
La luna piena di febbraio si specchia nei ghiacciai, colmando la montagna di un chiarore che non è luce, ma memoria. Il gelo avvolge ogni cosa, eppure non è crudele: protegge la neve dal tempo, culla i semi dormienti sotto la crosta bianca. Qui l’inverno non è attesa, ma un ciclo che nutre.
Samblana avanza senza lasciare orme. Il suo passo è leggero come quello di chi non appartiene solo a questo mondo. Dietro di lei, le gemelle Yemeles la seguono, silenziose come il respiro della notte. Sono identiche e opposte: una sorride anche nel sonno, l’altra veglia sempre.
Si fermano su una roccia che conosce il peso degli inverni. Non c’è vita qui, solo il vento che incide il tempo sulle pietre. Ma Samblana sa che le cose invisibili hanno più radici di quelle visibili.
“È ora,” sussurra.
Le gemelle annuiscono. Nessuna parola è necessaria. Samblana solleva le mani al cielo: tra le sue dita, la luna trema come acqua sottile. Le Yemeles si inginocchiano sulla pietra e affondano le mani nel gelo. Nessuna radice potrebbe attecchire qui, nessun fiore potrebbe nascere tra queste fenditure aride. Eppure, stanotte qualcosa cambierà.
“Ci sono fiori che non chiedono terra,” dice Samblana, mentre le sue dita sfiorano l’aria come fili invisibili. “Ci sono fiori che nascono per resistere.”
Le Yemeles chiudono gli occhi e iniziano a cantare. Non è un canto che si ascolta con le orecchie, ma con le ossa, con il cuore, con tutto ciò che vibra nel profondo. È il canto delle donne che hanno vegliato nella notte, delle bambine che hanno corso scalze nei boschi, delle madri che hanno raccontato storie accanto al fuoco, delle sorelle che hanno intrecciato parole come rami d’inverno.
La montagna le ascolta.
Dapprima è un fremito impercettibile, un battito nascosto nelle vene della pietra. Poi, qualcosa si muove. Una radice sottile come un respiro si fa strada nella roccia. Un gambo pallido si allunga verso il cielo, con la grazia di chi conosce il tempo e non lo teme.
Poi, con un fremito lieve, i petali si schiudono.
Cinque lembi di neve viva, un cuore dorato, un fiore che non conoscerà mai la primavera. È bianco come l’alito del vento, forte come la pietra che lo accoglie. È il ricordo di qualcosa di antico, un segreto che la montagna ha sempre custodito e che ora si manifesta.
Le Yemeles sorridono, specchiandosi l’una nell’altra. Samblana si china e sfiora il fiore con la punta delle dita, come si accarezza la fronte di una bambina addormentata.
“Le civiltà matrifocali lo sapevano,” mormora. “Sapevano che la forza non sta nel dominio, ma nel legame. Che la fragilità è solo un’altra forma di resistenza. Che la neve protegge, non uccide. Noi non spegniamo l’inverno, lo custodiamo.”
Le gemelle annuiscono. La montagna è loro madre, la neve è loro sorella, la luna è la veglia che le accompagna. E ora, anche quel fiore appartiene a loro.
Un fiore che non chiede mani, ma sguardi. Che non cerca cure, ma rispetto. Un fiore che sopravvive non perché sfida il gelo, ma perché sa appartenergli.
Samblana si rialza, osservando la distesa bianca attorno a sé.
“Chi verrà a cercarlo?” chiede.
Il vento raccoglie le sue parole e le disperde nella notte. Forse nessuna risponderà. O forse, un giorno, qualcuna si fermerà davanti a quel piccolo fiore e capirà che non è solo un fiore. È una storia, un’eredità, una domanda aperta che la montagna non smette di porre.