La pittura è un corpo che fiorisce

L’arte di Margherita Paoletti

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Ho incontrato l'artista Margherita Paoletti in un tempo sospeso, uno di quei giorni in cui l’aria sa di foglie e possibilità. È arrivata con passo leggero, ma con la presenza di chi abita davvero il proprio mondo interiore. Le sue mani raccontano, anche quando non dipingono. La sua voce ha il timbro di chi conosce l’arte della cura, e la esercita ogni giorno – con i colori, con le linee, con l’attenzione che si riserva alle cose fragili e vive.

Margherita dipinge con pazienza, ascoltando i ritmi del corpo e della natura. Nei suoi lavori, i corpi sono paesaggi attraversati da linfe e sogni, spazi porosi in cui germinano fiori, ali, radici. Le sue immagini non spiegano, accolgono. Non impongono un senso, ma aprono possibilità. Sono come un vino buono: raccontano storie diverse a seconda di chi lo assaggia, a seconda del momento in cui si beve.

Parlando con lei, ho sentito risuonare anche le tappe del suo percorso, che si riflettono nel modo in cui guarda il mondo: lo studio all’Istituto Europeo di Design di Roma, l’esperienza a Londra, al Central Saint Martins College of Art and Design, e poi a Berlino, all’Accademia di Belle Arti. Infine Urbino, con la specialistica in illustrazione all’ISIA. Ogni città sembra aver lasciato un’impronta nel suo sguardo – che è insieme delicato e radicale. Oggi vive a Trento, in un equilibrio silenzioso con le montagne, e collabora con Cellar Contemporary, Magazeeno Art Gallery e Bonobolabo. Nel 2023 ha ricevuto il World Illustration Award, ma la sua voce creativa continua a evolversi, radicandosi ancora di più nei territori della bellezza e della materia. Come nel suo ultimo progetto per Cantina La-Vis, storica cooperativa vitivinicola nel cuore del Trentino, che ha affidato a Margherita il rilancio della Linea Ritratti: sei nuove etichette, ispirate ad altrettante opere d’arte originali, che raccontano le sfumature e l’eccellenza delle Colline Avisiane.

Con Margherita, l’arte si fa gesto quotidiano, si posa sul mondo con la grazia di una foglia che cade, silenziosa. E ci invita, ogni volta, a riabitare i nostri sensi. Con più attenzione. Con più amore. Con più cura.

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Come ti sei avvicinata all’arte, Margherita?

About the authorStefania Santoni Sono nata nel cuore di una fredda notte di gennaio, tra il bagliore della luna piena e il [...] More
All’inizio il mio orizzonte era chiaro, ordinato: immaginavo un percorso professionale tra grafica e illustrazione, esplorando con curiosità le possibilità dell’incisione. La pittura, invece, sembrava lontana, non ancora mia. Poi qualcosa si è mosso. È bastato un incontro – con Cellar Contemporary e con le anime che la abitano – perché tutto cambiasse. Le mie opere, allora, erano attraversate da segni simili a tatuaggi, piccole narrazioni incise sulla pelle della carta. Fu proprio quell’estetica, quel modo di raccontare con il corpo e attraverso il corpo, ad attirare l’attenzione e ad aprirmi nuove strade. La prima mostra arrivò poco dopo, a Ferrara, in una vecchia caserma dei vigili del fuoco. Uno spazio underground, ruvido, vivo. Quando entrai per la prima volta in quel luogo silenzioso e vasto, sentii un vuoto che chiamava forma, colore, voce. Una soglia. Un bisogno nuovo – quasi viscerale – di dipingere. Fu come se qualcosa si fosse risvegliato: una sorgente interiore, una forza che non conoscevo ancora. Intanto, anche dentro di me stava avvenendo una trasformazione profonda. Pochi mesi prima avevo ricevuto la diagnosi di una malattia cronica. Il mio corpo, la mia sensibilità, il mio tempo avevano assunto un ritmo diverso. È in quella soglia fragile, in quella rinascita silenziosa, che è nata davvero la mia pittura. Ogni pennellata diventava un atto di cura, ogni figura un modo per ascoltare e accogliere il cambiamento. Da quel momento, la mia ricerca ha preso forma: indagare l’identità, esplorare la relazione tra il dentro e il fuori, raccontare la natura che ci attraversa, anche quando ci spezza, anche quando ci guarisce.

Il tema del corpo e della malattia hanno influenzato il tuo lavoro…

Il cuore della mia mostra a Ferrara era il sogno. Mi affascina da sempre l’idea che dentro di noi non vi sia luce, ma un buio profondo. Un buio fertile, misterioso, da cui possono nascere visioni. Da questa riflessione è nata l’urgenza di creare radiografie dell’anima: corpi femminili attraversati da un universo segreto, fatto di fiori, radici, linfa e presenze silenziose. La natura si rivela all’interno, come un giardino nascosto che pulsa sotto la pelle. Il motivo vegetale, insieme a simboli archetipici come il cuore, ritorna spesso nel mio lavoro: diventa una grammatica intima e insieme universale. Spesso emergono animali, apparizioni primordiali che sembrano affiorare da sogni antichi, o da uno spazio liminale tra memoria e desiderio. La mia poetica nasce da lì, da questo microcosmo interiore che cerco di tradurre in immagini. Spero che chi guarda possa riconoscersi, rispecchiarsi, trovare una traccia di sé. La mia formazione come illustratrice mi accompagna in questo: mi ha insegnato a raccontare senza parole, a lasciare che siano le immagini a sussurrare significati, a stratificare intenzioni, emozioni, storie. Penso al cuore, per esempio: un organo, certo, ma anche un simbolo magico, un centro pulsante dove si annodano vita e emozioni. Quando lo ridisegno, lo trasformo, lo popolo di elementi inusuali, apro varchi interpretativi che spaziano dal mistico al sacro. Il pensiero magico che attraversa le mie opere nasce anche dai viaggi: l’India, in particolare, ha lasciato in me una traccia profonda. Lì ho incontrato il buddismo e una visione del mondo in cui sacro e profano convivono con naturalezza. Amore e violenza, conquista e compassione: in quella complessità ho trovato ispirazione per immaginare nuovi mondi e nuovi linguaggi visivi.

© Federico Masini

Mi racconti del progetto “Sonde Croniche”?

Sonde Croniche” è nato da un tempo difficile, un tempo in cui la malattia mi stringeva in una morsa. Sentivo il bisogno di raccontare, di dare forma a ciò che mi stava accadendo. Così è nata Lea: capelli blu, corpo tatuato, un alter ego onirico e potente. Attraverso di lei ho potuto rielaborare i miei giorni in ospedale: le diagnosi, gli esami, l’attesa, il contatto con i medici. Ma tutto, nella narrazione di Lea, si trasforma. I dottori diventano uomini-uccello, gli esami si mutano in mappe da decifrare, e Lea cavalca una tigre attraverso una foresta notturna e piena di segreti. Ogni scena è diventata una tavola, ogni ricordo un frammento di fiaba. Ne è nata una saga visiva, un racconto che somiglia a un fumetto ma custodisce dentro di sé la densità dell’esperienza reale. Ora, con la curatrice Camilla Nacci, stiamo lavorando a un’antologia di queste opere. Un libro che possa raccoglierle tutte e restituire, anche ad altri corpi fragili o in lotta, la forza di uno sguardo simbolico, il potere di una narrazione trasformativa.

© Federico Masini

Un’ultima domanda. Recentemente hai curato un progetto meraviglioso, legato al mondo del vino: 6 etichette della Cantina La-Vis che vanno a costituire una nuova linea chiamata “Ritratti”…

“Ritratti” è il nome di una linea di vini – tre bianchi e tre rossi – ma è anche un modo per pensare il vino come un volto, una storia, una presenza. Il progetto è nato grazie a Gabriele Lorenzoni, curatore del Mart e responsabile della Galleria Civica di Trento, che (dopo una selezione tra 300 artisti) ha visto nel mio lavoro una possibilità: quella di tradurre, attraverso l’arte, la relazione profonda tra natura e identità. Il vino, del resto, non è che un ritratto liquido della terra che lo genera. Una volta scelta, mi hanno accompagnata tra i vigneti delle colline avisiane. È stata una giornata immersiva, sensoriale, quasi rituale. Ho toccato la terra, l’ho annusata, ascoltata. Ho percepito l’attenzione meticolosa con cui ogni filare viene curato, la passione autentica di chi lavora in armonia con il paesaggio. È da quella vibrazione – e non da un’idea commerciale o da una mostra – che è nato tutto. Un dialogo sincero, a cuore aperto, tra il mio linguaggio pittorico e quello del vino. Le mie tele, poi, si sono fatte piccole, si sono lasciate ridurre e trasformare in etichette. Ma senza perdere nulla della loro intensità: ogni dipinto è un ritratto che raccoglie odori, consistenze, tonalità di luce, la voce dell’uva, il respiro del paesaggio, il cielo che sovrasta i filari. Sono ritratti sensoriali, nei quali il vino si specchia come in un volto amato. Ho usato l’acrilico per dare corpo a figure che sono soglie: appaiono e scompaiono, si aprono e si chiudono, a seconda di come le guardi. Portano con sé la fragilità dei luoghi che abitano – in questo caso, la valle che accoglie le vigne. C’è una sinergia naturale tra il mio modo di dipingere e il mondo del vino: entrambi parlano per simboli, per metamorfosi, per emozioni. Entrambi chiedono lentezza, ascolto, profondità.

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