Gli esercizi della cura, i gesti dell’empatia
Intervista a Samira Mosca

© Anna Cerrato
© Anna Cerrato
C’è un punto, nel corpo, dove la mente si fa carne. Un punto sottile, quasi invisibile, in cui il pensiero si piega alla materia, e la fragilità si lascia toccare. È da lì che parte il lavoro di Samira Mosca, artista, fotografa e curatrice nata a Bolzano nel 1995, che fa della vulnerabilità una lente d’ingrandimento per osservare la realtà e se stessa. Nella sua pratica, cura ed empatia non sono concetti astratti, ma esercizi tangibili, gesti precisi, immagini che prendono forma in ceramica, fotografia, performance.
La sua arte si muove con delicatezza nei territori intimi del sentire, dove le emozioni si inscrivono nel corpo, e il corpo diventa archivio di esperienze, dolori, guarigioni. Le sue opere abitano uno spazio di ascolto e relazione, in cui le distanze si riducono e ci si scopre simili: in bilico, in cerca di equilibrio tra mente e pelle. In una società che corre veloce, che chiede efficienza e controllo, Samira propone un rallentamento. Un modo diverso di stare al mondo, dove la gentilezza ha il peso di un materiale modellato a mano e la ferita non è un errore, ma una forma possibile dell’essere: una crepa da cui fuorisce la luce.
È così che con la mostra “Il corpo della mente. Esercizi di cura ed empatia”, a cura di Nicolò Faccenda, Samira Mosca inaugura oggi alle 18.30 la stagione espositiva 2025 dell’associazione culturale lasecondaluna, mostrando al pubblico due suoi progetti profondi e complementari: Interspace (2017–2024) e omer(o).
L’esposizione diventa così un’occasione preziosa per immergersi nell’approccio poetico e delicato di Samira, che attraverso la sua arte costruisce spazi di ascolto profondo, dove fragilità e relazione diventano parole chiave. Il corpo, la mente, l’Altro: sono questi i poli di un dialogo sottile e necessario, che Samira intreccia con materiali tangibili e gesti intimi, mettendo in discussione la separazione netta tra ciò che si sente e ciò che si vede.

Samira, come nasce il titolo "Il corpo della mente" e cosa tiene insieme le opere in mostra?
La mostra riguarda due progetti che ho sviluppato negli ultimi anni, e il titolo è particolarmente evocativo proprio perché li mette in connessione: sono lavori che esplorano il rapporto tra corpo e mente. Il focus in entrambi è sulla materia e sul tentativo di rendere visibile anche un pensiero, una parte mentale. L’obiettivo è cercare di riconnettere queste due entità che, nel mondo contemporaneo e in ambito sanitario, vengono spesso tenute separate: da un lato il corpo, dall’altro la psiche. Ma questa divisione è artificiale e, a mio avviso, faticosa e difficile.
Questa connessione profonda tra corpo e mente è al centro anche del progetto Interspace, che accompagna Samira Mosca dal 2017. Ma com’è nato, e da quale intuizione ha preso forma?
Il primo progetto si è sviluppato in Lituania, intorno all’idea di rendere fisicamente tangibile una tensione percepita dal corpo durante l’allenamento della danza classica. Durante queste sessioni si mantengono posizioni per lunghi periodi, e così gli spazi vuoti che il corpo crea in quegli sforzi si fissano, diventano materia, e prendono forma in sculture di ceramica.

Con il tempo, e con una maggiore consapevolezza, ho sentito il bisogno di ampliare il campo, approfondendo il tema della salute mentale e della psicosomatica, cioè di come mente e corpo si influenzino reciprocamente. Nel 2021 ho realizzato Interspace 2.0 per BAW: una serie di sculture in ceramica che nascono da un gesto – un contatto che si può fare su di sé o sugli altri. È un modo per riconnettere il pensiero al corpo, alla pelle, alla carne. È un gesto che mi ha insegnato la mia psicologa, per aiutarmi a restare nel presente quando la mente fugge dal controllo: è un tocco per tornare al qui e ora.
Nel Capitolo 3 di Interspace, affronti un tema ancora più complesso e urgente: quello dei disturbi del comportamento alimentare. Come sei arrivata a connettere l’aspetto culturale dell’identità con la percezione corporea?
Mi sono concentrata sui modelli culturali che influenzano il nostro modo di percepirci. La cultura ci propone continuamente modelli di immagine e comportamento che possono compromettere l’equilibrio tra mente e corpo. Da qui nasce il mio interesse per la dismorfofobia: ho voluto proporre una sorta di ‘contro-immagine’ alla percezione distorta del proprio corpo. Le mie sculture diventano uno spazio di compensazione e di cura, in cui recuperare le parti percepite come imperfette o eccessive.
Come si manifesta visivamente questo processo di cura e di risignificazione del corpo?
In questo capitolo gli ‘inter-spazi’ prendono la forma di vasi in ceramica che contengono rametti di vischio. Il vischio è una pianta parassita, ma vive in simbiosi con l’albero che lo ospita: ecco, questa simbiosi è per me un’immagine di equilibrio possibile, un’alleanza tra fragilità che genera nuova vita.
Accanto a Interspace, la mostra presenta anche omer(o), un ciclo fotografico molto personale. Da dove nasce questo lavoro?
omer(o) nasce da una necessità intima: era il periodo in cui mio nonno conviveva con la demenza senile, e io cercavo un modo per stargli accanto. Con la fotografia ho provato a entrare nella sua mente, a restituire quella distorsione del pensiero, della memoria e della percezione dei luoghi e delle persone. È stato il mio modo per costruire empatia, per capire come ci si può avvicinare davvero all’Altro, anche quando la comunicazione verbale viene meno.
E cosa accadrà il 10 maggio, durante la performance che concluderà la mostra?
Sarà un’evoluzione del progetto Interspace, Capitolo 4. In continuità con il capitolo precedente, che indagava i disturbi alimentari, questa nuova tappa si concentra sugli effetti della malnutrizione e sulla simbiosi mente-corpo. Cercherò di raccontare come uno squilibrio chimico nel corpo possa influenzare il pensiero, e viceversa, come pensieri ossessivi possano trasformare il corpo. È un ciclo difficile da spezzare, ma è proprio in quel ciclo che cerco spazi di resistenza e trasformazione.

Alla fine della nostra chiacchierata, una parola torna più volte: cura. Che cos’è per te, oggi, prendersi cura?
Cura è avvicinarsi con attenzione, ascoltare proprio sè e l’Altro, provando a coltivare uno sguardo gentile. È un modo di stare al mondo, è una postura con cui si scelgie di abitare il mondo, che si oppone radicalmente alla frenesia e alla durezza del presente, scegliendo invece la lentezza, la morbidezza, la gentilezza. E accogliendo la fragilità non come un limite, ma come una possibilità: un luogo in cui generare forza.