Orobie, Dolomiti, Cervino: la texture umana delle vette “over 1.500”

Fotografare le Alpi #15. Intervista a Nicola Gotti

© Nicola Gotti

Nicola Gotti ha il cuore diviso tra i massicci alpini: le Orobie che lo hanno cresciuto “a pane e neve” nei suoi 39 anni di vita bergamasca, le Dolomiti che lo hanno accolto durante i cinque anni di studio a Bolzano e il Cervino che ora veglia sulla baita acquistata con la moglie conosciuta proprio in Val d'Aosta. Un triangolo perfetto che racchiude la sua geografia interiore. La fotografia è entrata nella sua vita per osmosi, attraverso lo sguardo dello zio e le macchine fotografiche ereditate, e si è affinata grazie all'incontro con Redento Magri, artigiano della stampa in bianco e nero che lo prese sotto la sua ala. 

Da quel momento, il percorso di Gotti si è snodato tra la Libera Università di Bolzano (“scelta per la vicinanza a Obereggen”), le discese in snowboard (“era il mio motivo di vita, ma il secondo era la fotografia”) e varie esperienze professionali come art director e direttore creativo in agenzie pubblicitarie. Oggi, dopo anni di allontanamento dalla macchina fotografica, è tornato a impugnare la sua Hasselblad 500C scegliendo la pellicola per i suoi progetti personali. Per difendersi dal digitale che domina il suo lavoro quotidiano, ha costruito un mondo parallelo fatto di 35mm e 120mm, in cui catturare in “Altitude Attitude” l'essenza della gente che vive tra le montagne che scandiscono il ritmo della sua vita.

 

Nicola, come nasce questo progetto fotografico?
Volevo raccontare l'attitudine delle persone che vivono in montagna, sopra i 1.500 metri: una quota che mi sono dato perché casa mia è a 1.495 metri. Quello che mi piace delle persone che vivono in montagna è questa ruvidità, quella sana riservatezza che fa sì che per conoscerle devi entrare in confidenza, costruire un legame. Sono rapporti fortissimi, indissolubili. Tutto è partito con uno scatto chiave a Rino Barrella: stavo facendo una camminata verso una diga e ho incontrato questo pastore dalla pelle del viso che pareva cuoio, in canotta, con un cappellino nero “valle del Cervino”, che camminava con due bastoni, un cane e un centinaio di vacche. Nonostante le anche usurate, aveva una felicità negli occhi incredibile: era al settimo cielo per poter fare la fontina con il latte delle sue mucche alimentate a erba grassa. Così ho cominciato a raccontare questa realtà. Il progetto non si esaurisce con le persone che vivono in pianta stabile in montagna, ma è fatto di un'attitudine: quella di persone che, quando sorpassano quei 1.500 metri di quota, cambiano un pochino. Come me. 

© Nicola Gotti

Come si declina il tuo progetto alpino?
È una domanda che io stesso mi pongo: qual è il limite che deve avere un progetto? Io vorrei che “Altitude Attitude” potesse non finire mai, che fosse un progetto monumentale. Ci sono due modi di fotografare: o ti immagini la fotografia prima, ce l'hai in testa e la vai a scattare, oppure ci sono fotografie più vicine allo street photography, più di impulso. Questo progetto è una via di mezzo, perché ci sono ritratti per i quali creo l'occasione, come quello di Rino che ho aspettato, e altri in cui invece capiti nel posto giusto al momento giusto. 

Quali le due immagini più “estreme”, i due poli agli antipodi che lo racchiudono?
La foto di “apertura” potrebbe essere proprio il ritratto di Rino e la “chiusura” forse, per contrasto tra gli scatti, direi un'immagine del ghiacciaio. Rino è una statua, un bronzo di Riace, anche solo per il colore della pelle: di sfondo, nel ritratto, ha il Cervino e sembra un tessuto unico, le rocce della parete, il terreno circostante e lui hanno la stessa texture. Mi piace tantissimo il cappellino nero con la scritta in giallo fluorescente, ma soprattutto la pelle, ne ho colto il dettaglio: cotta dal sole, da ore e ore all'aria aperta. E poi gli occhi felici, lo sguardo fiero, senza rimpianti. Mentre gli scatti al ghiacciaio sono duri: catturano un paesaggio meraviglioso, il letto del ghiacciaio, che sembra un paesaggio lunare. È un bianco e nero molto contrastato che lascia spazio a riflessioni.

© Nicola Gotti

Cosa rende riconoscibile il tuo stile fotografico?
Mi piace pensare che sia la pasta delle fotografie. A me piace molto la pellicola: in particolare il TMax di Kodak per il bianco e nero, perché adoro i contrasti, le scale di grigio e i neri pieni, e il Kodak Portra, una pellicola a colore molto calda. Mi piace quel pastone e va in quella direzione anche la scelta delle ottiche nostalgiche, vecchie, che hanno una definizione incredibile. Oggi con una macchina moderna le fotografie sono pulitissime, incredibilmente perfette; a me piacciono invece gli sfocati, le imperfezioni, quella morbidezza più tipica dell'analogico che del digitale. A volte catturo scatti un po' crudi, arrivo anche molto vicino al soggetto, alla pelle, alla goccia di sudore. 

Come nasce il desiderio di indagare le Alpi?
Nasce insieme a me, probabilmente. Più che un desiderio, è qualcosa che mi fa star bene: imprimere determinati momenti e le sensazioni che vivo in quei contesti montani mi mette in pace l'anima. Tant'è che qualche anno fa ho aperto un altro profilo Instagram, Battista Gotti: un alter ego in cui colleziono gli scatti che guardo prima di andare a letto e sono i miei personali memorabilia, mi fanno stare sereno. 

© Nicola Gotti

Riconosci un'evoluzione nei tuoi scatti alpini?
Ho ripreso in mano la macchina fotografica due anni fa, dopo una vita che non scattavo più. Nel frattempo ho sviluppato un senso critico per mestiere. In questo momento mi rimprovero di non avvicinarmi di più ai soggetti: vorrei andare molto più vicino e non è una questione di ottica o di tecnica, ma di approccio, di osare di più. Uno degli obiettivi che mi do è raccontare di più i dettagli, che sono quelli che poi fanno la storia. 

Con quale approccio hai scelto di immortalare l'arco alpino?
Vorrei è essere da ponte fra quello che sento io in quei luoghi, in quegli spazi, tra quelle persone, e quello che vorrei trasferire agli altri. Quindi il mio è sicuramente un approccio tra il narrativo, il documentaristico e l'intimo nel raccontare quello che avviene sopra i 1.500 metri. 

© Nicola Gotti
About the authorSilvia M. C. SenetteSono stata una bambina “multipotenziale” ante litteram. Ora sono una donna “multicomunicativa”: giornalista per curiosità e per una [...] More
Cosa hai scoperto in questa tua indagine fotografica?
Ho scoperto sicuramente che stare intorno alle montagne mi fa stare bene. Ho scoperto tante storie, alcune scattate e altre ancora da scattare. Nel portare avanti questi progetti, quello che mi stimola è guardare con più attenzione; che è poi un esercizio, una ricerca di quei dettagli che a volte scivolano via. Grazie alla fotografia mi faccio mille domande, cerco un perché, scopro che magari una tendina che ho visto a mezza finestra per anni, fotografata è un dettaglio che racconta tante cose. 

Com'è, oggi, il tuo rapporto con la montagna?
Ossessivo compulsivo. È un rapporto d'amore e di insaziabilità, di perenne insoddisfazione perché la vivo poco, nonostante la viva tantissimo. È anche un rapporto di dipendenza. La montagna mi fa paura il giusto: faccio scialpinismo, ferrate, camminate, un po' di falesie, di arrampicate. La paura è giusto che la montagna la faccia, perché è estremamente più grande di noi e va rispettata, deve farti usare la testa. Sento che la natura vera, forte, deve far parte della mia vita in un equilibrio fatto di rispetto per quello che potremmo perdere: qualcosa di stupendo, magnifico, che domani potrebbe non esserci più. 

Quale consideri il tuo scatto migliore?
Forse lo scatto di Rino, perché ha un pensiero che mi sta portando anche a riprendere la progettualità personale e un pensiero sulle mie montagne, che definisco casa. E non è la Val d'Aosta o le Orobie o le Dolomiti; sono tutte e tre, tre capisaldi. Rino in quella chiacchierata, al di là dello scatto in sé, mi ha fatto riflettere e sistemare dei tasselli di vita; quindi quello scatto, che forse non è il migliore, resta il mio preferito. 
 
 
 

Senti il desiderio di catturare un'immagine ancora mai scattata?
Mi piacerebbe tanto andare a scattare in banco ottico o in medio formato, con una pellicola importante, portarmi dietro il cavalletto, dedicare un'intera giornata e stare lì in mezzo ai giganti di ghiaccio che ci stanno salutando e immortalarli. Un ghiacciaio che mi intriga, perché ci vado a pellare e perché ci passo l'estate, è il Matterhorn Glacier, sotto il Cervino. Ho in mente gli scatti che vorrei portare a casa, sia in estate sia in inverno, perché vedi proprio il cambiamento drammatico e repentino che abbiamo sotto gli occhi.

 
 

SHARE
//