituiti da seconde case e quindi tendenzialmente spopolati durante la settimana o nelle stagioni intermedie. Quello che mi ha colpito molto delle Dolomiti è stato trovare delle montagne popolate.
Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Direi di no, perché si trattava di un lavoro compresso in un paio di mesi, quindi c'è stata una linearità di linguaggio, di ripresa. Se lo facessi oggi, a distanza di 8 anni, potrei avere un livello interpretativo differente ma dipenderebbe dagli obiettivi di comunicazione o da quello che mi viene richiesto di produrre con un'immagine. Con gli anni, con l'esperienza, il linguaggio si affina e probabilmente ci sarà stata una maturazione di linguaggio.
Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
Avere un obiettivo narrativo molto preciso richiede la conoscenza degli ambiti all'interno dei quali ti devi muovere, quindi un'analisi preliminare dei soggetti, dei temi. Coniugare due temi così distanti tra loro, come la tecnologia e il paesaggio, che sono quasi agli antipodi, e trovare quel punto di equilibrio intermedio mi ha richiesto molta attenzione, ragionamenti. Poi è l'istinto che a un certo punto ti guida. Non è solo documentazione, è un'emozione tradotta in immagine, un momento di connessione totale con quel luogo che spero arrivi intatto anche a chi osserva la fotografia.

Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
La scoperta è stata duplice, legata ai due temi: la bellezza e la vastità, ma anche questa organizzazione importantissima, l'alto livello di tecnologia e di investimenti che pochi si immaginano. C'è questa capacità di mantenere e valorizzare l'habitat, un ecosistema che dialoga molto bene al suo interno. Credo sia un esempio tra i comprensori sciistici in Italia assolutamente unico.
Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Scio da quando ho quattro anni, i miei primi sci erano dei pezzi di legno, negli anni '70. Oggi tendenzialmente scio quando c'è bel tempo, mezza giornata, spesso con mia figlia Beatrice, ma non più in modo così continuativo, solo per piacere di sciare e stare a contatto con la natura. Il mio è un rapporto da tempo libero con la montagna: tranquillo. Mio nonno era del 1884, un vecchio alpino, ed è sempre stata presente la montagna nella vita, anche nei racconti.
Quale consideri il tuo scatto migliore?
È difficile scegliere, ma l'immagine della Marmolada ha qualcosa di speciale. Mi sono trovato immerso nella neve fresca, il respiro sospeso davanti a quelle cime che emergevano nitide nella luce radente. Ho lavorato sui contrasti, lasciando che le ombre profonde disegnassero la morfologia della montagna, guidando lo sguardo tra valli e creste. In quel fotogramma c'è tutto: il silenzio tagliente dell'alta quota, la potenza delle rocce secolari, la luce che sembra scolpire il paesaggio come un cesello.

Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Io lavoro su progetti abbastanza complessi, articolati, non ragiono mai soltanto su singole immagini. Sono progetti che richiedono tempi di studio, di metabolizzazione, di relazione sovente; entro in luoghi difficilmente accessibili, industrie, quartieri, campagne. Il prossimo progetto, ma in realtà due o tre, li ho già in mente e richiedono una certa articolazione di pensiero che va oltre il singolo scatto. Lo scatto, però, deve essere perfetto.