Fammi essere foglia. Rituali di fragilità condivisa
Il nuovo progetto di Francesca Fattinger a Le Garage Lab

© Valentina Casalini
Tiro la vita per una foglia: si è fermata? Se n’è accorta? Si è scordata dove corre, almeno per una volta?
C’è una saggezza silenziosa che abita le foglie. Non quella che si impone, ma quella che osserva, accompagna, e infine insegna. Le foglie non gridano mai. Cadono senza far rumore, ma nel loro gesto c’è tutta la fiducia in un ciclo che si rinnova, sempre.
È da questa verità umile e potente che nasce Fammi essere foglia, il progetto di Francesca Fattinger, che prende forma dal primo luglio 2023 e che sta per divenire mostra, incontro, rito collettivo. Dal gesto intimo del raccogliere una foglia al giorno — gesto di cura, di ascolto, di ricomposizione — si apre uno spazio più ampio, dove la fragilità personale si intreccia a quella degli altri e della natura, dando vita a un tempo sospeso, condiviso, profondamente umano.
Dall’8 all’11 maggio, lo spazio Le Garage Lab di Trento accoglierà questo cammino sotto forma di esposizione sensibile e immersiva: una costellazione di immagini, suoni, presenze che raccontano il legame sottile tra esseri umani e foglie. Le fotografie di Valentina Casalini saranno lo specchio visivo di un processo che ha coinvolto trenta persone, diverse per età e provenienza, unite dal desiderio di riconoscersi fragili e forti allo stesso tempo.
Ogni immagine custodisce un gesto delicato: una foglia che si lascia accogliere tra due mani, uno sguardo che si piega verso terra, un incontro che si fa sacro. Ogni passo dentro la mostra è un invito a rallentare, a respirare insieme alla natura, a farsi attraversare da quella trama invisibile che ci lega a ciò che vive attorno a noi.
Fammi essere foglia non è solo una mostra. È un ritorno all’essenza. È un modo di abitare il mondo, con attenzione, con tenerezza, con l’umiltà di chi sa che, come le foglie, possiamo cadere senza paura, perché anche nella caduta c’è la promessa di una rinascita.

Il progetto si è trasformato da un gesto quotidiano intimo a un’esperienza collettiva. Come hai vissuto questo passaggio dal personale al corale? In che modo la presenza degli altri ha riscritto il senso del tuo cammino?
Fin da subito, il desiderio di pubblicare le foto delle foglie era un modo per rivolgermi a una comunità, a chi mi era vicino ma anche a chi non conoscevo. Anche se il gesto nasceva da un’esigenza intima, profonda — un bisogno di guarigione, in cui la natura era per me conforto e rifugio — sentivo il desiderio di condividere come stavo, di farlo percepire anche agli altri. Era un rituale, e questa parola ha per me un significato essenziale: qualcosa che si ripete, che dà ritmo e continuità. Il raccogliere foglie non è stato un atto occasionale o passeggero: aveva regole che mi ero data (ma che potevo mutare consapevolmente), spazi, tempi precisi. Era una pratica quotidiana, che però non mi costringeva. È durata un anno, e oggi continua in una forma più interna, più silenziosa. Quando ho cominciato, sentivo che quel gesto personale aveva bisogno di allargarsi, di diventare collettivo. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma sentivo la necessità di mostrare agli altri quello che stava accadendo dentro di me. Volevo lasciare andare le mie foglie, condividerle. E fin da subito qualcosa è accaduto: sono iniziate ad arrivare foto, messaggi, foglie raccolte da amici e da sconosciuti. Persone che, vedendo una foglia per strada, pensavano a me. Ecco, qualcosa si era creato: un filo sottile tra me, le foglie e le persone. Un’eco condivisa. Una comunità silenziosa di ricercatori e ricercatrici di fragilità, bellezza, attenzione.

Attraverso la cura delle foglie e il rituale della lentezza, "Fammi essere foglia" ha costruito una comunità nuova, fondata sull'ascolto e sulla delicatezza. Nellla pratica cosa è accaduto?
Tutto si è trasformato in un incontro reale: la raccolta quotidiana, che era nata come un’esperienza intima e personale, si è intrecciata con la comunità delle persone che avevano seguito il progetto, fino a portarci a incontrarci davvero, concretamente a Le Garage Lab. Volevo che quello che avevo vissuto su di me — questo "bagno" di foglie sul viso, questo contatto diretto che mi aveva portato beneficio, presenza, consapevolezza rinnovata — potesse essere condiviso. È stato grazie a un amico che mi ha spinta a riflettere più a fondo sul rapporto tra il mio corpo e quello delle foglie che un’esperienza a due, tra me e loro, si è trasformata nella sorgente di un’idea più grande: creare un’esperienza comunitaria. Un momento di contatto e di ascolto estremamente delicato. Toccare le foglie, ormai secche, richiedeva un’attenzione assoluta: erano diventate leggere, fragili e allo stesso tempo eterne. Così come è fragile e sacro ogni gesto di cura tra esseri umani, così come va trattata ogni relazione tra umani e natura. In quelle due serate di novembre si è creata una bolla magica: uno spazio sospeso dove abbiamo potuto imparare a portare quella lezione di delicatezza, di rispetto, di ascolto profondo anche nelle nostre vite quotidiane. Un percorso che è nato da me e dalle foglie, si è aperto alla comunità, ed è diventato ancora più grande, un gesto condiviso di cura reciproca.
Il suono, l'mmagine, il gesto: la mostra intreccia linguaggi diversi. Come avete pensato, con Margherita Cestari, Valentina Casalini e Massimiliano Santoni, di far dialogare tutti questi elementi, per creare un’esperienza immersiva e sensoriale?
Fin dall’inizio ho sentito la necessità di coinvolgere delle professioniste che potessero aiutarmi a rendere il progetto ancora più ampio, condivisibile, vivo. Grazie alla cura di Margherita Cestari, ho potuto prima pensare all’esperienza in sé, lasciandola fiorire pienamente, per poi tradurla in forma di mostra. Decisivo è stato anche l’incontro con Valentina Casalini: è stata il nostro "occhio cuore", capace di guidare, dietro le quinte, tutto il percorso. Con grande sensibilità, ha saputo cogliere i momenti più intimi e autentici di quell’esperienza a due, quando le mani carezzavano le foglie e il contatto generava un ascolto profondo. Per ogni coppia di partecipanti abbiamo scelto dalle due alle quattro fotografie, tracce preziose di quell’incontro. Fondamentale è stato anche l’elemento musicale. Durante l’esperienza, in sottofondo, risuonava in loop l’album di Massimiliano Santoni: una trama sonora che avvolgeva ogni gesto, ogni respiro, trasformando l’incontro in un rinnovato rituale comunitario. Il suono delicato delle foglie tra le mani, intrecciato alla musica, dava l’impressione di entrare in un bosco incantato, dove esseri umani e natura vivono in perfetta simbiosi, rispettandosi a vicenda.

Guardando oggi l'intero percorso, dal primo scatto fino alla mostra a Le Garage, quale nuova consapevolezza senti di aver coltivato dentro di te attraverso il contatto quotidiano con la fragilità e la resilienza delle foglie?
Ho imparato, prima di tutto, la meraviglia della diversità. La forza gentile dell’essere comunità, in ogni senso possibile: nella cura reciproca, nel rispetto delle fragilità, nella celebrazione di ciò che ci rende persone uniche. In quelle due serate di novembre, abbiamo davvero creato una comunità. Le professioniste che mi hanno accompagnata, le persone che si sono lasciate attraversare dall’esperienza, la natura che ci ha fatto da guida: tutte insieme abbiamo tessuto una rete nutritiva e viva, fatta non per uniformare le differenze, ma per renderle strutture portanti. Le fragilità, dentro questa rete, sono diventate punti di forza. Quello che era nato come un gesto intimo, un piccolo atto quotidiano di cura personale, si è trasformato in un atto collettivo, condiviso. Un gesto che resiste all’urgenza del fare veloce, e chiede tempo, ascolto, presenza. Tra i doni più preziosi che ho ricevuto ci sono le parole delle persone che hanno partecipato. Le loro riflessioni prima e dopo l’esperienza raccontano molto più di quanto potessi immaginare. Ricorrono spesso due parole: gratitudine e dono. Una partecipante ha scritto: “La delicatezza delle foglie sul mio corpo mi ha dato un senso di pace e serenità, come l’abbraccio di una madre.” Ecco cosa abbiamo coltivato: un sentire comune, fatto di ascolto, lentezza, memoria. Un abbraccio condiviso, come quello delle foglie.