Cosa succede quando il “mostro” smette di essere soltanto ciò che ci spaventa? Quando smette di abitare solo gli incubi infantili o le cronache del terrore, e si rivela invece per ciò che è etimologicamente, storicamente, simbolicamente: un monstrum, un prodigio, un segnale, un messaggio che ci ammonisce e ci interroga?
Nella lingua latina, monstrum nasce dal verbo monere: ammonire, mettere in guardia. Il mostro non è quindi solo l’essere deforme o spaventoso, ma una presenza che rompe l’ordine consueto per mostrarci qualcosa che non vogliamo vedere. Può essere una creatura leggendaria o soprannaturale, certo. Ma può anche essere una pianta insanguinata che cresce su un cadavere, un corpo che rifiuta le norme, un’idea disturbante, un volto travisato dalla maschera sociale. Un prodigio che ci invita a riflettere, a risvegliare lo sguardo.

È da questa accezione originaria e complessa che prende le mosse MONSTRA. Una mostra prodigiosa, progetto espositivo ideato da Alchemica APS e curato da Camilla Nacci Zanetti, che sarà visitabile fino all’8 giugno alle Gallerie di Piedicastello, a Trento. Non una semplice raccolta di creature fantastiche, ma un viaggio nell’immaginario contemporaneo del mostruoso, una mappa aperta dove convivono paure ataviche e desideri inconfessati, simboli culturali e narrazioni storiche, arte e scienza, archivio e performance.
Mostri come alterità, mostri come specchi, mostri come linguaggio. Ventisei artisti e artiste ci guidano in un percorso che non vuole definire, ma dischiudere: dalla carnevalesca maschera alpina al mirabile oggetto scientifico, dall’incubo politico del Novecento alle chimere interiori. Il monstrum torna a parlarci. E, se ascoltiamo, qualcosa di prodigioso può ancora accadere.
Per addentrarci ancora di più nel cuore pulsante di MONSTRA ecco alcune domande alla curatrice Camilla Nacci Zanetti, per capire come nasce una mostra che mette al centro il mostruoso, il prodigioso, il perturbante — e cosa significa oggi, attraverso l’arte, interrogare il nostro rapporto con l’alterità e l’immaginazione
Come nasce questa mostra, Camilla?
L’idea di MONSTRA è nata nel 2022, da un confronto con alcuni degli artisti che seguo da tempo e con cui collaboro regolarmente — accomunati da una particolare attenzione verso gli aspetti mostruosi, animaleschi, fantastici della realtà. In particolare, il dialogo con Tommaso Buldini è stato centrale nella fase iniziale: con lui ho condiviso le prime riflessioni concettuali e ha poi realizzato una delle opere site-specific più impattanti dell’intera mostra. Il progetto ha preso una forma più strutturata anche grazie al lavoro di Ivonne Dalla Torre, che ha dedicato la sua tesi di laurea proprio all’identità visiva e a un’indagine antropologica legata a questa mostra. Siamo state messe in contatto da Federico Lanaro, e da lì è nata una collaborazione preziosa. Ivonne desiderava confrontarsi con la ricerca iconografica per un’esposizione contemporanea e insieme abbiamo costruito il progetto, che è stato poi presentato all’associazione Alchemica e, in seguito, sostenuto da realtà come Fondazione Caritro e condiviso con il Museo Storico del Trentino, il MUSE, il METS di San Michele all’Adige, le Gallerie di Piedicastello e numerosi prestatori privati.
La mostra si riferisce anche al concetto di mostruosità come forma di resistenza e di meraviglia. Quali sono gli aspetti che legano questa visione a temi storici come guerre, colonialismi e le paure legate al femminile?
L’orizzonte tematico della mostra è quello di invitare a una continua inversione di prospettiva. Per questo abbiamo scelto di esplorare la mostruosità anche nei suoi aspetti più inquietanti, quelli paradossalmente più radicati nella realtà: la guerra, il colonialismo, le disuguaglianze sociali. Abbiamo voluto evidenziare quanto possa essere mostruoso il modo in cui la società affronta — o respinge — la diversità, tutto ciò che si discosta dalla norma. Allo stesso tempo, però, abbiamo voluto proporre una lettura altra, più luminosa: abbracciare il diverso, riconoscerlo come possibilità di meraviglia e trasformazione, come voce necessaria in una narrazione più inclusiva e plurale.


Le Gallerie sono state il primo spazio a cui ho pensato per questa mostra. Rispetto ad altri luoghi espositivi, hanno una qualità più neutra e flessibile, che lascia agli artisti la possibilità di interpretare liberamente e di intervenire con opere pensate appositamente per l’ambiente. La mostra è estremamente ricca e stratificata, composta da contenuti molto diversi tra loro: uno spazio con forti preesistenze architettoniche o storiche avrebbe rischiato di soffocarne la complessità. Inoltre, il fatto che siano gestite dalla Fondazione Museo Storico del Trentino le rende naturalmente collegate alla dimensione del documento e della memoria, e questo ha permesso un dialogo prezioso tra arte contemporanea e fonti storiche. Proprio dagli archivi della Fondazione provengono alcuni materiali che ci riportano con forza alla realtà, risvegliandoci dall’incanto dell’immaginario. Le Gallerie, poi, sono uno spazio singolare: sotterraneo, scavato nella montagna, quasi uterino. Uno spazio che ha ispirato anche alcuni artisti a creare opere site-specific. È il caso, per esempio, di Francesco Diluca, che ha realizzato una grande scultura concepita proprio per questo luogo, da lui descritto come “una galleria nel ventre della montagna” — un passaggio oscuro e minerale che dialoga perfettamente con il concetto di mostruoso.

L’uso di materiale storico ed etnografico, come fotografie, disegni e lettere, permette di contestualizzare la mostruosità in una dimensione storica. Qual è il ruolo che questi artefatti giocano nel trasformare il concetto di “mostro” da un simbolo di paura a una forma di riflessione sociale e culturale?
Le testimonianze storiche sono una componente fondamentale della mostra e offrono una visione della cultura del mostro da una prospettiva etno-antropologica. Le maschere tradizionali provenienti dal METS e dai carnevali alpini raccontano molto del modo in cui, nel tempo, si è costruita l’idea di mostruosità, spesso legata a ciò che è diverso, ignoto, spaventoso — e per questo motivo anche ridicolizzato o esorcizzato. Le mascherate popolari seguono una struttura rituale ben precisa: c’è un primo momento di spavento, seguito da una fase cerimoniale, per concludersi con la festa e la burla, in cui il mostro viene smascherato, deriso, ridimensionato. La maschera del diavolo, ad esempio, incarna la paura più profonda, mentre quella scelta per rappresentare la mostra — un teschio — appartiene invece alla sfera della parodia e dello scherzo. Ma la mostra non si limita all’aspetto folklorico. Le testimonianze storiche raccontano anche il volto più oscuro dell’umanità: guerre, conquiste, lotte sociali — tutti ambiti in cui il concetto di “mostruoso” ha spesso coinciso con la percezione del nemico o del diverso. Allo stesso tempo, però, la mostruosità è stata anche sinonimo di meraviglia e di prodigio. Fin dal Medioevo, le anomalie della natura suscitavano stupore e curiosità: vitelli o maialini a due teste, la zanna di narvalo scambiata per un corno di unicorno… Questi reperti venivano raccolti e custoditi nelle Wunderkammer, le camere delle meraviglie, come oggetti rari e simboli di un mondo straordinario. Alcuni di questi esemplari provengono oggi dalle collezioni del MUSE: frammenti anatomici animali, conservati non solo per il loro valore scientifico, ma perché testimoni di un desiderio umano — antico quanto il collezionismo stesso — di afferrare l’inspiegabile, di toccare con mano l’eccezionale.

La mostra include anche un paesaggio sonoro e performance, che sono parte integrante dell’esperienza sensoriale. Come la dimensione uditiva e performativa delle opere modifica la percezione visiva della mostruosità, amplificando o trasformando il significato delle opere stesse?
La performance è stata concepita appositamente per l’inaugurazione della mostra, ma continua a vivere nello spazio espositivo sotto forma di installazione a parete e come video. È un gesto che invita il pubblico a entrare fisicamente e simbolicamente nell’universo della mostra: una camminata rituale, accompagnata da un trascinamento, un’azione potente che ha coinvolto chi era presente, immergendolo in un’atmosfera densa, a tratti inquieta. Dentro la performance si intrecciano diversi livelli di lettura: rimandi al mito, alla tradizione del territorio, alla deformità, allo specchiarsi — fino a riconoscere, forse, un frammento di mostro dentro di sé. Ad accompagnare i visitatori c’è anche un paesaggio sonoro, pensato per modulare l’esperienza sensoriale del percorso. Alternando momenti di tensione e distensione, il suono diventa una guida invisibile, una presenza che ci sostiene lungo la visita. Senza di esso, ci sentiremmo probabilmente più soli, meno immersi in questo viaggio tra meraviglia e perturbante.