“Ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane...”

La natura silenziosa dell’arte. Un’intervista a Silvia Concari

© Giovanni Mantovani

Siamo fratelli vegetali
io dietro i vetri vi chiedo protezione e agguato
voi all'aria aperta
mi stringete
una promessa di ramo.
Chandra Livia Candiani

In un mondo che corre veloce, il respiro lento della poesia e della natura diventa un rifugio, uno spazio in cui fermarsi e ascoltare ciò che spesso sfugge. La lentezza diventa allora un atto di cura, un invito a riscoprire il silenzio e l’invisibile, a sentire la voce silenziosa delle cose. “Ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane...” è un verso che apre le porte a un dialogo tra il naturale e l’arte, una mostra che nasce dall’intreccio di poesia e installazioni contemporanee. Curata da Silvia Concari e Nadia Melotti, la mostra si snoda tra le sale di Palazzo Carlotti e Palazzo Ederle a Caprino Veronese, unendo diversi linguaggi artistici e poetici in un percorso che invita il visitatore a fermarsi, a guardare oltre, a riscoprire il significato di un tempo sospeso. Le opere, visibili fino al 31 maggio, ci parlano di una bellezza che si rivela nella quiete e nella riflessione, nell’incontro tra la materia e l’invisibile.

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Silvia, il titolo della mostra è estremamente evocativo. Come è nato e cosa suggerisce al visitatore ancora prima di entrare nello spazio espositivo?
Il titolo ci ha colpito fin da subito perché non è soltanto un’intestazione, ma un vero e proprio statement poetico. Non volevamo un titolo didascalico, che riassumesse il progetto curatoriale, ma qualcosa di autonomo, vivo, capace di parlare da sé. “Ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane...” è un verso tratto da La pioggia nel pineto di D’Annunzio: ha in sé già tutta la forza della poesia, e ci è parso naturale lasciarlo agire così, nella sua interezza. Questo verso suggerisce una direzione: quella di un ritorno all’invisibile, al silenzio necessario dell’arte e della poesia. La mostra si muove tra due poli: da un lato l’aria e la voce, evocate dalla parola poetica, dall’altro la materia e la terra, presenti nelle opere installative. C’è un elemento sinestetico nel titolo, un passaggio fluido tra suono, immagine e sensazione, che apre a una dimensione di dissolvenza, di ascolto rarefatto. Non a caso, questo stesso titolo è stato ripreso anche per una delle sale della mostra, dedicata all’opera di un’artista che ritrae foglie: come a suggerire che ogni frammento naturale custodisca già un linguaggio, un’intimità segreta. Il naturale è un filo sotterraneo che percorre tutta la mostra, ma mai in modo letterale. L’intento era quello di riflettere su un futuro possibile in grado di allontanarsi dalla logica della produzione e della performatività, per tornare all’essenziale invisibile che ci tiene in vita.
© Giovanni Mantovani

Quali sono stati i criteri principali con cui hai scelto le opere e gli artisti presenti in mostra?
La selezione è nata da un lavoro condiviso con Nadia Melotti, curatrice con una lunga esperienza nel campo della didattica museale al Mart. Abbiamo unito le nostre sensibilità e conoscenze, intrecciando percorsi artistici appartenenti a generazioni molto diverse tra loro. Il criterio guida è stato quello di coinvolgere artisti capaci di lavorare con il linguaggio dell’installazione, inteso non solo come tecnica, ma come attitudine immersiva, come modo di pensare lo spazio e il tempo dell’opera. Ci interessava che ogni artista avesse un approccio personale e riconoscibile, ma anche una ricerca sul mistico, sul non visibile, su forme di spiritualità o riflessione che andassero oltre il dato materiale. Alcuni si interrogano sul rapporto con la natura, altri sulla morte, altri ancora su visioni di futuro possibile. Tutti, però, condividono una tensione verso un immaginario rinnovatore, che prova a pensare alternative alla realtà presente. La mostra raccoglie voci eterogenee anche per provenienza e per età: da artisti maturi come Enzo Peretti a giovanissimi nati nel 2000, perché volevamo comprendere come ciascuno, con la propria esperienza e visione, affronti il bisogno profondo di un cambiamento, di una rigenerazione poetica e spirituale del mondo.

© Giovanni Mantovani

In che modo le “parole più nuove” e gli elementi naturali come “gocciole e foglie lontane” si traducono visivamente nel percorso espositivo?
Gli elementi naturali, così come l’ambiente che li accoglie, attraversano in modo sottile ma costante molte delle opere in mostra. Fin dall’inizio, abbiamo lasciato agli artisti massima libertà di scelta, anche sul piano poetico: ciascuno ha potuto associare alla propria opera una poesia, un testo lirico capace di restituire la propria visione attraverso un altro linguaggio. Ne è nato un dialogo profondo tra parola e immagine, tra lirica e installazione, che ha influenzato anche i processi di ideazione e produzione. La natura è emersa spontaneamente come esigenza condivisa. Molti artisti hanno sentito il bisogno di indagare un ritorno al mondo vegetale, inteso come luogo di rigenerazione e rinnovamento. Chiara Castagna, ad esempio, esplora la geometria sacra racchiusa nelle foglie, svelando nel dettaglio naturale una perfezione cosmica. Federica Gottardello, nella sua Sala dei Sogni, trasforma visioni oniriche e grottesche del Seicento in un linguaggio vegetale ispirato a una poesia di Chandra Livia Candiani, dove si evocano “sentinelle vegetali” e ramificazioni dell’anima. Lucia Amalia Maggio ha invece creato un’installazione site-specific: un intreccio sospeso di filo di ottone dorato che richiama la corteccia di un albero, una forma che si libra nello spazio come ponte tra la terra e il cielo. Il percorso espositivo diventa così un paesaggio interiore, dove le “parole più nuove” si fanno materia, e le “foglie lontane” parlano davvero, attraverso opere che ascoltano la natura con occhi nuovi.

© Giovanni Mantovani

C’è un’opera che ritieni particolarmente significativa per comprendere il cuore della mostra?
Credo che il lavoro di Federica Gottardello sia particolarmente emblematico per cogliere il senso profondo della mostra. Non solo per la qualità della sua ricerca, ma anche per il modo in cui ha saputo accogliere e restituire lo spirito del luogo. Federica si è lasciata toccare profondamente dalla Sala dei Sogni, uno spazio straordinario decorato con enigmatiche raffigurazioni seicentesche: scene che mescolano elementi orientali, mitologici, simboli di guerra e visioni oniriche. Queste immagini sono state per lei una fonte di ispirazione potente. Le ha rielaborate in una sorta di controvolta eterea, sospesa e trasparente, trasformandole attraverso un lento lavoro manuale: ago e filo su carta. Con pazienza meditativa, ha ricamato quelle visioni ridonando loro nuova vita, trasfigurandole in figure animali e vegetali dal tono poetico, delicato, quasi sognante. Come accennato poc’anzi, poesia che accompagna il suo lavoro è di Chandra Livia Candiani e invita a farsi “sentinelle vegetali”: un’immagine che attraversa l’intera installazione e che ben sintetizza lo spirito della mostra. Il gesto lento, attento, ripetuto di Federica è stato anche un atto di ascolto, un modo per stare nel tempo lungo dell’attesa e dell’invisibile. È proprio da qui che nasce quella tensione tra materia e sogno, tra ricordo e possibilità, che abita l’intero progetto espositivo.

C’è un pensiero, un’immagine o una frase che vorresti restasse nel cuore di chi visita l’esposizione?
Il pensiero che più mi preme condividere è il bisogno di cura che attraversa, come un filo silenzioso, tutte le opere e le poetiche degli artisti coinvolti. Un bisogno che riguarda noi stessi, le nostre fragilità, ma anche il mondo che ci circonda. È il desiderio di ritrovare il silenzio, di abitare uno spazio di contemplazione, di ascolto, di meraviglia. Penso spesso al verso scelto da Matteo Trentin, tratto da una poesia di Franco Arminio: “Concedetemi alla luce e al silenzio”. Una frase che racchiude l’essenza di ciò che vorremmo lasciare nel cuore di chi attraversa questa mostra: la possibilità di rallentare, di fermarsi, di ascoltare ciò che si muove nel visibile e nell’invisibile. È un invito ad andare in punta di piedi, a prendersi cura delle proprie ferite per poter intravedere nuove visioni. Personalmente, esco da questo progetto profondamente nutrita: per la sintonia profonda che si è creata con l’universo degli artisti, per la coerenza tra contenuto e ricerca, per la fiducia ricevuta. E trovo importante che un comune periferico come Caprino Veronese abbia saputo accogliere una proposta tanto delicata e complessa, dando spazio a visioni poetiche e necessarie. La risposta del territorio, generosa e attenta, è stata anch’essa una forma di cura.

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